di Rock Reynolds
Non ci si stacca di lì. Siamo ancora al “noi” contro “loro”, allo scontro di civiltà, alla sterile riproposizione dello stereotipo del bravo crociato di bianco vestito (con l’immancabile croce rossa sullo scudo) che rischia la vita per strappare il Santo Sepolcro e gli altri luoghi sacri della cristianità al “feroce Saladino” e alla sua orda di infedeli. E di certo non fanno granché per sgretolare questi sciocchi cliché gli altrettanto imbelli disadattati che, in un’orrida sciarada di insensatezze, si lanciano a tutta velocità in macchina sulla folla inerme di un mercatino di Natale o di Carnevale proprio in quella Germania che, più di ogni altra grande nazione europea, ha fatto dell’accoglienza dei profughi mediorientali un credo. Un credo oggi in crisi profonda. Nella recente tornata elettorale che ha visto la pericolosa risorgenza dei depositari del marchio nazista di AfD, quella convinzione di apertura umanitaria ha vacillato pesantemente e chi, con buone probabilità, farà il nuovo governo ha già sbandierato ai quattro venti che le frontiere germaniche andranno sigillate.
Eppure, la ridda di attentati terroristici attuati da lupi solitari – per lo più, soggetti disadattati, con conclamati disturbi mentali e scarsa se non nulla convinzione ideologica – ha poco a che vedere con la storia raccontata nello splendido romanzo Tutti i nostri segreti (Fazi Editore, traduzione di Teresa Ciuffoletti, pagg 318, euro 18,50) di Fatma Aydemir, nata nel 1986 a Karlsruhe, una delle città industriali più brutte della Germania, da una famiglia turco-curda.
In fondo, tutte le storie fanno riferimento a un’unica storia. Johnny Cash – per la verità non il primo a dichiararlo – soleva dire che una canzone e, dunque, una storia, poteva parlare soltanto di tre cose: Dio, Amore e Morte. In Tutti i nostri segreti le troviamo tutte e tre, per quanto la morte domini e sia il punto di partenza e di arrivo – non lo è sempre, forse? – e l’amore faccia da collante, con la presenza di un dio che si fa sempre meno palpabile.
L’evento intorno a cui ruota la vicenda familiare raccontata da Fatma Aydemir è la dipartita improvvisa di Hüseyin che, dopo una vita di duro lavoro in una fabbrica tedesca, decide di tornare in Turchia e di acquistare – con i soldi elargitigli dal governo tedesco attraverso una legge che, di fatto, incentiva il ritorno degli immigrati turchi nel paese di origine – una casa in cui passare gli anni della pensione. La moglie, che custodisce un terribile segreto, un macigno sulla sua coscienza, una cortina di diffidenza sulla relazione con il marito, torna in Turchia per le esequie. E altrettanto faranno i quattro figli, seppur ciascuno a modo proprio e ciascuno con altri pesi sul cuore. D’altro canto, la morte del pater familias è sempre un evento cataclismatico se, con essa, una serie di quesiti annosi resta senza risposta. La scomparsa del padre e il ritrovo dei suoi cari intorno al suo feretro, è uno dei topos ineludibili della letteratura internazionale, ma Fatma Aydemir lo affronta senza assecondare convenzioni narrative ritrite e, al tempo stesso, senza scardinare la forma del racconto tradizionale e, dunque, senza spiazzare inutilmente il lettore. Le storie dei quattro fratelli e della madre, narrate in prima persona per trasmettere ai rispettivi pensieri una profondità diversamente non raggiungibile, sono raccontate con estrema chiarezza, evitando l’uso di fastidiose scappatoie moderniste.
Siamo in una Germania non tanto diversa da quella attuale, un paese in cui se non è un extracomunitario di origini siriane a mietere vittime tra folla di un centro cittadino, a farlo è un simpatizzante dell’estrema destra. I turchi sono una comunità numerosissima già da molti anni e, malgrado tutto, sono piuttosto integrati nel sistema socioeconomico tedesco. I turchi tedeschi di seconda o terza generazione talvolta non parlano neppure più la lingua dei nonni così come i nonni faticano talvolta a esprimersi in un tedesco corrente. Insomma, la complessità domina e, come si sa, vi possono prosperare buone così come cattive vibrazioni.
Nella famiglia di Hüseyin i problemi non mancano. Hüseyin ha il suo bel daffare a spezzarsi la schiena in fabbrica e sua moglie Emine ad allevare quattro figli in una nazione in cui nessuno dei due si sente del tutto a casa, ma che, per molti versi, è più accogliente della loro terra di provenienza. E meno male che alla televisione tedesca impazza la serie Dallas, quanto di più distante culturalmente da una turca tedesca ma un segnale forte di un principio di globalizzazione dei modelli di riferimento. Anche perché Emine ha origini sui monti impervi del vagheggiato Kurdistan, un nome impronunciabile nella loro casa perché a Hüseyin, durante il servizio militare nell’esercito turco, avevano «insegnato che non esistevano i curdi».
Sevda è la figlia maggiore e non perdona a sua madre di averla spinta nuovamente tra le braccia di un marito ubriacone e sfaccendato con cui non condivideva più nulla. «Nessuno le aveva dato della “turca di merda”… Certo, i colleghi tedeschi non erano esattamente il massimo della simpatia, ma in fondo erano così anche tra di loro». Hakan, il secondogenito, non si è mai sentito all’altezza delle aspettative che papà e mamma, da buoni genitori all’antica, hanno istituzionalmente sempre riposto in lui, primo figlio maschio. Peri, la figlia ribelle, si è staccata presto dalla famiglia, ha studiato e si è messa in antitesi rispetto ai valori che le sono stati insegnati in casa, divenendo fonte di forte imbarazzo per i genitori. Ümit, addirittura, che è il più giovane, ha problemi seri di identità di genere che uno strizzacervelli alquanto bizzarro cerca di correggere. Secondo quel dottore, «era omosessuale perché suo padre aveva un atteggiamento fisicamente distaccato nei suoi confronti… perché sua madre decideva sempre tutto… perché da piccolo aveva passato più tempo con sua sorella che con i ragazzi della sua età… perché le donne nel suo contesto culturale erano talmente sottomesse che lui non poteva provare alcuna attrazione per loro». Ma il dottore «non usava mai la parola “omosessuale”… un’invenzione dei media, pericolosissima soprattutto per i giovani, che tendono all’emulazione».
C’è tanto materiale umano in questo romanzo e i percorsi individuali dei singoli membri di questa famiglia – tutto sommato non tanto diversa dalla famiglia media di turchi emigrati in Germania – si incastonano su un interessante contesto sociale in rapida e imprevedibile trasformazione. Non c’è il minimo intento manicheo in queste splendide pagine in cui i passi dei membri della famiglia di Hüseyin si intrecciano mirabilmente, lasciando al lettore il compito non facile di farsi un’idea di quanto ci si possa sentire stranieri in patria e non del tutto a casa tra le mura domestiche. Perché, in fondo, il mondo è di tutti e, banalmente, l’erba del vicino è sempre più verde.