Il Labirinto del Mostro di Firenze

Fare ordine nell’intricatissima matassa della cupa vicenda del Mostro non è semplice, malgrado la ridda di pubblicazioni, trasmissioni televisive e oggi pure pagine web e podcast sull’argomento

 Il Labirinto del Mostro di Firenze
Mostro di Firenze
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28 Gennaio 2025 - 18.38


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di Rock Reynolds

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Che gran paese l’Italia, terra di santi, poeti navigatori, commissari tecnici, infettivologi, astronomi e, da qualche tempo, esperti di tennis. Ah, già, pure giudici inquirenti e investigatori. Non v’è periodo nella storia della Repubblica che non sia stato caratterizzato da un plateale fatto di cronaca balzato all’attenzione dei media e finito al centro delle chiacchiere da bar, con sfide a colpi di spritz e bianchini e di verdetti da saloon del giudice Maddox – o Roy Bean, se preferite la storia al fumetto – nella bettola di turno.

Si può con sostanziale certezza asserire che, dal dopoguerra a oggi, nessun delitto – tranne, per ovvie ragioni, l’assassinio di Aldo Moro – ha assunto una valenza così totalizzante e pure divisiva agli occhi del popolo italico quanto i crimini attribuiti al Mostro di Firenze. Forse perché nessuna vicenda delittuosa, Aldo Moro a parte, ha evidenziato altrettanti buchi investigativi, colpi di scena giudiziari, depistaggi, fuorvianti sovrapposizioni casuali e un livello similmente spaventoso di violenza e bassezze umane, oltre che un così numero elevato di protagonisti più o meno involontari susseguitisi e intrecciatisi.

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Fare ordine nell’intricatissima matassa della cupa vicenda del Mostro non è semplice, malgrado la ridda di pubblicazioni, trasmissioni televisive e oggi pure pagine web e podcast sull’argomento. Lascio tale incombenza all’abbondanza di informazioni a disposizione del pubblico, ma mi sento di consigliare a chi avverta un afflato analitico di procurarsi quello che, a tutti gli effetti, potrebbe risultare il testo definitivo sull’oscura vicenda del Mostro: Il Labirinto del Mostro di Firenze (Mimesis, pagg 623, euro 25) a cura di Lorenzo Iovino, Daniele Piccione e Roberto Taddeo e con la supervisione di Stefania Ascari (oltre che la prefazione di Sigfrido Ranucci). Il Labirinto del Mostro di Firenze è un libro corale forse proprio perché collettivo è stato il dramma dell’incredibile vicenda del Mostro, con la sua capacità di impattare profondamente sull’immaginario collettivo del popolo italiano, in un periodo di grandi trasformazioni socio-comportamentali.

Sono passati quasi 40 anni dall’ultimo duplice delitto attribuito al Mostro e consumatosi nella piazzola di Scopeti, a San Casciano Val di Pesa, e l’inchiesta si è definitivamente conclusa senza arrivare alla determinazione pratica – ovvero giudiziale – del teorizzato “secondo livello”, quello che avrebbe sostanzialmente commissionato gli orribili delitti o, quantomeno, approfittato dell’esistenza di un sottobosco di guardoni, violenti maschilisti, pornografi dall’erotismo deviato quando non indiscutibilmente criminoso che rendevano quanto mai appetibili e disponibili feticci umani per riti orgiastico-satanisti. Il processo ai “Compagni di merende” ha portato a condanne definitive e pure a discusse assoluzioni, come quella di Pietro Pacciani, prima inchiodato per quattordici dei sedici omicidi ascritti al Mostro e poi assolto in sede d’appello, morto in circostanze come minimo dubbie prima della prevista ripetizione dello stesso, dopo l’annullamento del primo processo d’appello da parte della Cassazione che fece proprie le risultanze dell’indagine sui compagni di merende Mario Vanni e Giancarlo Lotti.

Il Labirinto del Mostro di Firenze affronta analiticamente ogni aspetto della vicenda e approfondisce le personalità dei suoi innumerevoli protagonisti, soffermandosi sulle varie tesi investigative – dal singolo serial killer alla squadra di assassini, dalla cosiddetta “pista sarda” alla teoria della cupola di insospettabili professionisti dediti a riti magici e orgiastici – e ripercorrendo trasversalmente ogni fase di quella terribile stagione.

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Non mancano elementi tipicamente italici, un po’ pittoreschi in verità, come il ricorso a veggenti e maghi – una costante in alcuni dei casi più complessi nella storia della nostra Repubblica, compreso il sequestro Moro e il rapimento di Emanuela Orlandi – per cavare un ragno da un buco sempre più nero. E non manca nemmeno un riferimento all’impatto dell’atmosfera di terrore sull’arte. Come scrive Giuseppe Di Bernardo, «Alla fine degli anni Sessanta, lo tsunami delle libertà sessuali e della persona travolge la società italiana dell’epoca, ancora bigotta, perbenista e conservatrice… In breve tempo, il sesso diventerà un prodotto allettante e l’industria dell’intrattenimento se ne renderà conto subito… Eros e Thanatos, pulsione di vita e pulsione di morte… viaggiano mano nella mano». E gli individui dietro al Mostro furono influenzati da cinema, letteratura e fumetti e, a loro volta, impattarono profondamente sul mondo della creatività.

Il Mostro di Firenze rappresentò, a detta di molti, una sorta di tentativo da parte del ventre più reazionario e misogino del paese di opporsi al nuovo che avanzava, ovvero alla riscossa delle donne. Non a caso, tra le varie ipotesi investigative, c’è un’assimilazione del milieu rurale e retrogrado in cui si consumano le violenze del Mostro e molte altre pure a certi ambienti dell’estrema Destra particolarmente attiva a Firenze in quegli anni.

E ci sono terribili depistaggi, una costante delle vicende più turpi della nostra storia repubblicana. In particolare, qualcuno avrebbe manomesso le prove, con l’intenzione di collegare artatamente la pista sarda e, in particolare, il duplice delitto d’onore del 1968 a Castelletti di Signa, ai delitti che successivamente, tra il 1974 e il 1985, si sarebbero consumati nel territorio circostante. E un depistaggio plateale riguarderebbe pure la figura estremamente discussa del medico perugino Francesco Narducci, di famiglia benestante e molto conosciuta, oltre che massona, rinvenuto cadavere nel lago Trasimeno proprio nel 1985 e al centro di una vera e propria messa in scena, con tanto di sostituzione del cadavere per evitare riscontri scientifici compromettenti.

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Il Labirinto del Mostro di Firenze, volutamente, non si legge come un romanzo bensì come un vero e proprio saggio, malgrado il diverso stile narrativo delle varie figure che hanno contribuito alla sua realizzazione. Fa rumore l’assenza di Michele Giuttari, al tempo capo del Gides (Gruppo Investigativo Delitti Seriali), altrimenti noto come “Squadra Antimostro”. Giuttari stesso ha spiegato come mai si sia rifiutato di fornire il proprio contributo all’opera: «Avrei contribuito in una sede istituzionale perché alcuni aspetti della storia, molto complessa e ingarbugliata, dovevano prima essere chiariti nelle sedi naturali, non nei libri. Solo dopo, eventualmente, perché si tratta di una storia davvero unica da far conoscere nei modi e tempi giusti».

Abbiamo scelto di colmare tale lacuna ospitando in questa sede le sue parole, a titolo di completezza. Ecco cosa ci ha detto Michele Giuttari, oggi noirista di successo e autore di thriller italiano più venduto nel mercato anglosassone.

«Mi sono interessato alla storia del Mostro di Firenze dal mese di ottobre del 1995 fino al 2007, dopo aver lasciato la DIA di Firenze. Piero Luigi Vigna (N.d.A. Sostituto procuratore di Firenze ai tempi dell’indagine sul Mostro), dopo aver saputo del mio trasferimento a capo della Mobile di Bari, era intervenuto per ottenere ben due rinvii e alla fine per farlo modificare di modo che io rimanessi a Firenze come capo della Mobile. Il primo incarico che mi diede fu quello di verificare se effettivamente, come rappresentato nella sentenza di primo grado di Pacciani, ci potessero essere stati dei complici. Studiai il caso, del quale non sapevo proprio nulla, essendomi trovato in quegli anni in Calabria, impegnatissimo nella lotta alla ’Ndrangheta con molteplici omicidi e sequestri di persona. Lo studio e l’analisi di tutti i documenti mi consentirono di redigere una prima nota presentata a Vigna il 5/12/1995, nella quale esponevo alcuni elementi significativi che deponevano per la presenza di più persone sulle scene o nei pressi degli ultimi due delitti, in orario compatibile con la loro esecuzione. Chiesi e ottenni anche l’autorizzazione a eseguire intercettazioni telefoniche e interrogatori con il coordinamento del PM titolare, sempre molto determinato. La nuova indagine portò, come noto, al coinvolgimento di Lotti e Vanni e alla collaborazione di Lotti, facendo registrare elementi indiziari anche sui precedenti delitti del 1982 e 1983. Quindi, fui delegato a continuare l’indagine per verificare il possibile coinvolgimento di un “dottore”, indicato da Lotti quale personaggio che pagava Pacciani per ottenere i feticci. E i giudici in sentenza evidenziarono che non c’era motivo per non credere a Lotti, visto che quanto da lui raccontato aveva trovato precisi riscontri e che Pacciani e Vanni avevano avuto una disponibilità finanziaria in quegli anni non giustificata da entrate legittime. Proprio all’inizio di questo nuovo segmento, noto al ministero, incominciarono le prime difficoltà: proposte di trasferimento ad altro ufficio e sede rinviate più volte per il parere contrario del PM; trasferimento nella stessa sede in un ufficio non investigativo di minore importanza (dove non presi servizio, dedicandomi alla scrittura di thriller) che mi ha tenuto lontano dalle indagini per quasi due anni in attesa dell’annullamento di ben due decreti del Ministro dell’Interno da parte della giustizia amministrativa. Ripresi il lavoro e accaddero fatti inimmaginabili, tutti documentati e denunciati: tra l’altro, minacce anche di morte; squarcio delle gomme dell’auto privata; contrasto col nuovo procuratore capo che mi accusò di una fuga di notizie alla stampa (il ritrovamento di una foglia di sigaro bruciata sul cadavere di una deceduta esposta nelle cappelle del commiato); la mia denuncia penale a quel procuratore, la rimessione dopo l’intervento di altri magistrati e una lettera di chiarimento nella quale, tra l’altro, dava atto: “Tra le qualità che a mio personale giudizio caratterizzano in modo estremamente positivo l’attività che Lei ha svolto, e per le quali mi è grato adesso di dargliene atto, v’e la perspicacia con cui ha esplorato settori e ambienti, ritenuti in qualche modo meritevoli di approfondimenti investigativi, senza timori reverenziali e senza subire alcun condizionamento psicologico quale la posizione di alcuni soggetti, sfiorati dalle sue investigazioni, poteva far temere; in ciò dimostrando assoluta fedeltà al proprio ruolo e alle esigenze di imparzialità della giustizia”; il trasferimento da capo della Mobile a dirigente di un apposito gruppo (Gides) con sede nel palazzone di polizia del “Magnifico”, super vigilato; l’irruzione notturna nel mio ufficio per controllare i documenti nei faldoni, trovati sparsi sul pavimento; il tentativo di una intercettazione abusiva sui telefoni della centrale del Magnifico, che avrebbe consentito di sentire tutte le comunicazioni e anche le conversazione registrate con le intercettazioni di Perugia in atto; il tentativo di certi personaggi perugini di farmi trasferire andando addirittura dal Capo della Polizia; il processo da parte del PM di Firenze per abuso d’ufficio insieme al pubblico ministero di Perugia per intercettazioni telefoniche legalmente autorizzate, risoltisi con un nulla di fatto dopo otto anni perché reato inesistente e attivato dal PM di Firenze che non era funzionalmente competente; il blocco dell’indagine, all’epoca in corso con la procura di Perugia. Questa è solo una sintesi, che però fa capire quanto complessa e ingarbugliata sia stata questa storia del Mostro di Firenze, a cui la commissione parlamentare – alcuni dei cui membri sono interessati al e supervisori del libro Il Labirinto del Mostro di Firenze, appena uscito – avrebbe avuto sicuramente modo di aggiungere, oltre a quanto acquisito, qualche tassello per renderla più chiara. Ma perché qualcuno ha avuto paura del lavoro che avrebbe potuto continuare a fare Giuttari che, con una storia professionale che neppure un capo della polizia avrebbe potuto vantare, è stato isolato, ha visto spezzata ingiustamente la sua lunga carriera, sempre nel mondo dell’investigazione, e si è trovato a rischio persino nella sua incolumità fisica? Tutto per Pacciani, Lotti e Vanni? Non è possibile. Non ci vuole uno scienziato per capirlo. Solo aspetti e personaggi, forse unicamente sfiorati dalle investigazioni, come ammesso dal procuratore capo nella sua missiva, e qualche segreto inconfessabile potrebbero spiegarlo. Non sarebbero stati tutti eventi da chiarire in una sede istituzionale? Peraltro la commissione avrebbe dovuto conoscerli, perché tra i suoi componenti c’era anche il PM di Perugia, mio coimputato nel processo per l’abuso d’ufficio e destinatario di tutti i miei rapporti anche su quanto accaduto, oltre che sulle importanti indagini che si stavano svolgendo e furono bloccate dal PM di Firenze, Dott. Luca Turco. Lo stesso PM di Perugia che, insieme al suo collega di Firenze, opponendosi al mio trasferimento, aveva scritto al ministero, tra l’altro, che “In tale contesto ci permettiamo di insistere sulla necessità che il Dott. Michele GIUTTARI porti a termine l’attività di indagine allo stesso delegata nominativamente con le due note sopra richiamate di queste A.G. non essendo possibile, per i motivi sopra specificamente esposti, delegarle ad altri. E che a nostro avviso un intempestivo allontanamento del Dott. Giuttari dalle indagini potrebbe comprometterne irrimediabilmente l’esito” (nota del 17.2.2003 n.1277/03 RGNR PM Firenze – n. 17869/01 RG mod. 44 PM Perugia). Quella del Mostro di Firenze, quindi, non può che essere una storia monca, purtroppo ormai impossibile da completare. Si possono scrivere libri e dibattere sui blog, ma la verità nelle sedi istituzionali non si potrà raggiungere, avendo perso l’inchiesta il suo ritmo e avendo il tempo, che corre veloce, forse fatto venire meno possibili autori, anche dei primi delitti rimasti a opera di ignoti, e loro eventuali favoreggiatori.»

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