Nelle ultime settimane, l’esercito israeliano ha condotto una vasta operazione nel campo profughi di Jenin, in Cisgiordania.
Il campo ospita per lo più persone sfollate nel 1948, durante la creazione dello Stato di Israele, e i loro discendenti.
Il 21 gennaio, pochi giorni dopo l’inizio del cessate il fuoco a Gaza, Israele ha lanciato l’Operazione Muro di Ferro, dichiarando che il suo obiettivo era preservare la propria “libertà d’azione” in Cisgiordania ed eliminare minacce terroristiche.
Jenin è noto per essere un rifugio di combattenti appartenenti a diversi gruppi militanti, tra cui Hamas e la Jihad Islamica.
Finora, l’operazione ha portato alla demolizione di decine di edifici e alla morte di almeno 25 persone.
Martedì, Juliette Touma, portavoce dell’agenzia Onu per i palestinesi (Unrwa), ha dichiarato che il campo sta “andando verso una direzione catastrofica”, aggiungendo che vaste aree sono state “completamente distrutte da una serie di detonazioni effettuate dalle forze israeliane”.
In un comunicato diffuso lunedì, l’Onu ha denunciato il fatto che, poiché Israele ha interrotto i contatti con l’Unrwa, l’agenzia non ha ricevuto alcun preavviso prima delle esplosioni, le quali avrebbero “messo a rischio la vita dei civili”.
Il comunicato ha inoltre affermato che le azioni di Israele “minano il fragile cessate il fuoco raggiunto a Gaza e rischiano di provocare una nuova escalation”.