La commozione internazionale e, per la verità, un tantino esagerata per le elezioni presidenziali Usa è stata archiviata mentre iniziano a farsene sentire i primi effetti sulla comunità internazionale, persino sull’Italia, a poche ore dalle imbarazzanti esternazioni di Elon Musk riguardo alle decisioni della nostra magistratura sul rientro in Italia di alcuni migranti “smistati” – si potrebbe persino dire “svenduti” – all’Albania. È molto probabile che Musk abbia dato aria ai polmoni, come gli capita di fare spesso, senza sapere nulla del contesto e neppure della fattispecie. Ecco uno degli aspetti realmente più preoccupanti della vittoria di Trump alle elezioni: uno sdoganamento ulteriore dell’arroganza pubblica di certi personaggi che ha reso normalità ciò che un tempo sarebbe stato preso per insipienza e stronzaggine. È questa la vera differenza rispetto a un tempo. D’accordo, di arroganti e pessimi elementi sono pieni i libri di storia, ma proprio l’Italia è stata tra i primi paesi a riscriverla, mondando Mussolini di buona parte delle sue macchie e accogliendo con toni trionfalistici chi, a metà degli anni Novanta, si è imposto agli occhi del pubblico con la tronfiaggine della ricchezza e una spregiudicatezza senza freni. Moltiplicate tale atteggiamento all’ennesima potenza e avrete Donald Trump.
Per chi volesse provare – dico solo provare, perché è davvero difficile arrivare a una conclusione univoca – a capire com’è stato possibile il ripetersi di una scelta così imbarazzante possono essere utili alcune letture. Se ne potrebbero fare tante, ma ne indicherò per comodità e per pubblicazione recente solo tre.
Il primo testo è un reportage giornalistico, Cheap Land Colorado (Edizioni Black Coffee, traduzione di Sara Reggiani, pagg 309, euro 18) di Ted Conover. L’autore sceglie di trasferirsi a vivere per un lungo periodo nella San Luis Valley, un altopiano nel sud del Colorado, per rendersi meglio conto di cosa spinga numerosi cittadini statunitensi a scegliere una condizione di vita estrema come quella: l’area, come buona parte del Colorado, vanta un’altitudine media di circa 2000 metri ed è sostanzialmente un deserto di montagna in cui crescono arbusti e vive una fauna variegata, non sempre gradita, come i serpenti a sonagli che vi pullulano. L’elemento trainante è il costo davvero basso dei lotti in cui chiunque può stabilirsi, di fatto accampandosi alla meglio, con roulotte, moduli abitativi mobili e poco più. L’altro aspetto importante, fondamentale direi, è il senso di libertà, un tratto fondante della storia americana. In fondo, siamo nel cuore del West – tra le Montagne Rocciose – e la legge, seppur più presente di quella fai-da-te dell’Ottocento, ha tuttora maglie ampie, che spesso consentono a chi ha debiti penali o civili in un altro stato di trovare asilo nella desolazione ai confini tra Colorado e New Mexico. Caldo quasi insopportabile d’estate e freddo decisamente insopportabile d’inverno. Una comunità che sembrerebbe non avere elementi “comuni” e che spesso trascende i limiti della sana convivenza: le armi sono notoriamente a portata di tutti e non è affatto raro che sparino, non solo per dissuadere serpi e capi di bestiame vaganti, ma pure per dirimere questioni di vicinato o meno.
Ovviamente, il contesto è degradato, la promiscuità la regola, le droghe e l’alcol il comun denominatore, l’indigenza una piaga endemica. Ma c’è il senso di libertà a fare da collante. Io quelle zone le ho conosciute e garantisco che l’altra faccia di tale libertà è una depressione sconfinata quanto la valle che la custodisce. La terra sarà pure a buon mercato e le risorse primarie a portata di mano, ma la ripetitività di un paesaggio così poco accogliente e il suo isolamento malsano non ne fanno per la maggior parte dei comuni mortali una destinazione promettente. Un conto è transitarvi per un giorno, un altro farne la propria residenza fissa. Ecco che l’associazione “La Puente”, con sede nella cittadina universitaria di Alamosa, meta di frequenti viaggi della nazionale italiana di atletica per svolgervi la preparazione in altura, è uno dei pochi spiragli di luce in questo buco nero della modernità: il punto di partenza è portare ai burberi residenti sparsi per la valle qualche modesto conforto – per esempio, la preziosa legna da ardere contro i rigori dell’inverno – e tentare di rinsaldarne i legami con una comunità quanto mai presunta. L’autore finisce per trovarsi a suo agio in quel bizzarro coacervo di varia umanità. «Stavo bene tra questa gente affrancata dall’ansia di lasciare un segno rispetto a quella che frequentavo a New York. Era un mondo selvatico pieno di bellezza e mistero, una casa per chi aveva a malapena gli occhi per piangere.» Eppure, persino per un normale cittadino americano, non dico europeo, quel senso di libertà e di tutt’uno con il paesaggio sarebbe insufficiente a giustificare la scelta di trasferirsi in un ambiente così estremo. Viene automatico pensare che la forza soverchiante della natura e la violenza talvolta inaudita a cui sembrerebbe dare la stura siano un oscuro mostro da cui tenersi alla larga. Però, l’autore impara a “non giudicare” scelte e difficoltà altrui: la prateria è al tempo stesso santuario e luogo d’esilio per i suoi eccentrici abitanti. La loro capacità di decidere per sé stessi non è diversa da quella di milioni di concittadini dal livello di istruzione sotto la decenza che, ovviamente, esercitano comunque il loro diritto di voto.
Non tanto diversi sono i personaggi che popolano il romanzo Abbondanza (Marsilio Editori, traduzione di Gaja Cenciarelli, pagg 363, euro 19) di Jacob Guanzon. La storia è davvero una vicenda on the road tutta americana, con un padre, Henry, che è senza casa e senza lavoro e deve trovare il modo per sostentare se stesso e il figliolo, Junior, tra mille difficoltà dovute anche ai suoi precedenti per droga. Il filo conduttore è la vita grama nella provincia di un’America di esclusi, un universo per perdenti in cui solo il valore dei sentimenti sembra fare da argine all’indifferenza e a una sconfinata avidità, con notti passate in motel sudici e più spesso sul sedile posteriore di un’automobile scassata. È un’America davvero poco hollywoodiana e per niente sfavillante, una sacca di primitività e arretratezza sociale che spaventa, a maggior ragione oggi che sta per aprirsi la seconda presidenza Trump, con proclami che lasciano poco all’immaginazione: chi non è in grado di badare a se stesso non merita aiuto, non uniformandosi agli standard minimi di americanità; chi, per giunta, non è WASP o, comunque, non ha un passaporto DOC si dovrà arrangiare come può; chi, addirittura, ha la fedina penale non immacolata o ha contratto debiti con le banche o con il fisco sarà costretto a una vita di stenti e di fuga, nonché di vergogna.
A nessuno è fregato un cazzo di cosa è successo a Carlotta (Edizioni Clichy, traduzione di Giovanni Maria Rossi, pagg 331, euro 22) di James Hannaham si svolge in un ambiente completamente diverso, tra carceri, ghetti urbani e ambienti non esattamente scintillanti. Costruito secondo i canoni liberi del flusso di coscienza di joyciana memoria, il romanzo mette in luce la severa realtà dell’impietosa società americana in cui gli ultimi devono arrangiarsi, adeguarsi, assuefarsi, sperando nella generosità del privato e di rado contando sulla presenza dello stato. Carlotta esce da un carcere maschile in cui, suo malgrado, si è trovata rinchiusa per anni e si trova alle prese con un mondo a cui non è più abituata e in cui gli abusi subiti in prigione non costituiscono una giustificazione sufficiente per le sue difficoltà, anche perché la mentalità calvinista che domina il paese non accetta gli inciampi e li considera frutto assoluto del libero arbitrio e non effetto almeno parziale delle molteplici variabili della vita e della società. Per giunta, il mondo urbano in cui Carlotta viene proiettata è all’insegna della gentrificazione di quartieri un tempo popolari e ora sempre più dominati dal potere del denaro.
Sono convinto che nemmeno la lettura di libri come quelli appena menzionati e come molti altri possa chiarire il quadro sconfortante di quest’America e delle scelte politiche che ha appena compiuto. Gli Stati Uniti sono un paese fondato su una serie di pretese a cui, sottoponendo i suoi cittadini a uno strisciante lavaggio quotidiano del cervello, finisce per credere ciecamente e su un tessuto culturale che nutre un’immagine di sé sovradimensionata, quando non del tutto falsa. Donald Trump è la punta di un iceberg che sta pericolosamente affiorando dalla siccità culturale della nazione.