Qual è il prezzo per non vedere l’orrore? 900 milioni di euro. E’ quanto l’Unione Europea intende sborsare all’autocrate tunisino, Kais Saied, per fare il lavoro sporco, i respingimenti in mare o nel deserto, di migranti.
Il prezzo della vergogna
A scriverne su l’Espresso è Sabato Angieri.
“Esternalizzare le frontiere – annota tra l’altro Angieri – sembra la soluzione sulla quale tutti stanno convergendo e il Nordafrica in tal senso assume un ruolo strategico di primo piano. Con buona pace di chi cerca di ricordare il disastro prodotto da decisioni simili in Libia, i rapporti tra i governanti europei e i capi di stato nordafricani continuano a essere viziati dall’interesse.
Il caso giudiziario di Patrick Zaki e delle relazioni economiche tra l’Italia e l’Egitto ne è un’altra prova. Il “piano Mattei” per l’energia con gli accordi dell’Eni sul gas, le commesse di Leonardo e Fincantieri non sono state toccate dalla trattativa per la liberazione dello studente che dopo essere stato condannato a ulteriori 14 mesi di prigionia per aver criticato il suo governo, ha ritrovato la libertà mediante la grazia concessa dal presidente Al-Sisi. Un gesto di munificenza quasi regale, che ricorda più l’operato dei signori del passato che una vittoria del diritto sull’oppressione dei regimi autoritari.
Anche per questo le dichiarazioni entusiaste di Giorgia Meloni sul nuovo accordo con Tunisi non convincono. «Il Memorandum è un importante passo per creare una vera partnership tra l’Ue e la Tunisia», ha dichiarato la presidente del consiglio al termine della cerimonia ufficiale, il 16 luglio, auspicando che l’accordo diventi un «modello per le relazioni dell’Europa con gli altri Paesi del Nord Africa».
Il motivo è semplice: oltre ad aver fatto della lotta ai migranti un baluardo della propria campagna elettorale, il governo italiano dall’inizio della legislatura sta cercando di creare un asse europeo intorno al quale far convergere i partiti ai quali Meloni si sente più vicina, ovvero Diritto e Giustizia del premier polacco Mateusz Morawiecki e Fidesz dell’ungherese Viktor Orbán per orientare le decisioni dell’Europarlamento.
Nonostante lo scorso 29 giugno, mentre si discuteva il “Patto sulla migrazione”, Budapest e Varsavia avessero provato a bloccare i lavori del Consiglio europeo, la leader italiana aveva sminuito dichiarando «non sono insoddisfatta da chi difende i propri confini». Anche perché, il paragrafo del memorandum con la Tunisia era stato comunque inserito nel capitolo sulle relazioni esterne e per questo, a Consiglio concluso, Meloni aveva affermato che «la svolta totale è sulla dimensione esterna, non interna, del problema migratorio».
Pochi giorni dopo, il 5 luglio, Meloni atterra a Varsavia per dimostrare che l’unità di intenti tra Italia e Polonia è tutt’altro che incrinata: «non c’è divisione perché lavoriamo su come fermare la migrazione illegale, non su come gestirla», aveva spiegato la premier.
Dunque le parole d’ordine sono chiare: la migrazione è prima di tutto un «problema», non va «gestita» ma bloccata e per farlo bisogna organizzarsi «fuori dai confini europei». Ecco perché il Memorandum d’intesa con la Tunisia è così importante. Dei “cinque pilastri” che sono alla base del trattato, ovvero assistenza macrofinanziaria dell’Ue, rafforzamento dei legami economici, cooperazione sull’energia verde e promozione degli scambi culturali, migrazione e lotta al traffico di migranti, l’ultimo è senz’altro il più dirimente.
Bruxelles si è impegnata a fornire a Tunisi un finanziamento di 900 milioni di euro, condizionati a determinate clausole, e di ulteriori 150 milioni per il sostegno economico e 105 milioni (queste due ultime tranche subito) per il rafforzamento della gestione delle frontiere, le operazioni di ricerca e soccorso in mare e le misure di contrasto al «traffico di esseri umani», incluso l’acquisto di nuovi mezzi per la guardia costiera locale…”
Voci contro da Tunisi
“In un contesto antidemocratico, caratterizzato dall’assenza di dibattito e dalla censura dell’informazione, la Tunisia ha firmato un memorandum d’intesa dal titolo ‘Sottomissione al ricatto europeo'”: lo ha scritto su Facebook Romdhane Ben Amor, portavoce del Forum tunisino per i diritti economici e sociali (Ftdes) – Ong nota per le sue posizioni contrarie all’approccio dell’Ue in materia migratoria – in relazione alla firma Tunisi del Memorandum d’intesa sul partenariato strategico e globale tra Tunisia e Unione europea.
“Questo memorandum – prosegue Ben Amor – permetterà alla Tunisia di svolgere il ruolo di custode e carceriere, di diventare una fortezza per contenere coloro che non sono graditi secondo le politiche migratorie europee (pattumiera delle politiche migratorie europee) e di servire solo gli interessi economici europei, consacrando l’assenza del principio di uguaglianza nel diritto alla mobilità”.
L’intesa, per Ben Amor, “facilita la tratta di esseri umani, confisca loro il diritto alla mobilità e li costringe a tornare in cambio di briciole (riduzione dell’immigrazione in cambio di soldi, come ha detto il portavoce del premier olandese).
Le principali disposizioni del memorandum d’intesa riprendono gli elementi relativi alla migrazione inclusi nell’Aleca (Accordo di libero scambio completo e approfondito tra Ue e Tunisia le cui trattative sono ancora in corso, ndr), che è stato respinto dalle forze della società civile e dai giovani”.
“Tutti i migranti tunisini in situazione irregolare nell’area Schengen saranno tagliati fuori. I sogni di migliaia di nostri giovani saranno infranti da un protocollo d’intesa che abbraccia il principio della “riammissione”, ovvero l’espulsione collettiva basata sull’identità, e sancisce le disparità tra categorie e classi nel diritto alla mobilità”, conclude Ben Amor che lamenta anche come le clausole di questo accordo firmato dal presidente Kais Saied non siano ancora state rese note nel dettaglio in Tunisia.
Tra le prime voci contrarie alla firma del Memorandum anche quella della “pasionaria” Abir Moussi del Partito Destouriano Libero che in un post su Facebook denuncia la mancanza di legittimità dell’intesa firmata”.
La stessa opinione dilaga anche da questa parte del Mediterraneo. “Se questo è il TeamEuropa, allora siamo in un’era oscura. Un’epoca in cui dovremo lottare ancora per il significato e l’importanza dei diritti umani“, ha commentato il presidente della Ong tedesca Sea Eye. Il memorandum, infatti, sembra andare controcorrente rispetto a quanto espresso la scorsa settimana dall’Europarlamento, che chiedeva di tornare a organizzare delle missioni comuni per salvare i migranti in mare. “Chiediamo sempre che i diritti delle persone siano al centro di ogni accordo. Fino ad oggi purtroppo l’Europa ha contribuito a creare una fortezza, implementando una gestione securitaria della gestione dei flussi migratori.
Pensiamo che si dovrebbe partire dalla cura delle persone che attraversano il Mediterraneo. Nessuno più deve morire in mare, ma nemmeno in lager o luoghi dove dignità e diritti vengono calpestati. Le persone continueranno a partire. Servono fondi e volontà politica per costruire canali di accesso legale. Serve potenziare i corridoi umanitari che già noi come chiese protestanti realizziam. Accogliere le persone in modo degno e soccorrere in mare”, ha spiegato Marta Bernardini, coordinatrice di Mediterranean Hope, programma migranti e rifugiati della Federazione delle chiese evangeliche in Italia.
“La Tunisia non è un Paese sicuro”
“Credo che sia inaccettabile che si decida di procedere con la sigla del terzo accordo di esternalizzazione delle frontiere, dopo Turchia e Libia, che ricopre di soldi e mezzi i Paesi di partenza. Senza chiedere nulla in termini di rispetto dei diritti umani che dovrebbe essere elemento imprescindibile per le democrazie europee”, ha dichiarato poi Giorgia Linardi di Sea Watch. “Ci sono già tutti gli elementi perché la Tunisia sia definita ‘Paese non sicuro’. Da febbraio è in atto una vera politica di odio contro i migranti neri, da luglio veri e propri pogrom soprattutto nell’area di Sfax. I rappresentanti dell’Unione europea sono andati in Tunisia a siglare un accordo mentre ci sono persone abbandonate nel deserto che stanno morendo di stenti”.
Le navi salvavite e la logistica della crudeltà
Ne dà conto Annalisa Cangemi per Fanpage: “Un’altra tragedia sfiorata. La nave di Open Arms ha recuperato in mare ventiquattro persone, che sono state soccorse nel Mediterraneo a largo della Libia. Alla Ong è stato assegnato il porto di Civitavecchia: per raggiungerlo e poter sbarcare i naufraghi servono altre 3 giorni di navigazione. Open Arms aveva ricevuto la segnalazione di due imbarcazioni in difficoltà con oltre 100 migranti a bordo. Dopo aver allertato le autorità italiane la nave umanitaria aveva cercato di raggiungere la posizione indicata dai due barconi, ma non ha fatto in tempo, perché le autorità italiane l’hanno bloccata, chiedendo di lasciare le operazioni di soccorso a una motovedetta libica. Open Arms ha raccontato in un tweet quello che è successo: “Mentre ci dirigevamo verso la posizione, le autorità italiane ci hanno comunicato che sarebbe intervenuta una motovedetta libica e di non procedere al soccorso. Non abbiamo potuto fare altro che osservare il fumo lasciato da una delle barche vuote in fiamme”.
L’organizzazione umanitaria sempre su Twitter aveva riferito aver localizzato e soccorso un’imbarcazione in legno partita 5 giorni fa dalla Libia con a bordo 24 persone provenienti da Eritrea ed Etiopia, fra cui 6 donne, 9 minori non accompagnati e un bambino di 3 anni. Cinque di loro erano finite in acqua prima dell’arrivo dei Rhib di Open Arms, ma sono state recuperate e portate al sicuro a bordo della nave da soccorso. Alla Ong è stato però assegnato un porto lontano, procedura che da mesi viene reiterata dall’Italia: il porto in questione è quello di Civitavecchia. “La nostra nave si dirige ora verso il porto di #Civitavecchia, dove le 24 persone soccorse potranno sbarcare. Dopo 5 giorni alla deriva, dovranno affrontare altri 3 giorni di navigazione”, ha denunciato Open Arms.
L’Italia in tribunale
Un passo, breve, indietro nel tempo. Da un report dell’agenzia Dire del 13 luglio: “Un reclamo alla Commissione europea per chiedere un esame della nuova legge italiana in materia di gestione dei flussi migratori, che solleverebbe “gravi preoccupazioni” rispetto alle sue compatibilità con il diritto dell’Ue e quello internazionale su ricerca e salvataggio in mare, è stato presentato da una coalizione di ong. Dell’azione riferiscono i soggetti coinvolti, Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), Emergency, Medici senza frontiere (Msf), Oxfam Italia e Sos Humanity.
“La Commissione europea è la custode dei trattati dell’Ue e garantisce che gli Stati membri rispettino il diritto internazionale e comunitario” ha sottolineato Giulia Capitani, policy advisor su immigrazione e asilo di Oxfam Italia. “Dovrebbe sostenere e proteggere i diritti fondamentali di tutte le persone in Europa, invece sono le ong a riempire il vergognoso vuoto in mare lasciato dagli Stati membri dell’Ue“. Capitani ha aggiunto: “Invece di ostacolare il loro lavoro, le ong andrebbero coinvolte nella creazione di un sistema adeguato di ricerca e soccorso in mare“.
In una nota delle organizzazioni si riferisce che “la nuova legge italiana prevede che le imbarcazioni si dirigano senza ritardi verso il porto assegnato dopo la prima operazione di salvataggio, limitando così l’azione delle imbarcazioni nel fornire assistenza ad altre barche in difficoltà“. Nel testo si aggiunge: “La norma obbliga, inoltre, i capitani a fornire alle autorità italiane informazioni non meglio specificate sul salvataggio effettuato, portando a una richiesta di informazioni eccessive”.
Secondo le organizzazioni promotrici del reclamo, “la nuova legge è aggravata dalla recente prassi delle autorità italiane di assegnare porti lontani per lo sbarco”. Le ong continuano: “Questa politica non è prevista da alcuna normativa, ma è diventata una pratica comune dal dicembre 2022, facendo aumentare significativamente i tempi di viaggio e limitando di conseguenza la presenza delle navi umanitarie nella zona di ricerca e soccorso”.
Nello stesso giorno, il 13 luglio, gli eurodeputati hanno chiesto ai Paesi Ue e all’agenzia Frontex “di fornire una capacità sufficiente in termini di navi, attrezzature e personale dedicato alle operazioni di ricerca e soccorso e un approccio più proattivo e coordinato per salvare efficacemente le vite in mare”. La risoluzione non legislativa approvata per alzata di mano oggi a Strasburgo dal Parlamento europeo, sollecita inoltre gli Stati membri a “utilizzare appieno le navi gestite dalle Ong” e chiede una “missione di ricerca e soccorso globale dell’Ue”, messa in campo dalle autorità degli Stati membri e da Frontex. Nella risoluzione si condanna inoltre “il contrabbando e il traffico criminale” e si ribadisce che “percorsi sicuri e legali, in particolare attraverso il reinsediamento, sono il modo migliore per evitare le vittime in mare”. Nel testo anche la richiesta alla Commissione di presentare proposte per “condizionare i finanziamenti ai Paesi terzi alla cooperazione nella gestione dei flussi migratori e nella lotta contro i trafficanti di esseri umani e i contrabbandieri di migranti”. La Commissione dovrà fornire informazioni complete al Parlamento “su tutti i tipi di sostegno che l’Ue e i suoi Stati membri forniscono alle guardie di frontiera e costiere dei Paesi terzi, tra cui Libia, Turchia, Egitto, Tunisia e Marocco”, oltre che valutare le accuse di gravi violazioni dei diritti fondamentali da parte della guardia costiera libica, onde “porre fine a tale cooperazione se tali violazioni sono provate”.
La risposta sono i 900 milioni. Il prezzo per non vedere l’orrore.
Argomenti: Migranti