Israele: la sinistra si batte per l'uguaglianza ma non per gli arabi
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Israele: la sinistra si batte per l'uguaglianza ma non per gli arabi

 È il titolo di Haaretz che sintetizza efficacemente l’interessante analisi di Odeh Bisharat.

Israele: la sinistra si batte per l'uguaglianza ma non per gli arabi
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

1 Luglio 2024 - 14.52


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Quel titolo e la riflessione che lo sostanzia, danno conto di un nodo, politico, culturale, identitario financo esistenziale, irrisolto d’Israele

La sinistra israeliana si batte per l’uguaglianza, ma non per gli arabi

 È il titolo di Haaretz che sintetizza efficacemente l’interessante analisi di Odeh Bisharat.

Annota Bisharat: “Dopo un lungo periodo di incubi e notti insonni, posso finalmente respirare con serenità: il principio di uguaglianza ha trovato un posto d’onore tra i valori fondamentali dello Stato.

Nove giudici dell’Alta Corte, che rappresentano la maggior parte dei settori del Paese – destra e sinistra, liberali e conservatori, donne e uomini – hanno deciso all’unanimità che non c’è spazio per l’elusione del servizio militare.

Tutti devono andare a Gaza e a Ramallah e domani, con l’aiuto di Dio, saremo tutti nel quartiere Dahieh di Beirut. E, se si aggiungono i crescenti appetiti dei messianisti, presto a Sana’a, nello Yemen, la terra dei nostri avi e dei vicini dei nostri avi sarà nelle nostre mani.

Se è così, tra tutte le ingiustizie che affliggono il Paese per mancanza di uguaglianza, i cavalieri dell’uguaglianza hanno trovato l’energia per affrontare solo la questione della coscrizione.

Non si preoccupano delle palesi discriminazioni contro la popolazione araba o delle palesi discriminazioni negli arresti, ad esempio nelle manifestazioni – un ebreo viene imprigionato da un giorno all’altro e il mondo intero e sua madre accorrono in sua difesa, ma quando un arabo viene trattenuto con le stesse accuse e rimane dietro le sbarre per otto mesi, si sente a malapena un grido di protesta da parte di questi cavalieri dell’uguaglianza.

Che dire dell’uguaglianza tra ebrei e arabi nel Negev? Ai primi viene detto “prendete quello che volete” per quanto riguarda la terra, mentre i secondi sono costretti ad andarsene e a fare spazio ai loro vicini ebrei. O la disuguaglianza nei territori occupati? I posti di blocco egualitari, l’uguaglianza nell’irrompere nelle camere dei bambini, l’uguaglianza nell’uccidere o le detenzioni amministrative che non farebbero vergognare il regime del dittatore nordcoreano.

Solo la coscrizione Haredi disturba il loro sonno. Un’altra popolazione serve, e la terra sarà uguale da cima a fondo.

I guardiani dell’uguaglianza vivono nel loro mondo. I milioni di persone soggette a occupazione e discriminazione? Per loro sono aria. I difensori dell’uguaglianza ci illuminano, parlando del pericolo che corre il Paese di cadere in un regime fascista. Se non si conoscesse bene, si potrebbe pensare che intendano i pericoli derivanti dal continuare a governare su un altro popolo.

Vi sbagliereste. A questi liberali interessa solo ciò che accade all’interno dei confini caldi e appiccicosi di Israele. L’occupazione-schmoccupazione non è interessante, è su un altro pianeta. Ai loro occhi, la corsa al fascismo non ha nulla a che vedere con i saccheggi e le aggressioni dei coloni dell’Area C. Sono come una persona che, mentre si trova in una situazione di crisi, si trova a dover fare i conti con un’altra situazione. Sono come una persona che, mentre divora tre piatti di knafeh e assapora ogni boccone, spiega a chi gli sta intorno i pericoli del diabete.

Questa è la tragedia dell'”alternativa” israeliana. È un’alternativa scollegata dall’ambiente e dalla regione, scollegata dalle ingiustizie verso l’altro e persino dalle ingiustizie contro i più deboli nello stesso Israele. Vedo l’eccitazione e il sospiro di sollievo tra i cavalieri della democrazia, e mi chiedo perché tutto questo clamore?

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Cos’è tutta questa gioia per l’unità tra la destra e quella che, per qualche motivo, viene chiamata sinistra? Secondo tutti i sondaggi, la parte dell’occupazione e del militarismo gode di una maggioranza decisiva nella società israeliana. Questa ripugnante unità dell’estrema destra con il campo del “non-Bibi” è un regalo netto ai sostenitori dell’annessione e della dittatura.

L’unità nazionale, soprattutto in un Paese occupante, è un guadagno netto per l’estrema destra. La destra si unisce alla sinistra solo intorno ai suoi slogan. La sinistra israeliana è una sinistra falsa e senza spina dorsale che abbandona la strada alla destra. Gli slogan della sinistra non trovano spazio in questa unità: no alla pace giusta, no al ritiro, no ai due Stati.

Dopo la sentenza dell’Alta Corte, altre migliaia di persone si aggiungeranno ai ranghi dell’esercito. Saranno al servizio di Bezalel Smotrich, che sta lavorando assiduamente per annettere la Cisgiordania, e del deputato della Knesset Otzmah Yehudit Limor Son Har-Malech, che si è finalmente espresso a favore dell’insediamento a Gaza.

Aneddoto: Ho controllato la composizione del collegio giudicante, ed è risultato che non c’era nessun giudice arabo tra loro. Per l’uguaglianza dei padroni non c’è posto per gli oppressi, il che va a scapito di tutta la società. Perché l’uguaglianza offerta dagli oppressi è più sostanziale, più umana e, soprattutto, garantisce il pane a tutti, non solo a loro stessi”, conclude Bisharat.

Il popolo declassato

Ignorati, declassati, considerati un peso. Sono oltre 1,2 milioni di cittadini (oltre il 20% della popolazione). Cittadini di serie B. Sono il “popolo invisibile”, titolo di un bellissimo libro-inchiesta di David Grossman. Sono gli arabi israeliani.

Quella Legge spartiacque

Un passo indietro nel tempo. Ventisette novembre 2014: Salim Joubran, giudice arabo della Corte Suprema israeliana, sostiene che gli arabi sono discriminati in Israele. “La ‘Dichiarazione di Indipendenza’ – afferma in un convegno di pubblici ministeri ad Eilat, secondo quanto riportato da Haaretz – menziona specificatamente l’eguaglianza, ma sfortunatamente questo non avviene nella pratica”. Joubran cita anche il rapporto della Commissione Or – istituita nel 2000 per far luce su dieci giorni di scontri tra polizia e cittadini arabi del nord di Israele, e intitolata al giudice della stessa Corte Suprema, Theodore Or. che l’aveva preceduta – secondo il quale “i cittadini arabi dello Stato vivono in una realtà di discriminazione”. Joubran elenca anche una serie di settori in cui esiste la discriminazione: “ci sono divari nell’educazione, nell’impiego, nell’assegnazione di terreni per le costruzioni e l’espansione della comunità, scarsezza di zone industriali e infrastrutture, molti errori nei segnali stradali in arabo” . Le cose non sono migliorate da quel giorno ad oggi, semmai è vero il contrario. Più di tre quarti degli arabi israeliani non credono che Israele abbia il diritto di definire se stesso come Stato nazionale del popolo ebraico. È quanto emerge dall’ultimo sondaggio d’opinione “Peace Index” condotto dall’Israel Democracy Institute, secondo il quale oltre il 76% dei cittadini arabi d’Israele intervistati respinge il diritto di Israele di definirsi Stato ebraico, con più del 57% che si dice “fortemente contrario” a questo concetto. Ancora un altro passo indietro nel tempo. Secondo una relazione del 1998 dell’Adva Centre di Tel Aviv, le disparità sociali ed economiche in Israele sono particolarmente evidenti nei confronti degli arabi israeliani.

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La relazione fornisce alcune cifre illuminanti: il reddito medio dei palestinesi che hanno cittadinanza israeliana è il più basso tra tutti i gruppi etnici del Paese; il 42% dei palestinesi cittadini israeliani all’età di 17 anni ha già abbandonato gli studi; il tasso di mortalità infantile tra i palestinesi cittadini israeliani è quasi il doppio rispetto a quello degli ebrei: 9,6 per mille nascite contro il 5,3. Il sistema giuridico israeliano si basa su almeno due categorie di cittadinanza. La categoria “A” vale per cittadini che la legge definisce come “Ebrei” cui la legge stessa conferisce un accesso preferenziale alle risorse materiali dello Stato come anche ai sevizi sociali e di welfare per il solo fatto di essere, per legge, “Ebrei”; in contrasto con la cittadinanza di categoria “B” i cui componenti sono classificati per legge come “non Ebrei”, cioè come “Arabi” e come tali discriminati dalla legge per quanto concerne la parità di accesso alle risorse materiali dello Stato ai servizi sociali e di welfare e soprattutto per ciò che concerne la parità di diritti di accesso alla terra ed all’acqua. Gli arabi non possono accedere a nessuna industria collegata, anche indirettamente, all’esercito (per esempio quella elettronica), sono esclusi da molti posti direttivi, non hanno nessuna di quelle agevolazioni (nell’acquisto degli appartamenti, di automobili e, anche, di abituali beni di consumo) che lo Stato concede ai suoi cittadini che hanno svolto il servizio militare. Hassan Yabarin, un avvocato arabo israeliano di spicco che ha continuato a lottare contro queste leggi nei tribunali, afferma che “essere arabo in Israele è come vivere nella propria patria ed essere sottoposto a leggi razziste che discriminano per identità”. “Questo significa che un arabo che vive nella sua terra natale viene trattato peggio di un immigrato a causa della suo origine nazionale”, rimarca ancora Yabarin che dirige il Centro legale per i diritti della minoranza araba in Israele (Adalah). Wadi Abunasar, direttore del Centro internazionale della consulta di Haifa, nel nord di Israele, sostiene la tesi che Israele si caratterizza per avere una struttura piramidale in base alla razza. “Al vertice della piramide – dice – si posizionano gli ebrei ashkenaziti laici, mentre gli arabi si trovano nella parte inferiore della stessa; altre categorie si posizionano tra questi due estremità. Ad esempio, un druso potrebbe situarsi nel terzo superiore della gerarchia del settore arabo, ma rimane nella parte inferiore se consideriamo la società israeliana nel suo insieme”, ha spiegato.

“Benché presti servizio nell’esercito israeliano, un druso continuerà a rimanere nella parte inferiore perché non è ebreo. Il “popolo invisibile” si affianca a quello ribelle nella minacciata espulsione di massa e pulizia etnica di cui si è fatto propugnatore   Tzhachi Hanegbi, ministro della Cooperazione regionale nel Governo Netanyahu, se palestinesi e fratelli arabi (israeliani) non porranno fine alle “loro azioni terroristiche”. Ma per comprendere appieno la complessità del rapporto tra la comunità arabo-israeliana e lo Stato, è molto utile riflettere su unsondaggio condotto, nel giugno 2017, dalla sezione in Israele del Konrad Adenauer Stiftung, dal programma Konrad Adenauer per la cooperazione arabo-ebraica presso il Dayan Center dell’Università di Tel Aviv e da Keevoon, una società di ricerca, strategia e comunicazione (margine di errore dichiarato: 2.25%). “Il numero di persone che hanno accettato di rispondere positivamente alle domande sulle istituzioni statali è notevolmente elevato – spiega Itamar Radai, responsabile accademico del programma Adenauer e ricercatore presso il Dayan Center – Esso riflette una generale aspirazione ad essere più integrati e partecipi nella società israeliana”. Al contempo, va aggiunto che la percepita discriminazione è stata indicata dagli intervistati come uno dei principali motivi di preoccupazione, con il 47% di loro che dichiara di sentirsi “generalmente trattato in modo non eguale” in quanto cittadino arabo.

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La maggioranza degli intervistati denuncia anche una diseguale distribuzione delle risorse fiscali dello Stato. Secondo Michael Borchard, direttore israeliano della Fondazione Konrad Adenauer, uno dei risultati più significativi del sondaggio è la risposta che è stata data alla domanda: “Quale termine ti descrive meglio?”. La maggioranza (28%) ha risposto: “arabo israeliano”; l’11% ha risposto semplicemente “israeliano” e il 13% si è definito “cittadino arabo d’Israele”. Il 2% ha risposto “musulmano israeliano”. Solo il 15% si è definito semplicemente “palestinese”, mentre il 4% si è detto “palestinese in Israele”, il 3% “cittadino palestinese in Israele” e il 2% si è definito “palestinese israeliano”.

L’8% degli intervistati ha preferito auto-identificarsi semplicemente come “musulmano”. In altri termini, stando al sondaggio il 56% dei cittadini arabi si definisce in un modo o nell’altro “israeliano”, il 24% si definisce in un modo o nell’altro “palestinese”. Solo il 23% di loro evita qualunque riferimento a Israele, mentre il 9% combina in qualche modo il termine “palestinese” con i termini “israeliano” o “in Israele”. “Il dato di fondo – afferma Borchard – è che si registra una maggiore identificazione con Israele che con un eventuale stato palestinese: vogliono essere riconosciuti nella loro identità specifica, ma non hanno alcun problema ad essere collegati a Israele”. L’indagine ha inoltre rilevato che i cittadini arabi israeliani sono più preoccupati per l’economia, la criminalità e l’eguaglianza interna che non per la questione palestinese.

Alla domanda su quale problema li preoccupi maggiormente, il 22% ha citato la sicurezza personale e la criminalità, altrettanti hanno citato la percepita discriminazione, il 15% ha dichiarato l’economia e il lavoro, mentre solo il 13% ha citato la questione palestinese. Interpellato circa le implicazioni politiche dell’indagine, Brochard ha risposto così: “Israele dovrebbe fare di più per rispondere a questo atteggiamento piuttosto positivo e cercare di essere più inclusivo, senza far circolare le affermazioni di chi descrive questi cittadini come generalmente sleali o non affidabili giacché le dinamiche di questa comunità ci raccontano una cosa diversa”.

Sono passati dieci anni d’allora. E il “popolo invisibile” lo è sempre di più. Invisibile e mal tollerato. Un altro segno dello scadimento d’Israele in un regime etnocratico. Che la sinistra intenderebbe “ammorbidire” ma non cancellare. Sia pure in forma “light” il tabù di una uguaglianza a tutti gli effetti e in tutti i campi tra cittadini israeliani, resta tale. Insuperato. 

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