Chi opera per salvare vite umane, chi è dalla parte dei più indifesi tra gli indifesi, non si arrende alla logica perversa della forza. E alza la voce, per chi voce non ha e torna a esistere solo se terrorizza.
Dichiara Catherine Russell, direttore generale dell’Unicef:
“Sono profondamente preoccupata per il benessere dei bambini in Israele e nello Stato di Palestina.
Con notizie di centinaia di civili uccisi o feriti, stiamo monitorando attentamente la situazione per le segnalazioni di gravi violazioni dei diritti commessi contro i bambini.
Gli eventi di oggi continuano il trend di picchi di violenza che hanno sconvolto Israele e lo Stato di Palestina, causando la morte di 199 bambini e il ferimento di oltre 2.800 negli ultimi tre anni.
L’Unicef chiede l’immediata cessazione delle ostilità e che tutte le parti proteggano i bambini dai pericoli e offrano loro la protezione speciale a cui hanno diritto, in conformità con gli obblighi previsti dal diritto internazionale umanitario.
Più di ogni altra cosa, i bambini di Israele e dello Stato di Palestina hanno bisogno di una soluzione politica duratura alla crisi, in modo che possano crescere in pace e liberi dall’ombra della violenza.”
Rimarca Mustafa Tmaizi, direttore di Oxfam nei Territori Palestinesi Occupati e in Israele: “Oxfam chiede a tutte le parti in conflitto di cessare immediatamente ogni offensiva militare per evitare un’ulteriore escalation di violenza, che ricadrebbe in primis sulla popolazione civile di entrambe le parti. La situazione attuale rappresenta il persistente fallimento nel mettere in campo soluzioni efficaci per affrontare la lunga occupazione e il blocco imposto su Gaza. Siamo al lavoro in queste ore, insieme ai nostri partner e alle altre organizzazioni internazionali, per valutare la situazione umanitaria, i bisogni più urgenti e i rischi per la sicurezza dei civili e dei nostri operatori sul campo, soprattutto nelle aree prive di rifugi adeguati”.
Stop all’occupazione
“Le gravi notizie che ci giungono da Israele e Palestina scuotono ancora una volta le nostre coscienze di donne e uomini che credono in un futuro di pace per tutta l’umanità. Esprimiamo la nostra vicinanza ai familiari e ai cari delle vittime di questa nuova ondata di violenze, che non potrà, come già vediamo in queste prime ore, che innalzare ancora il numero di vittime e l’emergenza umanitaria nel tragico contesto israelo-palestinese.
Il 2023 è un anno di violenze senza precedenti. Dall’inizio dell’anno, già più di 200 Palestinesi erano morti per mano israeliana, inclusi almeno 38 bambini e bambine; un numero di vittime già maggiore di quello registrato in tutto il 2022. Nella sola giornata di oggi, a questi numeri inaccettabili si aggiungono almeno 100 vittime israeliane e almeno 198 palestinesi, e queste cifre sono purtroppo destinate ad aumentare di ora in ora. La popolazione civile non deve mai essere un obiettivo di qualsivoglia azione armata.
Continuare a raccontare questi momenti come episodi isolati non solo non restituisce il quadro di una situazione di crisi protratta, ma rischia di costituire un ulteriore ostacolo alla pace.
Il disinteresse e l’immobilità della comunità internazionale nei confronti della occupazione e della colonizzazione israeliana in Palestina ha creato un clima di impunità di fronte alle gravi violazioni dei diritti umani commesse da Israele in Palestina: attacchi dei coloni, incursioni mirate, demolizioni di infrastrutture, arresti arbitrari e uccisione di civili sono all’ordine del giorno.
Senza uno sforzo concreto perché i diritti di tutti vengano finalmente riconosciuti e rispettati non solo non potrà esserci pace, ma attacchi e massacri avranno inevitabilmente dimensioni sempre più feroci.
Chiediamo quindi al governo italiano, all’Unione Europea e a tutta la comunità internazionale di: Agire per un immediato cessate il fuoco e per la riapertura di un tavolo di negoziato basato sulle norme e sui principi dei diritti umani e del diritto internazionale. Far ripartire immediatamente la macchina della diplomazia, per porre fine dell’occupazione militare e alla colonizzazione israeliana in Palestina, incluso il blocco che da 15 anni affligge la striscia di Gaza, nel pieno rispetto del diritto internazionale Cessare la fornitura di armamenti (armi, munizioni, equipaggiamenti ecc.) a tutte le parti coinvolte nel conflitto israelo-palestinese, laddove sussista un rischio chiaro e preponderante che tali forniture possano essere usate per commettere gravi violazioni del diritto internazionale umanitario. Garantire in tempi rapidissimi e senza restrizioni le operazioni di soccorso della popolazione civile, che come sempre sarà la vera vittima di questa ennesima ondata di violenze”.
Firmato: Piattaforma delle Ong italiane in Mediterraneo e Medio Oriente
AOI – Associazione delle organizzazioni italiane di cooperazione e solidarietà internazionale.
Il report dell’Ispi
“Uno scenario inimmaginabile fino a poche ore fa, ma diventato estremamente concreto in pochissimo tempo. Questo, in estrema sintesi, rappresenta per Israele l’escalation iniziata all’alba di sabato, 7 ottobre, quando un’offensiva via terra, aria e mareè partita dalla Striscia di Gaza contro lo Stato ebraico. L’iniziativa di Hamas, movimento palestinese di matrice islamica, ha poco a che vedere – per effetto e portata – con le precedenti escalation tra lo Stato ebraico e l’enclave costiera. Rischia quindi di innescare instabilità diffuse non solo a livello locale, ma anche regionale e internazionale. Quello che alcuni osservatori chiamano già “l’11 settembre di Israele” si inserisce come un cuneo nel percorso di normalizzazione tra Israele e i paesi arabi della regione, iniziato con gli Accordi di Abramo nel 2020. Sarebbe un errore, tuttavia, legare l’accaduto a ragioni meramente geopolitiche e legate al contesto internazionale. Le radici della crisi, probabilmente la più grave di sempre per Israele, sono da rintracciare nelle dinamiche locali, di un conflitto incancrenito e, allo stesso tempo, sempre più negletto dalle agende politiche internazionali.
Cosa cambia questa volta
Negli anni scorsi, ad esempio ad agosto del 2022 o a maggio del 2023, si sono verificate varie crisi violente, ma temporalmente circoscritte e caratterizzate da passaggi ricorrenti: evento scatenante (come scontri sulla spianata delle moschee a Gerusalemme), lancio di razzi da Gaza (quasi sempre respinti dal sistema di protezione Iron Dome), raid israeliani nell’enclave, cessate il fuoco raggiunto – molto spesso – con la mediazione dell’Egitto. L’ultima escalation, invece, ha una dimensione completamente diversa. Per la prima volta, infatti, i gruppi armati che controllano Gaza dal 2006 hanno avviato anche una vera e propria incursione di terra, anche utilizzando deltaplani per atterrare in territorio israeliano, attraverso i tunnel – che le forze israeliane si affannano costantemente a rintracciare e distruggere – e perfino prendendo il controllo con la forza del valico di Beit Hanoun/Erez, cruciale e sorvegliatissima via di accesso alla Striscia. Le immagini dei miliziani palestinesi che sciamano “liberamente” per le strade di Israele sono una dimostrazione di fragilità senza precedenti per lo Stato ebraico. Tanto che Hamas e il movimento del Jihad Islamico (Pij) hanno insistito molto su questo punto anche a livello propagandistico. Le incursioni nel sud di Israele, hanno evidenziato le organizzazioni combattenti, sono state precedute da un “disturbo di massa dei sistemi di comunicazione e sorveglianza”, che ha consentito ai combattenti di entrare nel Paese praticamente inosservati.
Fragilità interne e scelta dei tempi
Al momento non è possibile formulare giudizi solidi, ma come evidenziato da diversi osservatori potrebbe trattarsi di un gravissimo “buco” dell’intelligence israeliana, in particolare del Mossad e dello Shin Bet, avvenuto in una delle zone più sorvegliate al mondo. Cercando di comprendere le tempistiche dell’iniziativa palestinese, per rispondere alla pressante domanda “Perché ora?”, vale forse la pena inserire nell’equazione anche la complessa situazione interna dello Stato ebraico. Il paese, infatti, è ancora in fermento per la controversa riforma della giustizia voluta dal premier Benjamin Netanyahu, che cerca di ridimensionare i poteri della Corte Suprema in favore dell’esecutivo e della Knesset, il parlamento monocamerale israeliano.
Il progetto di riforma è stato osteggiato negli scorsi mesi non solo dalla società civile, ma anche da ampi settori degli apparati di sicurezza. Nel tentativo di tenere in piedi il governo, Netanyahu ha concesso spazio e potere alle anime più estremiste dell’esecutivo, come il ministro della Sicurezza interna Itamar Ben Gvir. Non è del tutto da escludere l’idea che Hamas abbia colto l’occasione, sfruttando un attimo di particolare debolezza e divisione all’interno dello Stato ebraico per assestare un colpo micidiale alla sua sicurezza e alla percezione della sua sicurezza. Non a caso, poco dopo l’inizio dell’offensiva, il movimento islamico ha invitato gli arabi di Israele a unirsi alla lotta e a sollevarsi contro lo Stato ebraico. Questo risponde in parte alle domande sull’entità dell’attacco, troppo meticoloso e articolato per essere stato estemporaneo. A Gaza, infatti, potrebbero aver maturato l’idea e organizzato l’offensiva per mesi, magari avvalendosi di aiuti esterni, per poi agire approfittando delle divisioni interne di Israele.
Valore simbolico e scenario regionale
Nel tentare di spiegare le tempistiche dell’escalation è difficile non notare la concomitanza, 50 anni e un giorno, con l’anniversario della Guerra dello Yom Kippur (1973). Con quell’evento storico, peraltro, la crisi attuale condivide un altro aspetto: l’obiettivo di sparigliare lo status quo, o almeno mostrare di poterlo fare. Questo elemento aggiunge certamente un valore simbolico non trascurabile, come pure il nome scelto da Hamas e Pij per l’operazione: “Tempesta di Al-Aqsa”. Gerusalemme e le sue moschee, infatti, ricorrono spesso nell’iconografia palestinese, ma il riferimento ad Al-Aqsa contiene anche un messaggio diverso, che riguarda il contesto regionale. Il destinatario, difatti, potrebbe essere l’Arabia Saudita, paese che ospita gli altri due luoghi sacri dell’islam (Mecca e Medina), mentre Gerusalemme è la terza città santa per i musulmani di tutto il mondo.
Proprio in queste settimane, il regno arabo saudita è impegnato in fitti negoziati con gli Usa, che dovrebbero portare alla definitiva normalizzazione delle relazioni tra Riad e Israele. Sarebbe il coronamento del percorso degli “Accordi di Abramo”, patrocinati a partire dal 2020 dall’amministrazione americana di Donald Trump, e che finora hanno coinvolto Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Sudan e Marocco. L’escalation rischia di segnare una battuta d’arresto per questo processo. I sauditi – così come gli emiratini – sono stati tra i primi a chiedere una cessazione delle ostilità, puntando il dito contro l’occupazione israeliana ma senza mostrare sostegno verso l’offensiva palestinese.
Il Qatar, invece, ha rilasciato una dichiarazione chiedendo moderazione a entrambe le parti, ma precisando di ritenere responsabile Israele. A guadagnarci a livello di immagine è probabilmente l’Iran, la cui guida suprema Ali Khamenei ha dichiarato: “Oggi la gioventù palestinese e il movimento palestinese sono più energici, più vivi e più preparati di quanto lo siano mai stati negli ultimi 80 anni”. Il partito-milizia libanese Hezbollah, sciita e legato a Teheran, ha rivendicato nella mattina di domenica il lancio di razzi e colpi di mortaio dal sud del Libano contro tre posizioni dell’IDF nel Nord di Israele, nei pressi del monte Dov. Non stupirebbe se il coinvolgimento del “Partito di Dio” si facesse via via più deciso nei prossimi giorni.
Un conflitto irrisolvibile?
Sarebbe un errore, tuttavia, ricercare le radici di quanto sta accadendo solo nel contesto politico e diplomatico regionale. Iniziative come gli Accordi di Abramo si basano proprio sull’idea che per risolvere il conflitto sia sufficiente “scavalcare” di fatto i palestinesi, interagendo e facendo accordi direttamente e solo con i vicini arabi. Questa postura, unita alla pretesa di quasi tutti i governi israeliani di poter vivere in uno stato di militarizzazione perenne (per quanto a bassa intensità), contribuisce al rafforzamento dei movimenti politici più intransigenti come Hamas e Pij.
Vale la pena valutare, infine, anche la componente generazionale. Il 2023 non ha segnato solo i 50 anni dalla guerra dello Yom Kippur, ma anche i 30 anni dagli accordi di Oslo.
L’intesa, siglata a settembre del 1993, si basava sulla soluzione a due Stati che ancora oggi rappresenta la posizione ufficiale praticamente dell’intera comunità internazionale. La crisi di oggi potrebbe rappresentare un colpo mortale e definitivo per quello che resta di quegli accordi, considerato che la risposta di Israele non potrà che essere durissima, come chiarito da Netanyahu nella serata di sabato. Inoltre, molti dei miliziani palestinesi di oggi – che nei video diffusi in rete brandiscono kalashnikov e catturano mezzi militari israeliani – hanno fra i 20 e i 35 anni. Fanno tutti parte della “generazione Oslo”: sono nati, cioè, poco prima o addirittura dopo la firma dei protocolli e – non avendone mai visto una vera implementazione – non credono minimamente alla soluzione a due stati. Rifiutano poi l’idea, centrale nel ventennio di Netanyahu, che lo status quo sia in qualche modo “sostenibile”, e che la soluzione politica sia di fatto rinviabile sine die. Erano dei bambini quando – nel 2007 – Hamas e Fatah instauravano il duopolio, Gaza e Cisgiordania, che ancora oggi domina i territori palestinesi, in cui non si vota da allora. Di fronte a una comunità internazionale sempre più disinteressata a quella che per mezzo secolo è stata “la questione” per eccellenza, molti di loro trovano nella lotta armata l’unica via”.
Così è. E il mondo ne porta appieno la responsabilità.
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