Ognuno può valutare come ritiene gli sviluppi mediorientali, ma difficilmente si avranno dissensi su questo: gli arabi sono nella tormenta. In questa tormenta che squassa equilibri antichi ma fa emergere poco di nuovo, di solido, poche risposte a sfide epocali, emerge di tutta evidenza la novità affascinante che viene da Beirut. Qui si devono fare i conti con uno dei tanti disastri, ma non certo uno da poco; la distruzione di mezzo Paese determinato dal fallimento politico e miliziano di Hezbollah.
Il partito milizia khomeinista ha condotto il Paese dal 2005, anno in cui eliminò l’ex premier Rafiq Hariri con una potentissima esplosione nel centro di Beirut. Un’altra potentissima esplosione ha distrutto metà della città che lui aveva ricostruito, Beirut. Il tribunale internazionale stava per emettere proprio in quelle ore, 4 agosto 2020, la sentenza con cui ha condannato la milizia libanese per l’assassinio dell’ex premier libanese. E proprio allora mezza capitale libanese è andata per aria, con tutto il suo porto commerciale. Lì la milizia custodiva, segretamente, una quantità inaudita di esplosivo che usava di volta in volta per devastare la Siria e sostenere la giunta militare di Bashar al Assad.
La disfatta di Hezbollah, che voleva tutto e ha ottenuto polvere e morte, ha consentito con 26 mesi di ritardo (ventisei!!!!!!!!!!!!!) di eleggere il Presidente della Repubblica, che loro impedivano perché non avevano i voti per imporre il loro uomo designato per l’incaricato. Hanno dovuto accettare che ne passasse un altro, che ha chiamato addirittura un giurista per guidare il nuovo governo. Nel Libano distrutto dal partito-milizia che si era sostituito allo Stato con il sostegno di un sistema confessionale corrotto e ridotto a reggicoda di diverse satrapie feudali prima asservite ad altri padroni, poi ad Hezbollah, il giurista e il Presidente della Repubblica hanno affrontato la grande sfida: dare al Paese un governo che non fosse la sommatoria delle varie congreghe che hanno spogliato il Libano per anni in una convergenza di interessi accaparratori all’ombra di Hezbollah: e oggi possono dire che hanno avviato l’impresa. Il nuovo governo, dopo un mese di tira e molla, è nato. Non ci sono esponenti di partito, non sono stati scelti dai vari partiti-feudi di signorotti feudali che dalle montagne si sono divisi il Libano. No, ci sono stimati professionisti ed esperti, studiosi affermatisi anche all’estero, in qualche caso alla Sorbona, che si sono messi a disposizione del premier-giurista.
La legge libanese stabilisce che il premier debba rappresentare nel suo esecutivo tutte le comunità di fede del Libano. Ma questo, ha obiettato il premier giurista, non vuol dire che i partiti rappresentino tutto e in tutto le comunità. Ci sono indipendenti, persone di qualità, in ogni comunità, e io li faccio ministri nel rispetto delle diverse articolazioni del paese. E’ la rivoluzione.
Ovviamente non è andata proprio così: si è trattato con i partiti, si sono cercati insieme dei nomi che fossero “fungibili”. Ma il risultato c’è. E la riprova si ha nel fatto che il duo sciita , gli alleati di ferro di sempre, Hezbollah e Amal, hanno dovuto accettare che uno dei cinque ministri sciiti non fosse designato da loro, ma dal premier. Un fatto che non ha precedenti, perché da oggi essere sciiti non vuol più dire stare con Hezbollah o il suo alleato: si può essere anche “diversamente sciiti”. Gli altri quattro ministri sciiti non sono iscritti ai due partiti, sono “vicini”, ma non sono dei passacarte. Anche per gl altri si sarà proceduto così. C’è voluto del tempo, molto tempo, per arrivare ai loro nomi, ma è lo strappo sul quinto che fa pensare a una novità “strutturale”: la morsa dei partiti che si identificano con le comunità è andata a sbattere contro il muro?
Lo dimostra anche il caso dell’apprezzatissimo vice premier. E’ stato scelto un grande intellettuale e diplomatico, un nome di spicco, uno dei pochi della diplomazia libanese. Quel posto, vice-premier, spetta di norma ai cristiani di rito ortodosso. E il premier giurista ha scelto un ortodosso, ma ha scelto il brillante Tare Mitri. Il rampollo di una grande famiglia che è stata sempre nel governo, i Murr, si è inalberato: siamo noi, i Murr, “gli ortodossi”. E ha usato la sua televisione per attaccare a testa bassa Mitri. Ma il giurista ha tirato dritto.
Che questo governo voglia dire che il Libano è uscito da un sistema fallito, il confessionalismo feudale, è presto per dirlo, molto presto. Ma la forza dei due presidenti, quello della Repubblica e quello del governo, ha battuto un colpo potente. Non solo contro il partito che voleva sostituire lo Stato, ma contro il sistema feudale che voleva sostituire se stesso alle comunità che compongono il Libano e che non sono soltanto “la casta” che lo ha sgovernato per decenni.
Ora arriva il tempo dei fatti. Ma il passo compiuto è enorme e non vale soltanto per il Libano, è un esempio per tutti, a cominciare ad esempio dalla vicina Siria, che stenta a imboccare questa via “pluralista”