Sembra irrimediabilmente passato il tempo in cui, guardando un lungometraggio americano – magari un western o un film di guerra – ci si abbandonava a slanci sinceri di solidarietà verso i buoni.
Peccato che in quei panni solitamente ci fossero, in un caso, i cowboy e, nell’altro, gli impavidi soldati statunitensi, alle prese rispettivamente con i proditorii pellerossa oppure con i brutali soldati di qualche stato canaglia.
Ma, almeno, un’idea sacrosanta di rettitudine la si traeva dall’esperienza.
Oggi non c’è più nemmeno quello.
Oggi, anche quella parvenza di giustizia pare essere sparita dalla narrazione pubblica, alimentata dalla macchina sforna-balle dei potenti del mondo.
La parola “propaganda” perde progressivamente il senso negativo che dovrebbe avere e viene derubricata a semplice strumento politico.
Ecco che, nell’attuale, violentissima fase del conflitto israelo-palestinese – una guerra scoppiata ben prima del 7 ottobre 2023, giorno in cui Hamas ha segnato una delle sue pochissime vittorie militari di un certo peso – il combattente palestinese è gioco forza un terrorista, mentre quello israeliano è un militare.
Il cittadino israeliano nelle mani di Hamas è un ostaggio, mentre quello palestinese nelle carceri israeliane è un pregiudicato.
Il teatrino del passaggio pubblico davanti alle telecamere palestinesi degli ostaggi israeliani prima della loro liberazione è un orrore, mentre le macerie fumanti dopo un bombardamento omicida dell’IDF sono guerra.
Un’azione di Hamas è un attentato, mentre un rastrellamento israeliano è una legittima operazione militare.
Gli ostaggi israeliani liberati sono stati brutalizzati, mentre i detenuti palestinesi hanno subito un trattamento umano.
Non si salva nessuno che osi anche solo superficialmente muovere critiche all’apparato, se non al popolo, israeliano.
Sono agenti del male le Nazioni Unite, la Corte Penale Internazionale, l’UNHCR, le varie ONG che hanno provato a portare sollievo a vittime e profughi, i giornalisti che tentano di raccontare le cose come stanno, il personale medico e paramedico, gli insegnanti e via dicendo.
Sono tutti antisemiti.
La manfrina dell’accusa di antisemitismo a chiunque osi criticare Israele, purtroppo, continua a funzionare.
È una strategia antica come lo stato di Israele e viene insegnata alla popolazione ancora in fasce.
Lo scopo dichiarato è far sentire in colpa chi ha messo in discussione nefandezze che, oggi più che mai, sono davanti agli occhi del mondo.
Ogni cosa, ogni definizione rientra in quel paradosso.
Provate a pensarci: IDF, Israel Defense Forces, nemmeno il coraggio di chiamare le forze armate con il loro nome.
No, sono solo “forze difensive”.
Facile, uniformandosi a tale distorsione del pensiero, confondere parecchie altre cose.
Facile finire vittime di troll nei vari social media – è successo anche al sottoscritto di accettare l’amicizia di sconosciuti che me l’avevano espressamente chiesta per interagire con i miei post in cui criticavo la violenza cieca ai danni dei civili palestinesi – e scambiare parole di propaganda bieca per realtà.
Dicevo che oggi non c’è più neppure quel senso di pietas che è lecito aspettarsi da un essere umano di fronte alla sovrabbondanza di immagini di una violenza mai registrata prima.
Forse, a quella stessa abbondanza va imputato il calo della loro credibilità, un meccanismo psicologico che la macchina della propaganda israeliana conosce bene:
Facciamo vedere orrori su orrori e tali orrori finiranno per essere la normalità e smetteranno di essere orrori agli occhi della generazione di TikTok.
Mi capita spesso, proprio sui social, di interloquire – forse, farei meglio a dire litigare – con qualcuno che mi taccia di essere filopalestinese.
Ebbene sì, parteggio – come faccio sempre – per i più deboli e, soprattutto, per chi penso stia dalla parte giusta della storia.
Ma proprio non sopporto tracotanza e prepotenza.
Non sopporto l’arroganza da bullo di quartiere, quello che si nasconde dietro i bamboccioni più grossi e più forti (nella fattispecie, leggasi USA e sodali) per intimidire chi non abbassa la testa di fronte alle ingiustizie.
Un paese che non sappia fare altro che minacciare e ricattare non può essere considerato una democrazia di stampo occidentale e ancor meno un partner affidabile.
E a chi ancora sostiene che Israele è un paese “fico” perché, quando promette, mantiene, ricordo soltanto di andarsi a vedere un filmetto come Munich di Steven Spielberg, non un “bieco comunista antisemita”.
Suggerisco il film perché è di più veloce e immediata fruizione rispetto a un libro di storia.
E suggerisco, dopo averlo visto, di riflettere sulla morte del povero cameriere marocchino ucciso dal Mossad in Norvegia per errore, solo perché aveva l’aria mediorientale e si trovava nello stesso luogo in cui si sospettava si nascondesse il vero obiettivo.
L’operazione “Ira di Dio”, voluta e sancita dall’allora primo ministro Golda Meir, fu la risposta al terribile massacro attuato dall’organizzazione Settembre Nero a Monaco di Baviera, nel 1972, con la morte di svariati atleti israeliani.
Un fatto di sangue ingiustificabile e orribile.
Ciò detto, malgrado le palesi difficoltà tecniche che implicava, l’operazione “Ira di Dio” venne attuata pur conoscendo il rischio quasi inevitabile di danni collaterali.
Il mito dell’invincibilità di Israele è, come quello del popolo eletto, appunto, un mito.
Ma pare che basti, agli occhi di un’opinione pubblica sempre più anestetizzata di fronte alle brutture del mondo e alla nebulosità delle informazioni, ad alimentare la colpevole indifferenza che regna.
Onde evitare di finire impaludati in discussioni inutili su cavilli legali e dettagli storici di parte, basterebbe far ricorso a un minimo di umanità.
Nessuno che ne disponga anche solo in quantità infinitesime può essere rimasto insensibile alla bruttura delle immagini del 7 ottobre.
Nessuno, però, può fingere che non esistano trattati internazionali, codici bellici e persino leggi non scritte e che non debba vigere il principio della proporzionalità.
Oggi, tali valori – che si pensavano universalmente accettati nel mondo ricostruitosi dopo le disgrazie della Seconda guerra – sono quanto mai in bilico, se non del tutto alla deriva.
Oggi c’è chi parla sfacciatamente di “deportazione” e chi, pur avendola subita, dice che è un’ottima idea.
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