In Siria una faida infinita
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In Siria una faida infinita

In un Paese squassato da una pluridecennale guerra civile trasformatasi nel corso degli anni in una guerra per procura, l’uscita di scena del “macellaio di Damasco”, il presidente Bashar al-Assad”, non ha portato alla pacificazione. 

In Siria una faida infinita
Miliziani lalisti in Siria
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

9 Marzo 2025 - 22.21


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La Siria non conosce pace. In un Paese squassato da una pluridecennale guerra civile trasformatasi nel corso degli anni in una guerra per procura, l’uscita di scena del “macellaio di Damasco”, il presidente Bashar al-Assad”, non ha portato alla pacificazione.  Una conta infinita di morti civili, tra cui donne e bambini, una giostra infernale di nomi di villaggi alawiti, sulla costa siriana e sulle rive dell’Oronte, dove i corpi degli uccisi sono rimasti a lungo per le strade e dove le case hanno bruciato dopo il passaggio di miliziani sunniti, siriani ma anche stranieri.

Dei paesi occidentali e arabi solo la Francia ha condannato le violenze contro gli alawiti siriani.

Scrive su Il Corriere della Sera Andre Nicastro: “I metodi sono tipici degli sgherri del dittatore al-Assadma anche dei tagliagole dello Stato Islamico. Barbarie allo stato puro. Civili fatti strisciare per essere colpiti prima a una gamba, poi alla pancia, poi, guardandoli negli occhi alla testa. Sgozzati. Trascinati fuori casa e uccisi in strada con moglie e figli che guardano dalla porta. Intere famiglie sterminate. Perché? Vendette, minimizza il nuovo governo della Siria. Vicini di casa vessati per decenni dagli ex padroni del Paese che ora hanno colto l’occasione per restituire la violenza. «Ma abbiamo già compiuto degli arresti. Certi eccessi non sono accettabili», fanno sapere dai palazzi che erano di un dittatore filoiraniano e ora sono di un autoproclamato presidente che dice di voler andare d’accordo con tutti.

I numeri fanno impressione. La Siria non riesce proprio a perdere l’abitudine alle stragi”. 

L’Osservatorio siriano per i diritti umani, un ong che da anni monitora la guerra in Siria e ha sede in Gran Bretagna, ieri ha indicato che più di 1.000 persone sono state uccise nei due giorni di combattimenti nella regione costiera del Mediterraneo, in una delle peggiori violenze da anni in un conflitto civile durato 13 anni.

 Il bilancio è in continuo aggiornamento, mentre arrivano dalle varie località colpite i necrologi delle famiglie sterminate, assieme alle numerose foto di corpi scomposti – la cui autenticità è stata verificata incrociando diverse testimonianze sul terreno – e senza vita di uomini, donne e bambini, riversi a terra, sui divani, sui letti, con fori di arma da fuoco al capo, al ventre, al petto.

La Rete siriana per i diritti umani, da alcuni considerata vicina al nuovo governo guidato da Jolani, fino a poche settimane fa a capo della coalizione jihadista Hayat Tahrir Sham (Hts), ha riferito di oltre 120 militari governativi uccisi da membri dell’ex regime degli Assad. 


Tutto è cominciato giovedì scorso, con un agguato da parte dei miliziani alawiti, indicati come “membri dell’ex regime”, contro una pattuglia di armati governativi nella zona di Jabla, a sud di Latakia, principale porto siriano.

L’uccisione di 14 armati governativi e gli attacchi sferrati da altre cellule dell’ex regime nella regione di Latakia e a Baniyas anche contro civili sunniti (la Rete siriana ha contato 26 civili sunniti uccisi) ha innescato una spirale di violenza, da troppo tempo, decenni in molti casi, rimasta sotto le ceneri di un paese sempre più segnato dall’odio intercomunitario. 


Il presidente è intervenuto ieri sera con un discorso pubblico, di fatto a sostegno delle uccisioni in corso. Jolani ha minacciato “i membri dell’ex regime” di arrendersi senza però condannare le violazioni dei miliziani fino a poche settimane ai suoi ordini. Tra questi, come dimostrano diverse testimonianze, foto e filmati, ci sono combattenti caucasici, dell’Asia Centrale e della Cina, rimasti negli ultimi tre mesi sulle montagne tra le regioni di Idlib e quella di Latakia.

Gran parte delle uccisioni sommarie avvenute nelle case, per le strade, negli oliveti e nei campi di grano della zona costiera e a ovest di Hama sono state compiute tra venerdì e sabato mattina. 


Nel pomeriggio, i media governativi hanno riferito di una situazione “gradualmente sotto controllo”. Il ministero della difesa di Damasco ha diffuso un comunicato invitando “la cittadinanza a tornare alle proprie case… non c’è ragione di essere preoccupati”, ha detto un portavoce del ministero mentre altri video choc provenivano dai teatri dei massacri.  

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Baniyas, cittadina costiera mista alawita, sunnita e cristiana, già luogo di un eccidio di oltre 100 persone nel 2013 per mano delle forze di Assad, è stata una delle località più colpite nelle ultime ore: miliziani locali, sunniti, molti dei quali familiari delle vittime del massacro di 12 anni fa, sono entrati casa per casa nei quartieri di Qusur, Ras Nabaa e Ayn al Arus, uccidendo “chi non è potuto scappare”. “Quello di bruciato è un buon odore!”, dice un miliziano, ridacchiando mentre riprende col suo cellulare la via di un quartiere colpito, ora spopolato e dove si levano colonne di fumo dagli scantinati. Qui decine di miliziani portano via tutto quello che possono dalle case violate. “Abbiamo fatto bene…”, dice un altro miliziano.  “Questa gente capisce solo questo!”. 

 I video e le testimonianze di uccisioni indiscriminate nelle zone degli scontri, attribuite soprattutto alle forze governative e ai danni della popolazione alawita, hanno cominciato a circolare fin da venerdì. La sera stessa il presidente siriano Ahmed al Sharaa ha rivolto un appello alle sue forze di sicurezza per evitare attacchi contro i civili: «Quando compromettiamo la nostra etica ci mettiamo allo stesso livello dei nostri nemici», ha detto. «Quello che resta del vecchio regime sta cercando una provocazione che porti a violazioni dietro le quali possono nascondersi».

Sabato il ministero dell’Informazione ha negato le accuse di violazioni, ma ha detto che il governo condurrà un’indagine per verificare se ci siano stati attacchi contro i civili durante gli scontri armati.

Durante la guerra civile siriana il regime di Assad ha compiuto enormi massacri contro i civili che gli si opponevano, affamando volutamente le città che resistevano e arrivando in più di un’occasione a utilizzare le armi chimiche.

 “Dobbiamo preservare l’unità nazionale e la pace interna, possiamo vivere insieme”, ha detto al Sharaa, il presidente ad interim, mentre continuavano gli scontri tra le forze legate ai suoi ex jihadisti e i combattenti alawiti filo-Assad.

“Siate certi della Siria, questo paese ha le caratteristiche per sopravvivere”, ha detto al Sharaa in un video diffuso da una moschea nel quartiere della sua infanzia di Mazzah, a Damasco. “Quello che sta accadendo attualmente in Siria rientra nelle sfide previste”. Assad è stato rovesciato lo scorso dicembre dopo decenni di governo dinastico della sua famiglia, segnati da una dura repressione e da una devastante guerra civile contro ribelli e forze jihadiste.

Fonti della sicurezza siriana hanno affermato che almeno 200 dei loro membri sono stati uccisi negli scontri con ex militari fedeli ad Assad dopo attacchi coordinati e imboscate alle loro forze, condotti giovedì.

Migliaia di sostenitori armati dei nuovi governanti siriani provenienti da tutto il paese sono accorsi nelle zone costiere per supportare le forze assediate della nuova amministrazione e hanno dato il via a una spietata repressione fatta di vendette brutali e inaudita violenza.

Le autorità hanno attribuito le esecuzioni sommarie di decine di giovani e le incursioni mortali nelle case di villaggi e città abitate dalla minoranza siriana un tempo al potere a milizie armate indisciplinate che sono arrivate per aiutare le forze di sicurezza e che da tempo incolpano i sostenitori di Assad per i crimini passati. Gli scontri sono continuati durante la notte in diverse città, dove gruppi armati hanno sparato contro le forze di sicurezza e teso imboscate alle auto sulle autostrade che portano alle principali città della zona costiera, ha riferito a Reuters una fonte della sicurezza siriana che ha aggiunto che gli insorti pro-Assad stanno intensificando la loro campagna, organizzando attacchi mordi e fuggi a diversi servizi pubblici nelle ultime 24 ore.

Hanno danneggiato una centrale elettrica principale che ha interrotto l’elettricità in alcune parti della provincia, mentre una stazione di pompaggio dell’acqua e diversi depositi di carburante sono stati interrotti. “Ora stanno cercando di creare scompiglio e attaccare installazioni vitali”, ha aggiunto.

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La comunità internazionale sta seguendo con attenzione l’evolversi degli eventi in Siria e molte cancellerie, per la maggior parte schierate con le nuove autorità siriane, non nascondono preoccupazione. Le uccisioni di civili in Siria “devono cessare immediatamente”, ha dichiarato in un comunicato Volker Turk, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani. Il segretario di Stato americano Marco Rubio ha condannato i “massacri” delle minoranze in Siria e ha chiesto all’amministrazione provvisoria siriana di perseguirne gli “autori”. “Le autorità provvisorie della Siria devono rendere conto degli autori di questi massacri contro le comunità minoritarie siriane”, ha dichiarato Rubio in un comunicato.

Anche nel testo dell’Angelus scritto da Papa Francesco, ricoverato al Gemelli di Roma, c’è un riferimento alla Siria. “Ho appreso con preoccupazione della ripresa di violenze in alcune zone della Siria: auspico che cessino definitivamente, nel pieno rispetto di tutte le componenti etniche e religiose della società, specialmente dei civili”, si legge. Un accorato appello è arrivato anche dei patriarchi delle Chiese cristiane con sede a Damasco, che hanno condannato “con forza” l’escalation di violenza in Siria che ha preso di mira i civili e hanno chiesto “la fine immediata di queste azioni orribili che contraddicono tutti i valori umani e morali”. In un comunicato congiunto, il patriarca greco-ortodosso John X, quello siriaco ortodosso Mor Ignatius Aphrem II e il patriarca melchita cattolico Youssef Absi hanno chiesto la “rapida creazione di condizioni che portino alla riconciliazione nazionale del popolo siriano”.

Comunità contro

Di grande interesse è il report per Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale, tra i più accreditati think thank di geopolitica italiani) di Matteo Colombo e Mauro Primavera 

Rimarcano gli autori: “Il crollo del regime siriano, oltre che dalla già menzionata crisi socioeconomica e dal mancato sostegno degli alleati russo e iraniano, è stato causato da due fattori. Il primo riguarda la disgregazione della forza militare nazionale, l’Esercito arabo siriano (Saa), che già versava in gravi condizioni. Piagato da corruzione, favoritismo e influenze straniere, il Saa si è letteralmente dissolto senza quasi combattere. In passato Damasco aveva tentato di riformare l’esercito trasformandolo da struttura basata sulla coscrizione obbligatoria a forza armata composta da militari professionisti, ma il progetto non era mai stato realizzato.

La leva obbligatoria aveva generato malessere tra i giovani siriani, molti dei quali avevano preferito abbandonare il paese. L’arruolamento forzoso ha pertanto prodotto l’effetto opposto a quello auspicato dal regime, ossia una progressiva diminuzione delle reclute a disposizione del Saa. Inoltre, il taglio dei sussidi governativi aveva indebolito ulteriormente la sua capacità bellica: stando ai resoconti di alcuni coscritti, lo stipendio medio di un soldato semplice non superava le 500.000 lire siriane, equivalenti a circa 40 dollari. La decisione presa il 4 dicembre da Assad di alzare del 50% i salari dei militari (un aumento che in realtà corrispondeva a pochi dollari a causa della elevatissima inflazione) si è rivelata una manovra tardiva e priva di qualsiasi efficacia[8]. Il secondo fattore è rappresentato dal deterioramento della relazione tra la cerchia presidenziale e la comunità religiosa di appartenenza, ossia la setta alawita. Nel corso della guerra civile la minoranza di derivazione sciita aveva sostenuto l’operato del governo e fornito il maggior contributo di soldati al Saa; tuttavia, solo poche famiglie avrebbero tratto beneficio dai legami con l’establishment damasceno mentre la maggioranza della comunità ha sofferto, al pari del resto della società siriana, il costante peggioramento delle condizioni di vita[9]. L’incapacità dell’amministrazione centrale di trovare una soluzione politica in accordo con le opposizioni e le offerte di Hts sulla concessione dell’amnistia ai soldati alawiti, in cambio della diserzione, ha innescato il processo di disgregazione finale. Oltre alla debolezza della compagine governativa, il successo di “deterrenza contro l’aggressione” è dovuto in larga misura a un sensibile miglioramento delle capacità militari di Hay’at Tahrir al-Sham, che negli ultimi anni ha costruito una vera e propria accademia militare completa di comando centrale, addestramento di unità speciali di fanteria e di cecchini e fabbriche locali di armi.

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Il leader di Hay’at Tahrir al-Sham Ahmed al-Sharaʿ, vero nome di Abu Muhammad al-Jawlani, dopo aver amministrato per anni Idlib, è chiamato a governare un paese prostrato da quasi quattordici anni di guerra.  

Per il momento al-Sharaʿ mantiene un atteggiamento prudente e moderato: dopo la caduta del regime, ha organizzato un formale e pacifico passaggio di consegne tra il premier baathista al-Jalali e il governo provvisorio delle opposizioni presieduto da Muhammad Bashir, braccio destro di al-Jawlani ed ex membro del Governo di salvezza nazionale a Idlib. Nei giorni successivi al-Sharaʿ ha illustrato, seppur in modo vago, i punti principali del suo programma di governo: redazione di un nuovo testo costituzionale, dialogo con tutte le componenti della società siriana, diritto all’istruzione per le donne. Il leader islamista non ha ancora chiarito quale sarà la struttura del nuovo stato e quale sarà il ruolo che giocherà l’islam sia a livello giuridico in merito all’applicazione di precetti shariatici sia a livello politico e culturale. Il leader di Hts ha indicato il 1° marzo come data di scadenza del governo provvisorio, ma il processo di transizione sarà probabilmente molto più lungo: stando alle sue dichiarazioni, la scrittura della Costituzione potrebbe richiedere fino a tre anni e lo svolgimento delle prime elezioni post-Assad quattro. A livello militare, egli ha affermato che le varie milizie ribelli verranno sciolte, per dar vita a una forza armata nazionale[12]. La dichiarazione ha una valenza politica, in quanto intende porre fine all’esperimento autonomista dei movimenti curdi riuniti sotto la sigla delle Forze democratiche siriane (Sdf) che, pur avendo accettato di issare il vessillo rivoluzionario (il tricolore orizzontale verde, nero e bianco con al centro tre stelle rosse), dopo la caduta del regime si è più volte scontrata con le fazioni ribelli filoturche del Sna. Tuttavia, le Forze democratiche siriane al momento non hanno ancora accettato di sciogliere le loro milizie all’interno delle forze armate siriane e le trattative con il governo centrale, avviate grazie alla mediazione delle tribù arabe del Rojava, proseguono[14]. Il comandante in capo delle Sdf, Mazloum Abdi, si è dichiarato favorevole a porre le sue forze sotto la direzione del ministero della Difesa, a condizione che esse siano considerate un “blocco militare autonomo”; Abdi ha infine ribadito che l’implementazione di un sistema di governo decentralizzato costituisce l’unica soluzione percorribile per mantenere il paese unito e coeso.

Due sono le principali sfide che il governo deve affrontare. La prima riguarda la ricostruzione dell’economia nazionale, il cui prodotto interno lordo negli ultimi due anni si è contratto in maniera significativa, scendendo da 37,1 miliardi di dollari nel 2022 a 29,3 nel 2024. Bashir ha dichiarato che la quantità di valuta estera custodita nei caveaux della Banca centrale è estremamente esigua: nel 2010 il Fondo monetario internazionale aveva stimato che il tesoro dello stato ammontava a 18,5 miliardi di dollari; attualmente le riserve raggiungono appena 200 milioni di dollari, alle quali vanno aggiunte 26 tonnellate di oro, equivalenti a circa 2,2 miliardi di dollari. Per risollevare la situazione, il governo intende acquisire gran parte degli asset finanziari siriani custoditi all’estero e ottenere la cancellazione delle sanzioni internazionali. Vi è inoltre la questione dell’approvvigionamento energetico: a seguito della caduta di Assad e del ritiro dei pasdaran, l’Iran ha bloccato l’invio di greggio in Siria, provocando la temporanea chiusura della raffineria di Baniyas, la più grande del paese. La seconda sfida è legata alla sicurezza interna. Infatti nei primi giorni di gennaio la provincia di Daraa è stata teatro di scontri tra una coalizione dell’opposizione del fronte meridionale e alcuni “signori della guerra” locali, come Ahmad el-Awda e Mohsen al-Haymad, che negli ultimi anni, grazie alla mediazione di Russia ed Emirati, si erano riconciliati con il regime di Assad…”.

Uno scenario terremotato per una Siria senza pace.

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