Leopoldo II del Belgio e Trump: le affinità elettive tra il vecchio e il nuovo colonialismo
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Leopoldo II del Belgio e Trump: le affinità elettive tra il vecchio e il nuovo colonialismo

Dopo l’elezione al suo secondo mandato, Donald Trump torna alla carica. E come Leopoldo inviò Stanley a studiare il Congo, il 7 gennaio scorso Trump invia il figlio Don Junior nella capitale groenlandese Nuuk

Leopoldo II del Belgio e Trump: le affinità elettive tra il vecchio e il nuovo colonialismo
Leopoldo II del Belgio
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12 Marzo 2025 - 16.32


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di Pierluigi Franco

Un salto nella seconda metà dell’Ottocento. A ben osservare quanto sta accadendo nel mondo, sembra essere ripiombati in quel lontano passato. Un passato nel quale alcune zone particolarmente appetibili diventavano facile preda di chi era più forte. Quando chi abitava in un certo luogo ambito, ma era debole e povero, era considerato in qualche modo un inferiore da dominare e da sfruttare. Era l’Europa dei grandi Stati coloniali, ma anche di qualche regnante che riteneva di poter fare di territori lontani una proprietà privata pur usando la forza dello Stato. È il caso emblematico di Leopoldo II di Sassonia-Coburgo e Gotha, che salì al trono del Belgio nel 1865 con la fissazione delle colonie d’oltremare. Poiché ai suoi collaboratori e ai suoi sudditi non interessava nulla delle colonie, decise di fare da solo. La sua attenzione cadde sul Congo, per grande sfortuna della povera gente che vi abitava. Prima che quella terra divenisse nel 1908 il Congo Belga, colonia “di Stato” che Bruxelles mantenne fino al 1960, era infatti considerata proprietà di Leopoldo come dominio personale. Infatti, dopo aver mandato in esplorazione nientemeno che Henry Morton Stanley, Leopoldo fondò il suo regno privato e lo chiamò “Stato Libero del Congo” in barba alla crudeltà e alla schiavitù che ne caratterizzarono la gestione.

Nel 2025, almeno si spera, non ci sarà più qualcosa di simile a uno Stato Libero del Congo, ma tutto sembra far presupporre che gli appetiti neocoloniali stiano nuovamente facendo capolino. Se in qualche modo si può dire che lo sfruttamento di risorse situate in territori esterni ai propri confini non sia cosa nuova, va dato atto al Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, di parlare chiaro e di dire apertamente ciò che pensa e ciò che vuole. Già nell’agosto del 2019, al suo primo mandato, Trump aveva espresso il desiderio di “acquistare” la Groenlandia. In quella occasione danesi e groenlandesi dissero chiaramente che l’isola di ghiaccio, che forse un tempo era verde come vuole il nome, non era in vendita. 

Subito dopo l’elezione al suo secondo mandato, Donald Trump torna alla carica. E come Leopoldo inviò Stanley a studiare il Congo, il 7 gennaio scorso Trump invia il figlio Don Junior nella capitale groenlandese Nuuk per tastare il polso alla gente del posto. A darne l’annuncio è lo stesso Presidente americano, confermando la visita del figlio e di altri suoi rappresentati: <<È un posto incredibile e la gente ne trarrà enormi benefici se e quando diventerà parte della nostra nazione. Lo proteggeremo e lo custodiremo da un mondo esterno molto feroce. Rendere ancora grande la Groenlandia!>>. 

Qualche giorno dopo, il 26 gennaio, Trump torna sull’argomento incontrando i giornalisti a bordo dell’Air Force One: <<La Groenlandia? Penso che la avremo. E penso che i suoi 55.000 abitanti (in realtà sono 57.000, n.d.r.) vogliano stare con noi. Non so davvero quali pretese abbia la Danimarca su di essa. Ma sarebbe un atto molto ostile se non lo permettessero>>. Un avvertimento alla Prima ministra danese, Mette Frederiksen, che in una lunga telefonata, definita “di fuoco” dagli addetti ai lavori, aveva detto ancora una volta a Trump che <<la Groenlandia non è in vendita>>. Ma Donald non molla. E parlando il 4 marzo al Congresso sullo stato dell’Unione ribadisce l’intenzione di impossessarsi della Groenlandia: <<Penso che ce la faremo. In un modo o nell’altro ce la faremo>>. 

In realtà gli Usa hanno già un piede sul suolo groenlandese con una base della United States Space Force, denominata Pituffik Space Base, realizzata nel 1951 in forza di un accordo di difesa tra Danimarca e Stati Uniti in ambito Nato. Si tratta dell’installazione più a nord delle Forze armate statunitensi, poiché Pituffik Space Base si trova a 1.210 chilometri a nord del Circolo polare artico e ad appena 1.524 chilometri dal Polo Nord. In ogni caso nella base, secondo quanto stabilito nell’accordo del 1951, la bandiera nazionale danese deve essere affiancata alla bandiera nazionale statunitense. Un modo chiaro per rimarcare di chi è quel suolo e perché lo concede. 

Nonostante le dichiarazioni benefiche, è assai difficile pensare che Donald Trump voglia la Groenlandia per garantire all’isola una sicurezza che nessuno sembra mettere in pericolo. Sebbene abbia ottenuto l’autonomia nel 1979, l’isola è rimasta legata alla Danimarca da cui dipende come “nazione costitutiva del Regno di Danimarca”, pur avendo una sua bandiera e istituzioni proprie, oltre alla cultura e alla lingua (il kalaallisut, di radice eschimo-aleutina). Con circa 57.000 abitanti a fronte di un territorio vasto 2,16 milioni di chilometri quadrati che ne fanno l’isola non continentale più grande del mondo, la Groenlandia nasconde molti tesori minerari sempre più ambiti. Non è un caso che l’United States Geological Survey abbia dedicato all’isola artica un corposo dossier riferendo che la Groenlandia nasconde importanti giacimenti di petrolio e di gas, oltre a oro, diamanti, rubini, zinco, tantalio, zirconio e terre rare come il neodimio. Una ricchezza inestimabile. Ma a tutto ciò si aggiunge che la Groenlandia è anche molto importante per il controllo di rotte marittime strategiche, soprattutto nella sempre più evidente corsa artica. 

Un quadro che dovrebbe imporre all’Unione europea, alla quale la Groenlandia appartiene, di svegliarsi dal torpore e cominciare a contare davvero qualcosa. Invece da Bruxelles, affaccendata in tutt’altre faccende guerresche, non c’è voce alcuna. E resta tutto da vedere su come evolverà la situazione dopo le elezioni legislative in Groenlandia dell’11 marzo che hanno sancito una vittoria netta dell’opposizione di centrodestra. Un voto contraddistinto da un’ondata di nazionalismo tesa a chiedere che l’isola artica raggiunga rapidamente l’indipendenza dalla Danimarca. Difficile capire se questo potrebbe in qualche modo aprire le porte alle ambizioni di Trump.

Ma le dichiarate intenzioni espansionistiche di Donald non si fermano alla Groenlandia, tanto da aver messo in allarme i vertici del Canada che lui vorrebbe come 51° Stato degli Usa. Tra dazi e dichiarazioni infuocate, Trump insiste nell’usare toni forti anche con Ottawa, affermando che gli Stati Uniti perdono centinaia di milioni all’anno in deficit commerciali a favore del Canada, Paese che <<fa quasi il 90% dei suoi affari con gli Stati Uniti>>. Il Presidente americano parla direttamente ai canadesi: <<Non voglio spendere centinaia di milioni di dollari per sostenere il Canada, a meno che non sia uno Stato americano>>, in questo caso, afferma Trump, i cittadini canadesi <<pagherebbero meno tasse e sarebbero più sicuri>>. 

Trump è talmente preso dal frangente che il 13 febbraio scorso, tornando a “suggerire” al Canada di diventare il 51° Stato Usa, riferisce di aver parlato con <<il governatore Trudeau>> definendolo quindi con il titolo riservato a chi è a capo di uno Stato federale statunitense. E proprio a Justin Trudeau tiene a ricordare che <<il Canada non ha protezione militare>>. Il quadro preoccupa non poco i vertici canadesi, sempre più pressati. Tanto che il Primo ministro Trudeau si reca il 3 marzo in visita a Londra da re Carlo III per discutere della sovranità del Canada a seguito delle intenzioni di Trump. Nel colloquio con Carlo III, informato in qualità di Capo di Stato del Paese nordamericano membro del Commonwealth, Trudeau rimarca <<la fondamentale importanza per i canadesi della difesa della sovranità e dell’indipendenza nazionale>>, mostrando tutta l’apprensione per un pressing che rischia di sfociare in qualcosa di incontrollabile.

Ma non basta, perché l’11 marzo Trump annuncia di aver incaricato il suo Segretario al Commercio di applicare <<una tariffa aggiuntiva del 25% ai dazi, arrivando quindi al 50%, su tutto l’acciaio e l’alluminio in arrivo negli Stati Uniti dal Canada>> come reazione ai dazi del 25% sull’elettricità imposti dall’Ontario per rispondere a sua volta a quelli americani. Secche e decise le parole di Trump, degne della consapevolezza di essere più forte: <<l’unica cosa sensata per il Canada è diventare il 51° Stato americano>>. A fronte del raddoppio dei dazi, l’Ontario dichiara di voler fare marcia indietro sperando che gli Usa facciano altrettanto. E Trump vince ancora.

Ma l’inarrestabile Donald guarda anche oltre, da Panama a Gaza. Su Panama, in particolare, appare più che deciso. E, parlando al Congresso il 4 marzo, ribadisce: <<Ci riprenderemo il Canale di Panama>>, la cui costruzione è avvenuta <<al costo di migliaia di vite americane>>. Per ora non si parla di riprenderlo con le armi, stando almeno a quanto sta avvenendo sul fronte delle acquisizioni. Infatti a inizio marzo un consorzio guidato dall’americana “BlackRock” ha concordato l’acquisto per 22,8 miliardi di dollari di due porti del Canale di Panama (Balboa e Cristobal) attualmente di proprietà della società di Hong Kong “Ck Hutchinson”, colosso che fa capo alla famiglia Li, una delle più ricche dell’Asia. L’operazione rappresenta quindi una vittoria per Donald Trump, ossessionato dal fatto che il Canale di Panama, costruito dagli americani, è gestito dai cinesi. Negli ultimi giorni i dirigenti di “BlackRock”, guidati dall’amministratore delegato Larry Fink, hanno informato Trump e il Segretario di Stato Marco Rubio sui contorni dell’accordo, ricevendo il loro sostegno. Ma su Panama non sono mancate intimidazioni di ogni tipo. All’inizio di febbraio Rubio aveva messo in guardia il Presidente di Panama, Josè Raul Mulino, “invitandolo” a ridurre l’influenza cinese sul canale o, in caso contrario, a prepararsi ad affrontare forti ritorsioni americane. D’altra parte Trump ha definito <<folle>> la concessione a Panama del controllo del canale, avvenuta nel 1997 con un trattato firmato dall’ex Presidente americano Jimmy Carter. La questione, però, non sembra ancora chiusa poiché il 5 marzo il Presidente panamense Mulino è tornato sull’argomento affermando, dopo le parole di Trump al Congresso, che <<ancora una volta, il Presidente americano mente; il Canale di Panama non è in via di restituzione>>.

C’è poi la questione di Gaza. Un paradiso in riva al Mediterraneo secondo Trump, un luogo di tragedie e di morte secondo il mondo. La proposta del Presidente americano è quella di espellere 2,1 milioni di palestinesi da Gaza, portandoli in altri Paesi arabi, e di trasformare l’enclave in una “Riviera” che diventerebbe, non si sa bene a che titolo, di proprietà degli Stati Uniti d’America. Il 26 febbraio scorso si è raggiunto il culmine con un video di poco più di trenta secondi creato con l’intelligenza artificiale che presenta la nuova “Riviera del Medio Oriente”. <<No more tunnel, no more fear, Trump Gaza is finally here>>, canta una voce su un ritmo dance stile anni ‘90. Una clip scioccante che Donald rilancia sul suo social Truth, probabilmente ben cosciente di scatenare una bufera di polemiche. Nel video le rovine di Gaza vengono trasformate nella sfavillante “Gaza di Trump”, con grattacieli a ridosso di fantastici stabilimenti balneari in un quadro drammaticamente kitsch che ricorda un misto tra Dubai e Las Vegas, con tanto di danzatrici del ventre e bambini con palloncini raffiguranti il volto di Trump. Ma non manca neppure una gigantesca statua dorata del Presidente americano, così come Elon Musk che passeggia sotto una pioggia di dollari e l’immagine conclusiva con Trump e Benjamin Netanyahu sdraiati in costume su lettini in riva al mare a sorseggiare cocktail. 

Un messaggio o una provocazione? Difficile dirlo. Di certo si tratta di segnali importanti da non sottovalutare. Così come è difficile dire se il mondo stia semplicemente cambiando rapidamente per trovare nuovi assetti o se invece stia tornando indietro a grandi passi. Probabilmente non ci sarà più lo Stato Libero del Congo di leopoldina proprietà, ma nulla esclude che l’accentramento di ricchezze immense nelle mani di pochi possa portare a nuovi appetiti coloniali. Magari in forma di proprietà privata. Leopoldo docet.

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