Certo, c’è il presidente-immobiliarista che crede davvero di poter trasformare una Gaza “depalestinizzata” nella “Riviera del Medio Oriente”. Certo, alla Casa Bianca dei diritti dei palestinesi e del genocidio dei gazawi frega nulla. Certo, tutto questo è verità. Ma non è tutta la verità. Perché il cuore di essa sta in Israele.
Made in Israel: Il trasferimento dei palestinesi è una creazione al 100% ebraica
Un titolo di rara efficacia è quello che Haaretz fa ad una ispirata, malinconica, tragica riflessione di Tamer Nafar.
Osserva Nafar: che storia, non te l’hanno detto, ma lo Stato di Israele ha già deciso di attuare il piano Trump, appena aggiornato: sfoltire la popolazione di arabi israeliani. Invece di un trasferimento, che è un grosso problema, lasciamo che si uccidano a vicenda e così ci libereremo degli arabi”. Queste parole sono state pubblicate su X martedì da Yair Revivo, il sindaco di Lod. Se mi avessi detto che avrei citato lui, non ci avrei mai creduto.
Non credo nemmeno che difenderò Rehavam Ze’evi (che tu hai chiamato “Gandhi”), ma come creatore, il cui sostentamento dipende in parte dalla proprietà intellettuale e dalle royalties, faccio fatica ad accettare una situazione in cui il presidente degli Stati Uniti Donald Trump si guadagna il merito di un’opera d’arte che non è sua.
È vero, l’“emigrazione volontaria” – o Nakba – è nata all’inizio dell’idea che gli ebrei vivessero in una terra piena di persone, cultura, vita e storie – o come la chiamava il sionismo: “Terra selvaggia”. Ma almeno nella mia memoria di bambino, quando dicevano di trasferirsi era accanto al nome di “Gandhi”. È stato lui il primo a imprimere il termine nella nostra mente. Fu fatto nel 1948, ma lui lo chiamò davvero con il suo nome. Se esiste un brevetto per i crimini di guerra, scriviamo che l’idea del trasferimento dei palestinesi, che Trump sta cercando di far passare per sua, è in realtà una creazione ebraica al 100%, Made in Israel.
Nonostante la mia sorpresa per il fatto che il sindaco di Lod abbia parlato in questo modo, e nonostante il suo post abbia suscitato commenti come “finalmente ha capito” e “sta strizzando l’occhio agli elettori arabi” – in altre parole, nonostante la consapevolezza che Revivo abbia detto solo quello che tutti sappiamo – questo non spegne le fiamme che le sue parole hanno acceso. Questo post è la causa scatenante della paura esistenziale di un intero popolo, paura che è arrivato il momento di far emergere in tutte le sue parole e a tutto volume, senza temere che a qualcuno possa sembrare delirante o complottista. Deve ricevere un palcoscenico perché è troppo grande per essere negata.
Se posso ricorrere a un’immaginazione guidata, la mia paura della parola “trasferimento” assomiglia sempre a un armadio da ufficio, uno con tre cassetti e una serratura da mezzo siclo che si rompe se la si gira, e all’interno c’è un fascicolo con un piano per espellere tutti noi da qui, perché il crimine iniziato nel 1948 deve essere completato.
A volte mi sembra che questa parola sia un mostro sotto il letto, altre volte che sia reale. A volte ho pensato che forse fosse frutto della mia immaginazione: guardate, viviamo qui, votiamo, lavoriamo, abbiamo la previdenza sociale, abbiamo la carta d’identità. È vero, c’è discriminazione, ma non è assoluta, come non lo sono i diritti. C’è una differenza tra l’occasionale demolizione di una casa o la disoccupazione e la possibilità di caricare te e la tua famiglia su un camioncino e mandarti a cercare rifugio in un paese arabo: questo è troppo.
Ma oggi il mostro sembra il più reale possibile. Così reale che un sindaco di estrema destra lo pubblica sui social media. Così reale che il presidente della nazione più potente del mondo lo lancia con nonchalance come un’idea, una frase leggera buttata lì, durante una chiacchierata, come una soluzione – unica o definitiva, decidi tu. È così reale che una parte del centro-sinistra ne sta discutendo in modo pratico e non di coscienza, come se si trattasse di un divano che non entra dalla porta o non entra nell’ascensore e la questione è solo se smontarlo o portare una gru per sollevarlo dalla finestra – una questione completamente tecnica.
Io, con tutte le mie paure e i miei successi, con tutte le mie storie e i miei ricordi, la mia famiglia e i miei amici – tutti noi siamo semplicemente parte dei mobili di Ikea che verranno montati o smontati facilmente a seconda della convenienza del proprietario.
La paura esistenziale è quella di trovarsi di fronte a un mostro a tre teste: la pura pulizia etnica nella Striscia di Gaza; gli insediamenti metastatici in Cisgiordania; e qui, tra quelli che chiamiamo gli arbi del 1948, la criminalità dilagante. Svegliarsi ogni mattina e vedere che la città sta inghiottendo i nostri figli, spalancando la bocca – a forma di rettangolo, mezzo metro per due e alla profondità di mezza altezza di una persona – e inghiottendoli.
Più difficile che morire è vivere accanto alla morte e vedere i nostri figli smontare le loro vite, i loro ricordi e andarsene. Portando con sé le paure del nuovo posto, che sono minime rispetto a quelle della casa stessa, mettendo tutto in valigia e cercando una nuova vita in Turchia, Grecia o Dubai.
Un’emigrazione “volontaria”, proprio come la “volontarietà” di un ebreo arrivato qui da Parigi, che parla a malapena l’ebraico e mi ferma per strada per chiedermi come raggiungere la sua casa, perché è nuovo qui. Non c’è alcuna differenza tra noi, a parte le virgolette intorno alla parola “volontario”.
Alcuni di noi insistono ancora per restare. Noi la chiamiamo “Sumud”, la fermezza in arabo, il rimanere saldi. Ma nei miei pensieri temo che ci stiano portando via dalla nostra casa con la forza, proprio come le nostre nonne e i nostri nonni. Se questo è ciò che accadrà alla fine, e se in qualche modo ho un po’ di controllo sul “come”, propongo che al posto dei camion che usarono allora, ci carichino su vagoni ferroviari a Lod. Forse questa sarà la molla che vi farà svegliare”.
Opposizione cercasi
L’abbiamo scritto in ogni salsa: la forza della destra che impera in Israele risiede anche nell’estrema debolezza, culturale, sociale, politica, di leadership, delle cosiddette opposizioni.
E cosa immaginano i leader del centro-sinistra israeliano oltre il day after? Nulla
Il titolo del quotidiano progressista di Tel Aviv sintetizza perfettamente il concetto di cui sopra.
Che Aluf Benn, caporedattore di Haaretz, articola sapientemente: “La stagione elettorale è alle porte e i sostenitori di “chiunque ma non Bibi” sono entusiasti di incoronare Naftali Bennett nuovo leader del blocco nella critica battaglia contro il Primo ministro Benjamin Netanyahu.
Le persone deluse da Benny Gantz, Yair Lapid, Gadi Eisenkot e Gideon Sa’ar ripongono ora le loro speranze nel leader fallito del “governo del cambiamento”, che sta progettando un ritorno (Raviv Drucker, “Perché Bennett sta aspettando?” Haaretz Hebrew, lunedì). Un uomo che una volta era di estrema dovrebbe spostare i voti dalla parte pro-Netanyahu a quella che una volta veniva chiamata centro-sinistra e quindi mandare a casa Netanyahu una volta per tutte.
In passato, Bennett è riuscito a manovrare Netanyahu e a mettersi contro di lui. Ha una comprovata capacità di concentrarsi su un obiettivo, di conquistare l’affetto delle persone che lo circondano e di coniare slogan accattivanti. Per chi se lo fosse dimenticato: “Smettila di scusarti”, “Hanno più paura dell’avvocato generale militare che [dell’ex leader di Hamas Yahya] Sinwar”, “Bennett batterà Hamas, [Ayelet] Shaked batterà la Corte Suprema”.
Soprattutto, non è uno dei diretti responsabili dell’attacco di Hamas del 7 ottobre. Ma la sua missione questa volta è molto più complicata rispetto al suo precedente scontro con Netanyahu.
Il primo problema di Bennett, e del blocco “chiunque ma non Bibi” in generale, sarà il deficit di decine di migliaia di elettori affiliati agli oppositori di Netanyahu, che hanno lasciato Israele prima e durante la guerra; erano stufi del suo regno e dei terribili danni che ha causato a Israele.
Non avranno fretta di tornare o di volare su uno dei costosi voli di El Al per votare. E questo è un incentivo per Netanyahu a indire presto le elezioni, quando i preziosi voti dell’opposizione sono parcheggiati in Thailandia, Grecia e Portogallo.
Il secondo problema è ancora più grave: la mancanza di un messaggio.
Gli oppositori di Netanyahu hanno due richieste degne di nota: la restituzione degli ostaggi e la nomina di una commissione d’inchiesta statale sui fallimenti del 7 ottobre. Alla base di entrambe c’è la nostalgia del vecchio mondo precedente al 7 ottobre. Ma cosa succederà dopo? Dove andrà lo Stato dopo il ritorno degli ostaggi, con o senza commissione d’inchiesta?
Il campo di Netanyahu ha una risposta chiara: Gli arabi sono nazisti, il “trasferimento dei palestinesi” è l’unica risposta, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump è con noi. Questi punti di vista sono molto popolari tra gli ebrei israeliani ed emergono da ogni talk show televisivo. Netanyahu li rafforza con promesse di guerra eterna e di espansione dei confini dello Stato e sta andando alle urne sull’onda di un crescente sentimento religioso e ultranazionalista nell’esercito, nella cultura e tra gli ostaggi liberati.
E l’opposizione? Niente. Yair Golan (“l’unico modo per distruggere Hamas” Haaretz Hebrew, lunedì) presenta un modello complicato per la gestione postbellica di Gaza. Se ho capito bene, propone un’occupazione israeliana prolungata del territorio (“stretta supervisione militare”) e la consegna di una parte di esso a “un governo palestinese moderato”. Compatisco il copywriter che deve distillare questa accozzaglia in uno slogan elettorale. Gli consiglio di consultare “Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie”.
Come i suoi colleghi del blocco, Golan, il leader di ciò che resta della sinistra, si sottrae al termine “Stato palestinese” o addirittura ’Autorità palestinese”. È un peccato, perché la destra sarà sempre più convincente di lui nel proporre occupazione, distruzione ed espulsione.
La tragedia della sinistra e del centro è l’assenza di candidati che tornino al fondamento ideologico del liberalismo israeliano: la divisione del territorio in due Stati come base per la pace regionale e la piena uguaglianza per gli israeliani di tutte le nazioni.
Certo, dopo il 7 ottobre non è facile da vendere. Ma è un messaggio corretto e coerente che offre un’alternativa morale e ideologica alla pulizia etnica proposta dal blocco di Netanyahu. E fino a quando qualcuno non oserà pronunciare la parola “pace” senza scusarsi, ci rimarrà la destra senza Bibi proposta da Bennett. Forse per gli elettori “chiunque ma non Bibi”, il trasferimento sarà più facile da digerire se viene da Bennett”, conclude Benn.
Le cose stanno così. In Israele c’è chi ipotizza, come soluzione vincente, una sorta di “bibismo” senza “Bibi” (Netanyahu). Una sorta di destra liofilizzata spacciata per alternativa. Con una siffatta opposizione, Netanyahu può dormire tra due guanciali. Governerà all’infinito. Direttamente o per interposta persona.