A lanciare l’allarme è Ted Chiaban, Vicedirettore generale dell’Unicef, l’Agenzia delle Nazioni Unite per l’Infanzia.
“Non è esagerato dire che la situazione dei bambini in Sudan oggi è senza precedenti. Prima che la guerra scoppiasse il 15 aprile, il Sudan era già alle prese con una crisi umanitaria. Ora, oltre 110 giorni di brutali combattimenti hanno trasformato la crisi in una catastrofe, minacciando la vita e il futuro di una generazione di bambini e giovani, che rappresentano oltre il 70% della popolazione.
I numeri sono sconcertanti. Quasi 14 milioni di bambini hanno un estremo bisogno di assistenza umanitaria. 1 bambino su 2 in Sudan sta affrontando sfide inimmaginabili per la sua sicurezza e il suo benessere. Ogni singolo giorno.
1,7 milioni di bambini sono stati cacciati dalle loro case – i genitori stanno facendo la scelta impossibile di sradicare i loro figli e di lasciarsi alle spalle tutto ciò che hanno sempre conosciuto – e ora sono in fuga all’interno del Sudan o attraversano i suoi confini, vulnerabili alla fame, alle malattie, alla violenza e alla separazione dalle loro famiglie. Questo numero si aggiunge agli 1,9 milioni di bambini sfollati in Sudan prima di questa ultima crisi.
Almeno 435 bambini sono stati uccisi nel conflitto e almeno 2.025 sono stati feriti. Si tratta di una media di un bambino ucciso o ferito ogni ora dall’inizio della guerra. Sappiamo che si tratta di una stima insufficiente e che il bilancio reale è probabilmente molto più alto. Le ramificazioni di questa crisi si estendono anche oltre i confini del Sudan, colpendo direttamente Paesi come il Ciad, il Sud Sudan e la Repubblica Centrafricana, e le implicazioni regionali e globali sono significative.
Ogni giorno i bambini vengono uccisi, feriti, rapiti e vedono le scuole danneggiate, distrutte o saccheggiate. Abbiamo avuto notizie di rapimenti, reclutamento di bambini in gruppi armati, violenza su base etnica e violenza di genere contro donne e ragazze. Tre milioni di bambini sotto i cinque anni sono malnutriti e 700.000 sono a rischio di malnutrizione acuta grave e mortalità. 1,7 milioni di bambini sotto un anno di età rischiano di non essere vaccinati, aumentando il rischio di epidemie. Nello Stato del Nilo Bianco, abbiamo una combinazione letale di diarrea acquosa acuta, morbillo e malnutrizione. Se non si riesce a contenere questa situazione, le conseguenze potrebbero essere gravi.
In mezzo alla devastazione del conflitto, è stato di ispirazione vedere la dedizione dei colleghi dell’Unicef e delle Nazioni Unite e dei nostri partner umanitari e la loro determinazione a rimanere e a fornire aiuti salvavita a bambini e famiglie. L’Unicef, insieme ai suoi partner, ha raggiunto oltre 3 milioni di bambini e donne con forniture sanitarie, 2,1 milioni di persone con acqua potabile e 2 milioni di bambini con screening per la malnutrizione, di cui circa 107.000 hanno ricevuto cure salvavita. Inoltre, quasi 200.000 bambini e persone che se ne prendono cura stanno beneficiando di consulenza psicosociale, apprendimento e supporto alla protezione, oltre che di attività ludiche e della possibilità di tornare a essere un bambino, anche attraverso oltre 400 spazi sicuri allestiti in tutto il Paese.
Ad oggi, l’Unicef ha consegnato oltre 5.500 tonnellate di aiuti salvavita in tutto il Sudan, comprese le aree a rischio in Darfur, Kordofan e Khartoum. Tuttavia, mentre i combattimenti continuano, i bisogni non potranno che aumentare, con molte comunità vulnerabili che restano fuori dalla portata del sostegno umanitario. Nei prossimi 100 giorni, l’Unicef ha urgentemente bisogno di 400 milioni di dollari per sostenere e ampliare la sua risposta alla crisi a sostegno dei bambini più vulnerabili.
Non possiamo accettare il tributo che questa guerra sta imponendo ai bambini del Sudan e alle loro famiglie. Ricordiamo l’indignazione quando la crisi del Darfur era al massimo dell’orrore. Non possiamo tornare a quella situazione. Il nostro messaggio alle parti in conflitto è quindi chiaro. Fermate i combattimenti e impegnatevi per una cessazione duratura delle ostilità. Tutte le parti devono rispettare i loro obblighi, secondo il diritto umanitario internazionale e i diritti umani, di proteggere i civili, anche prevenendo e ponendo fine alle gravi violazioni contro i bambini. Tutte le parti devono garantire che la comunità umanitaria possa raggiungere in sicurezza i bambini e le famiglie bisognose, rispettando gli operatori umanitari e le loro sedi, eliminando le barriere burocratiche e amministrative e facilitando l’accesso. Ci auguriamo che i colloqui di Gedda e gli altri processi negoziali possano fare urgentemente progressi in questo senso”.
La denuncia di Amnesty
Amnesty International ha diffuso un nuovo rapporto sui crimini di guerra commessi nel conflitto tra le Forze di supporto rapido (Fsr) e le Forze armate sudanesi (Fas), che sta devastando lo stato africano.
Il rapporto documenta massacri di civili a seguito di attacchi deliberati e indiscriminati portati a termine dalle parti in conflitto contro la popolazione civile e denuncia violenze sessuali contro donne e ragazze, attacchi mirati contro strutture civili, quali ospedali e chiese e vasti saccheggi.
Alcune di queste azioni – come gli attacchi contro i civili e quelli contro le strutture civili, lo stupro e altre forme di violenza sessuale e i saccheggi – costituiscono crimini di guerra. Il rapporto riguarda principalmente la capitale Khartoum e il Darfur occidentale.
“Ogni singolo giorno, mentre le Fsr e le Fas combattono per il controllo del territorio, la popolazione civile sudanese soffre orrori inimmaginabili”, ha dichiarato Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International.
“I civili vengono uccisi all’interno delle loro abitazioni o mentre cercano disperatamente cibo, acqua e medicinali. Finiscono in mezzo al fuoco incrociato quando provano a fuggire e vengono intenzionalmente assassinati in attacchi mirati. Decine di donne e ragazze, alcune di soli 12 anni, sono state stuprate o sottoposte ad altre forme di violenza sessuale. Nessun luogo è sicuro”, ha sottolineato Callamard.
“La violenza dilagante nella regione del Darfur, dove le Fsr e le milizie loro alleate stanno portando morte e distruzione, fa venire in mente la campagna di terra bruciata dei decenni scorsi, in alcuni casi ad opera dei medesimi responsabili”, ha aggiunto Callamard.
“Le Fsr, le Fas e i gruppi armati affiliati alle une e alle altre, devono porre fine agli attacchi contro i civili e garantire percorsi sicuri in uscita per chi cerca salvezza. Occorrono misure urgenti per assicurare giustizia e riparazione per le vittime e le persone sopravvissute”, ha proseguito Callamard.
Dal 15 aprile 2023 le Fas (dirette dal capo del Consiglio supremo del Sudan, il generale Abdel Fattah al-Burhan) e le Fsr (un gruppo paramilitare guidato dal generale Mohamed Hamdan Dagalo, noto come Hemedti) si stanno scontrando per il controllo del Sudan.
Data la dimensione dei combattimenti e l’organizzazione delle due parti, ai sensi delle Convenzioni di Ginevra quello in corso è un conflitto armato non internazionale. Ai combattimenti, dunque, si applicano tanto il diritto internazionale umanitario, il cui scopo è proteggere i civili, quando il diritto internazionale dei diritti umani. Determinate violazioni delle loro norme costituiscono crimini di guerra, dei quali singoli soldati e comandanti possono essere chiamati a rispondere sul piano giudiziario”.
Cartoline dall’inferno e gli eroi in camice bianco
CosìI Ida Artiago per Fanpage: “Da metà aprile nel cuore dell’Africa si combatte una guerra di cui quasi nessuno parla. Si tratta della guerra del Sudan, che si va ad aggiungere a quella che da anni è scoppiata in una delle sue province, il Darfur, da almeno due decenni alle prese con la violenza etnica.
I combattimenti, scoppiati tra le forze armate sudanesi (Saf) e le forze paramilitari di supporto rapido (Rsf), hanno riacceso le linee di frattura nelle comunità di tutto il Darfur, in particolare nella città di El Geneina, con conseguenti violenze e attacchi su larga scala contro i civili, intensificatisi tra la fine di maggio e l’inizio di giugno, con centinaia di migliaia di persone che sono fuggite nel Ciad orientale.
In particolare verso Adré, dove un team di Medici senza Frontiere provvede a fornire cure e beni di prima necessità. Molti sono coloro che arrivano feriti e si dicono vittime delle milizie arabe all’interno di El Geneina.
“Tutto è cambiato per noi il 15 giugno scorso – ha raccontato Papi Maloba, unico chirurgo di Msf presente ad Adré -. Arrivano pazienti da ogni dove. Alcuni venivano trasportati su carretti trainati da asini o portati dai parenti. Non sapevamo dove iniziare. Le lesioni erano gravi: all’addome, al torace, agli arti inferiori, ai glutei. In un batter d’occhio, l’ospedale si è trasformato in un vero e proprio campo in meno di due ore. Eravamo preparati, ma non ci aspettavamo così tanti feriti
tutti insieme. Abbiamo pensato che il giorno successivo sarebbe stato un po’ più tranquillo, che ci avrebbe permesso di pianificare le cose correttamente. Si è rivelato peggio: abbiamo ricevuto quasi 400 nuovi feriti”.
Dal 15 al 17 giugno scorsi sono arrivati ad André in totale 858 feriti di guerra. Dal 25 giugno alla fine di luglio, la media è scesa a 10 o meno pazienti al giorno. Il più giovane ad essere stato ricoverato aveva due mesi, il più anziano aveva più di 70 anni. In sette sono arrivati già morti. Sessantadue donne incinte hanno ricevuto cure per ferite da arma da fuoco e ferite da percosse e altre aggressioni.
“La prima paziente che sono stato chiamato a vedere era una donna che era stata colpita allo stomaco e petto, era incinta di sei mesi. Avevamo molta paura per lei perché un pezzo di proiettile è stato conficcato nel suo utero. Sfortunatamente, il bambino è morto, ma lei è riuscita a sopravvivere”, ha detto Clémence Chbat, ostetrica di Msf.
Un gran numero di pazienti afferma di essere stato attaccato dalle milizie arabe a El Geneina e durante la loro fuga in Ciad. Riferiscono di essere stati presi di mira perché di etnia Masalit.
Tante sono le testimonianze raccolte da Medici senza Frontiere. Tra queste quella di H., 26 anni: “Io e le mie due figlie insieme a mia madre e quattro delle mie sorelle ci siamo trasferiti in un rifugio collettivo nel quartiere di Al Madares. Ma non era sicuro. Il quartiere era sotto costante bombardamento. Le milizie arabe prendevano di mira i civili nei rifugi. Per un po’ abbiamo avuto lenticchie e farina di mais, ma tutto è finito dopo un mese. Durante quel periodo, non avevamo cure mediche o medicine. Poi, le milizie arabe ci hanno attaccato nel rifugio. Ci hanno detto che questo non era il nostro paese e ci ha dato due opzioni: partire subito per il Ciad o essere uccisi. Hanno preso degli uomini e li hanno fucilati per le strade, senza nessuno che seppellisse i cadaveri”.
“Il 18 giugno – invece il racconto di K. 44 anni -, ho pagato un autista armato arabo 300.000 sterline sudanesi per far arrivare mia moglie e i miei figli ad Adré. Non potevo partire con loro perché ha detto che non era sicuro per la mia famiglia. Il 25 giugno sono andato sulle colline nel nord di El Geneina. Ho visto almeno 20 corpi quando ho guardato giù nella valle, e ho pregato Dio di salvarmi e permettermi di unirmi alla mia famiglia”.
E oggi l’emergenza continua: secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr), circa 130.000 rifugiati, principalmente donne e bambini, sono arrivati ad Adré nelle ultime settimane, provocando seri problemi umanitari. Mancano cure mediche, alloggi, aiuti alimentari, acqua e servizi igienico-sanitari, in un luogo dove l’accesso a questi bisogni è già difficile per la popolazione locale”.
Il coraggio di restare
Una storia esemplare raccontata da Laura Salvinelli per Elle: “La battaglia che ho combattuto dentro di me per decidere se restare nel Sudan in guerra o rimpatriare, come ha fatto la quasi totalità della comunità internazionale, non è stata semplice. Da una parte c’era il mio lavoro, che mantiene in vita i pazienti, e dall’altra la mia famiglia. Quando ho preso la decisione l’ho comunicata ai miei figli che l’hanno accettata, e senza parlarne troppo mi sostengono a distanza. Dal punto di vista affettivo sono importante e utile, ma il mio ruolo di nonna può essere sostituito temporaneamente, mentre la mia presenza qui è davvero indispensabile. Così mi sono detta che in questo momento dovevo rimanere». A parlare via videochat è Nicoletta Erba, ematologa di Lecco che lavora da cinque anni nel Centro Salam di cardiochirurgia fondato da Emergency a Khartoum.
«Per molti giorni dall’inizio dei combattimenti l’ospedale si è trasformato in un accampamento perché il personale locale non poteva tornare a casa. Ora la maggioranza è rientrata e i profughi che hanno voluto sono stati evacuati. Per quasi due mesi a tenere aperto il centro siamo rimasti in sette, tutti italiani. Ora stanno per arrivare in supporto altri colleghi, con un viaggio molto complicato», racconta. «Io lavoro nell’ambulatorio per la sorveglianza della terapia anticoagulante. Quasi tutti i pazienti operati da noi sono portatori di valvole meccaniche e hanno bisogno per tutta la vita di essere seguiti, perché necessitano per sempre di un farmaco complesso da usare, il cui dosaggio va calcolato con esami di laboratorio da eseguire con una certa periodicità. Già prima dei combattimenti non era facile mantenere la cura in un Paese immenso e povero, dove il costo della vita era lievitato in modo esorbitante. Ora solo il 35-40 per cento dei malati riesce a raggiungere la nostra clinica dove offriamo gratis i test, la prescrizione, le terapie e i farmaci in mezza giornata lavorativa. Il personale della reception sta facendo un lavoro encomiabile per tentare di contattare chi non si presenta.
Lo scorso anno avevamo aperto un programma specifico per le pazienti la cui gravidanza comporta alto rischio di complicanze e mortalità anche per il bambino. L’età media è di 26-27 anni. In genere, hanno almeno tre figli, ma possono arrivare anche a dieci. Sono donne che considerano la maternità come l’occasione per valorizzare se stesse. Spesso, sfidano i rischi legati alla gestazione pur di realizzare l’obiettivo di diventare madri. Quattro su dieci sono analfabete». Prima della guerra, Erba si stava occupando di controllo delle nascite, che in Sudan è quasi inesistente. «Avevamo iniziato a impiantare dispositivi contraccettivi ormonali sottocutanei con l’approvazione del ministero della Salute sudanese. Poi, con lo scoppio del conflitto, il programma è stato messo in secondo piano», osserva. Un altro problema che le sta a cuore è la disabilità. «Una recente indagine ha confermato come la malattia cronica rappresenti per le donne un fattore di disabilità sociale, mentre quella fisica viene considerata meno rilevante. Di conseguenza, queste persone sono costrette nella marginalità, con mancanza di prospettive e riduzione delle scelte di vita. Una condizione che una mia paziente, una ragazza, ha descritto perfettamente: “Seguo la terapia anticoagulante, sono viva, sono sana, però la mia vita non vale niente, perché in questa situazione non mi sposerò mai e sarò sempre di peso per la mia famiglia”». A tutto ciò ora si aggiunge la guerra. «Un’infermiera di Omdurman (località vicino a Kartoum al centro degli scontri, ndr) ci racconta il panico durante i bombardamenti. Una mia collaboratrice non è rientrata nella sua città perché ha saputo di donne stuprate. Nonostante tutto il mio staff, che è soprattutto femminile, si sta dimostrando molto sensibile e sta lavorando al massimo. Questa è una buona notizia», conclude Erba”.
Sono gli eroi in camice bianco. Dal Sudan “dimenticato”.