L’ultimo rifugio dei facoltosi maroniti, i resort della regione montuosa di Kesrwan, resiste lontano dalla guerra. La stampa libanese segnala che chi ha una casa lì predilige non accendere neanche il televisore, e in qualche hotel ci sono tracce di sfollati giunti sin quassù dalla valle della Beqaa. Intanto alcuni di quelli che hanno lasciato l’invivibile Beirut per fuggire quassù, nelle loro abitazioni invernali o estive, si astraggono dalla realtà che li circonda, cercano di sottrarsi alla sua mossa soffocante e attendono solo notizie dalle ambasciate europee, alle quali alcuni hanno già chiesto il visto per partire.
Ma intorno alla quiete irreale del Kesrwan molti segnalano che i vecchi demoni della montagna, chiusa, identitaria, si stanno risvegliando. Nelle ore della grande emergenza il Libano si è dimostrato unito, solidale, ma tutto ha un limite, e i demoni bussano alle porte, soprattutto in queste queste montagne che hanno conosciuto fino all’Ottocento guerre tribali, identitarie, feroci.
I massacri del 1860 tra drusi e maroniti non sono poi così lontani nel tempo, lo spirito cosmopolita di Beirut nella lunga epoca dell’affluenza li ha assopiti promuovendo il grande boom economico di inizio Novecento, fino alla guerra civile e ognuno ha trovato l’utilità del vivere insieme e crescere insieme. Ma poi, dopo decenni di distruzione e di ricostruzione, il 4 ottobre 2020, l’incredibile esplosione del porto commerciale di Beirut, trasformato da Hezbollah in un deposito di proporzioni indescrivibili di esplosivo illegalmente lì nascosto da anni per combattere la guerra siriana, ha infranto la forza cosmopolita di Beirut.
Ma non se ne può addossare la responsabilità solo a chi ha dato il colpo di maglio all’economia libanese: tutta la casta libanese, un ceto politico feudale e rapace, porta il marchio della colpa per la catastrofe che si è abbattuta sull’economia nazionale dal 2019, quando la valuta nazionale ha cominciato a precipitare dal tasso di cambio di 1500 lire libanesi per un dollaro, fino alle 100mila libanesi per lo stesso dollaro, accompagnato dal blocco dei conti correnti in valuta straniera, dal contingentamento della cifra prelevabile dalle rimesse dei parenti all’estero.
I più affidabili istituti di ricerca stimavano il danno economico del quadriennio di collasso economico (2019-2023) del Libano in 75 miliardi di dollari. Una cifra enorme per un Paese che aveva il Prodotto Interno Lordo stimato nel 2028 in 54 miliardi di dollari, ma precipitato a 16 miliardi di dollari prima della guerra attuale. Ora i bombardamenti hanno prodotto danni valutati a oggi tra 18 e 25 miliardi di dollari, mentre il PIL potrebbe scendere, se ci fermasse oggi, di un altro 23%.
Pochi dissentono da Standard & Poors, che prevede una lunga fase bellica e considera inevitabile un peggioramento del quadro economico e finanziario. I consumi già adesso si sono ridotti del 50% a livello nazionale e la famosa linea della povertà dei calcoli macroecomici ha posto l’asticella al di sopra delle teste del 44% della popolazione. Sembra inevitabile che i demoni della montagna tornino a farsi vedere, come ombre lugubri sulle strade libanesi. Per definire il quadriennio terribile non si può che ricorrere all’usuale calcolo dell’inflazione: 85%, 155%, 177%, 221%.
L’inazione governativa e bancaria ha fatto sì che l’illegale blocco dei risparmi depositati in banca da circa un milione di libanesi abbia congelato 85 miliardi di dollari: si ricordi che il Libano ha un governo in carica per il solo disbrigo degli affari correnti perché è senza Presidente della Repubblica da due anni soprattutto perché Hezbollah ha cercato di imporre il proprio candidato senza avere in Parlamento i numeri per farlo eleggere e il presidente della camera, il suo alleato Nabih Berri, non convoca una seduta elettiva da un anno a questa parte per evitare che si formi una maggioranza alternativa.
Ma l’inattività bancaria non è colpa che in parte di questo soggetti, visto che il governatore della Banca del Libano, in carica per addirittura 30 anni ininterrotti, è oggi nelle patrie galere per accuse di corruzione e riciclaggio, suffragate da tempo da mandati di cattura spiccati dall’Europa.
E’ tutta “la casta” libanese sotto accusa per la catastrofe economica che sta uccidendo il Libano. Voler distribuire le colpe tra i partiti tradizionali e il nuovo gruppo dirigente legato ad Hezbollah è un lavoro che può essere fatto, ma che alla fin dei conti lascia tutti sul banco degli imputati.
Un esempio molto chiaro fatto dal quotidiano libanese L’Orient Le Jour: “Secondo il Fondo Monetario Internazionale, i depositi in dollari erano ancora pienamente disponibili nel sistema finanziario nel 2014, anno in cui Ali Hassan Khalil è stato nominato ministro delle Finanze, su insistenza del movimento Amal e di Hezbollah, carica che ha mantenuto fino al 2020. Inoltre, la scelta di un default non organizzato è stata palesemente evidente non appena il presidente del Parlamento Nabih Berri – sostenuto dall’ex governatore della Banca del Libano Riad Salameh e dall’Associazione delle banche in Libano (ABL) – si è rifiutato di approvare una legge sul controllo dei capitali. Cinque anni dopo, questa misura chiave – adottata in casi analoghi in tutto il mondo – non è ancora stata attuata. Ciò ha aperto la strada a un enorme deflusso di capitali, stimato in circa 14 miliardi di dollari, compresi gli 8 miliardi che la Banca del Libano ha pagato alle banche nel gennaio 2020. Sebbene non sia stato celebrato alcun processo al riguardo, diverse fonti bancarie e giudiziarie hanno dichiarato a L’Orient Le-Jour che gran parte di questi fondi appartengono a politici, banchieri e personaggi influenti”.
La guerra oltre a risvegliare i demoni della montagna dovrebbe mettere sul banco degli imputati della storia la casta libanese. E non si può dire che questo non accadrà e uno dei migliori conoscitori del Libano, Lorenzo Trombetta, dalle pagine di Domani, ha avvertito: “ Su un territorio sempre più ridotto in macerie e stravolto da un massiccio e senza precedenti sfollamento di famiglie dal sud, dalla Bekaa e da Beirut, il movimento politico Cittadini e Cittadine nello Stato (MMFD il suo acronimo in arabo) lavora su più fronti per promuovere un articolato e concreto piano “per costruire uno Stato libanese inclusivo” e capace sia di “affrontare l’emergenza interna attuale” sia di “resistere alle ricorrenti aggressioni militari straniere”, negoziando internamente ed esternamente “per elaborare una visione condivisa di politica estera e di difesa, che vada oltre i dettami delle risoluzioni Onu 1559 (2004) e 1701 (2006)”.
Mentre le élite parlano in modo ambiguo di un “cessate il fuoco” e del rispetto delle risoluzioni Onu, aprono il banco dell’elemosina internazionale “per far fronte alla crisi umanitaria” sperando di mantenere attivi i rispettivi canali di aiuto clientelari, e organizzano un “vertice spirituale” tra cristiani e musulmani per ribadire la divisione verticale della società, gli emergenti leader politici di MMFD, già candidati alle ultime elezioni legislative, nelle varie zone del paese sono in prima linea per organizzare l’accoglienza degli sfollati e la loro integrazione, seppur temporanea, nelle zone considerate più sicure. Anche per far sì che gli episodi interni di discriminazione su base comunitaria – tanto isolati quanto fisiologici in un contesto segnato da una crisi economica senza precedenti e dai mai curati traumi collettivi della guerra civile (1975-90) – non degenerino e non chiamino altre violenze su più larga scala”.
Ai tempi della pandemia papa Francesco disse al mondo che da una crisi si esce migliori o peggiori, mai uguali. Il Libano sembra consapevole che sia così e se i demoni della montagna spingono per uscirne peggiori, il Movimento dei Cittadini e delle Cittadini, che contro tutta la casta libanese ebbe un sorprendente successo alle ultime amministrative, vuole provare l’altra strada, uscire migliori.
Resistere alle sirene identitarie, rifondare il Paese per uscire dalla guerra è il primo passo, ma per riuscirci occorre presentare nel mondo un progetto-Libano convincente per l’ottenimento dei prestiti necessari. Esiste? Sì, si trova già enunciato ma mai applicato negli accordi di pace del 1990 che prefiguravano questo assetto istituzionale: una Camera alta, o Senato, eletto su base confessionale per dare tutte le garanzie alle comunità e una Camera bassa, o Parlamento, eletto su base partitica interconfessionale, quindi sulla base di partiti politici come i nostri, per dare tutti i diritti agli individui.
Questo modello istituzionale farebbe del Libano il modello per tutta una regione in macerie e da ricostruire dalla testa ai piedi. E’ certamente la grande idea, già esistente nei documenti costituzionali libanesi, che potrebbe dare una prospettiva nuova non solo al Libano ma a tutto il Levante.