Israele: separarsi per non spararci
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Israele: separarsi per non spararci

Israele, per provare a scongiurare una guerra civile la strada da percorrere è quella della separazione. O della “cantonalizzazione” federale modello svizzero, modello istituzionale di una separazione tra le “tribù” d’Israele.

Israele: separarsi per non spararci
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30 Luglio 2023 - 19.35


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Israele, per provare a scongiurare una guerra civile la strada da percorrere è quella della separazione. O della “cantonalizzazione” federale modello svizzero, modello istituzionale di una separazione tra le “tribù” d’Israele.

Separarsi per non spararci

Di grande interesse è una riflessione, su Haaretz, di Ofri Ilary. Una provocazione politica e culturale, ma più realistica di quanto si pensi. Ilary ha il coraggio civile e intellettuale di mettere nero su bianco quello che in molti nella metà d’Israele che da mesi si è rivoltata contro i “golpisti al governo” pensano. 

“Mia madre era una bambina quando fu pubblicato il Libro Bianco del 1939. Il 23 maggio di quell’anno il Parlamento britannico approvò il documento, che limitava fortemente l’immigrazione ebraica nella Palestina mandataria. L’Yishuv – la comunità ebraica in Palestina prima del 1948 – reagì a questo sviluppo con furia e indignazione. Quella misura legale fu vissuta da molti come un doloroso tradimento. Al fratello di mia madre, nato in quel periodo, fu persino dato un nome che voleva esprimere una protesta: Ami-Ya’al (“il mio popolo si solleverà”). L’evento fu un punto di svolta: anche i gruppi politici che in precedenza erano stati fedeli all’Impero britannico ora si sentivano alienati e infuriati. Il movimento sionista, sorto all’interno dell’Impero britannico, ora gli si rivolge contro.


Lunedì pomeriggio, mia madre mi ha telefonato per chiedermi cosa ne pensassi dell’approvazione da parte della Knesset della legge che cancella la dottrina della ragionevolezza. Negli ultimi giorni, molti hanno invocato la distruzione del Tempio. Ma a me le manifestazioni di quella sera hanno riportato alla mente le proteste seguite alla pubblicazione del Libro Bianco. Un’ampia fetta della società israeliana che era stata molto fedele all’impero israeliano si è sentita improvvisamente abbandonata. Non si trattava più di manifestazioni che chiedevano il blocco o la moderazione di una decisione della Knesset, ma di manifestazioni di rabbia profonda che esprimevano il desiderio di porre fine alla partnership. I patrioti sionisti che hanno tenuto la bandiera per mesi, issandola con orgoglio per dichiarare che questo Paese è loro, potrebbero dover prendere in considerazione un’alternativa – forse una bandiera diversa. Alcuni cercheranno di emigrare e altri ci riusciranno. Ma non tutti possono farlo. Di conseguenza, potrebbe emergere una sorta di “Stato in divenire”, la cui spinta sarà verso un orizzonte di separazione.
Lo stesso giorno, nella stazione ferroviaria di Gerusalemme, un uomo laico che tornava a casa dalla manifestazione contro il colpo di Stato e un giovane religioso che sostiene Benjamin Netanyahu si sono maledetti a vicenda. Mi è sembrato abbastanza sorprendente che i due parlassero la stessa lingua e fossero in grado di capire le parole dell’altro. Non sembravano avere alcun tipo di mondo in comune. Vivono in luoghi diversi, la loro percezione del mondo è diversa e ognuno di loro immagina un futuro diverso. Eppure, fino a poco tempo fa, c’era un minimo di tessuto che li univa. Ora quel tessuto sembra essersi rotto – lo si può vedere alla Knesset e anche per strada.

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Nella mia famiglia, compresa quella allargata, non c’è una sola persona che sostenga il programma di “riforma” del governo. E non c’è nessuno nel mio ambiente sociale che sia a favore – nel raggio di chilometri. Non me ne vanto, ma è un dato di fatto. Avevo un amico che aveva votato per Netanyahu, ma anche lui è diventato, negli ultimi mesi, un convinto oppositore del governo. Ho sentito dire che ci sono persone le cui famiglie sono divise; io non ne conosco. Le tribù sono già quasi completamente separate.
Il movimento di protesta ama immaginarsi come se comprendesse tutte le componenti della nazione. È giunto il momento di liberarsi da questo autoinganno, a cui nessuno crede veramente. I manifestanti sono abbastanza omogenei: La loro maggioranza assoluta è laica e sono in gran parte ashkenaziti. La colonna sonora delle manifestazioni di protesta, con canzoni di Shalom Hanoch e Hemi Rudner, rappresenta questo carattere. Non c’è nulla di cui andare fieri, ma la situazione è questa. La divisione tra gli oppositori del governo Netanyahu e i suoi sostenitori non è tanto una questione di posizione politica in sé; è una questione di appartenenza a due gruppi sociologici diversi, società distinte che non hanno quasi nulla in comune.

Tuttavia, è chiaro che la maggior parte di noi incontra anche persone dell’altro campo, per strada, al lavoro, sull’autobus. Fino a poco tempo fa, la vita quotidiana in Israele si basava su una certa capacità condivisa di convivere con le differenze in materia di politica, religione e visione generale del mondo. Ma con l’inasprirsi della guerra civile in corso, anche questo terreno comune di esistenza comune è destinato a scomparire.
La settimana scorsa sono andato in un negozio di alimentari che frequento spesso e la televisione era sintonizzata su Canale 14 (una specie di versione israeliana di Fox News). Da questa settimana non ci andrò più.

Dividere, dividere, dividere
Me ne rammarico. Non cerco la purezza o la separazione e non nutro particolare ammirazione per il gruppo a cui appartengo. L’entusiasmo che accompagna le manifestazioni, alle quali partecipo, mi ha messo in imbarazzo e spesso mi ha fatto sentire estraneo al mio stesso campo. Ma nelle circostanze attuali, l’unica possibilità che si profila è un orizzonte di separazione. Non è chiaro se la visione di una separazione di Israele in cantoni sia realizzabile nel prossimo futuro, ma la separazione sociale procede di pari passo. Inoltre, anche se il disfacimento del tessuto comune di Israele è frustrante per tutti, sono l’ala destra e gli osservanti religiosi a doversene preoccupare maggiormente. In quanto nazionalisti, l’unità del popolo è un valore che appartiene loro. Non c’è motivo di ballare al loro ritmo.

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In effetti, dopo la cancellazione della dottrina della ragionevolezza da parte della Knesset questa settimana, i membri della coalizione sembravano essere terrorizzati. Sì, i deputati Rothman e Levin hanno posato per una serie di selfie, ma Netanyahu è scomparso dalla scena e la celebrazione è stata forzata. La domanda biblica “Che cos’è questo che abbiamo fatto?”. (Esodo 14:5) sembrava sospesa nell’aria. La coalizione ha capito che stava smantellando l’unione. Ora, quando si parla di unità della nazione e di sanare le fratture, la risposta deve essere: dividere, dividere, dividere. La porta dell’unità è stata chiusa da tempo e questa settimana è stata sprangata. Non c’è bisogno di dichiarare una guerra civile; la guerra non è una cosa raccomandabile. Ma l’orizzonte è quello di uscire dai quadri comuni – gli stessi che hanno soppresso i palestinesi e che ora si rivoltano contro di noi.
“Uno Stato ebraico, disprezzo per il Libro Bianco”, si chiedeva nel 1939. Forse è giunto il momento di riprenderlo. A ben guardare, è una cosa che non abbiamo mai provato veramente”.
Così Ilary.

La democratura

In Israele c’è un vulnus, certificato, come spiega il demografo di fama mondiale e professore emerito Sergio Della Pergola: «Il vero problema è la lettura riduttiva della democrazia che dà questa maggioranza. La democrazia è intesa come dominio assoluto della maggioranza, senza quei meccanismi di equilibrio e di controllo, oltre che di tutela delle minoranze, che caratterizzano le democrazie avanzate. Israele rischia dunque di degradare al livello di democrazie come la Turchia o l’Ungheria, dove esiste sì un parlamento eletto con diversi partiti rappresentati, ma una persona al comando decide per tutti. La radicalizzazione del discorso religioso rischia inoltre di staccare da Israele cospicue sezioni della Diaspora ebraica».

La presa del potere da parte di Netanyahu ha prodotto, e accelerato, uno scollamento nella società israeliana. Portando il Paese sulla soglia del punto di non ritorno. A varcare il Rubicone non è Cesare con le sue legioni ma la destra fondamentalista, quella dalle forti venature razziste e omofobe. Un esecutivo fazioso che non conosce avversari con cui interloquire ma solo nemici contro cui imbastire vere e proprie campagne di odio. Una destra che rivendica l’impunità di fronte alla legge; intende forse legalizzare l’illegale, annettendo unilateralmente porzioni dei territori palestinesi; che cambia le carte in tavola per no- minare ministro un criminale recidivo come Aryeh Deri di Shas (per poi dover prender atto che era incompatibile con la carica ricoperta e quindi escluderlo dal dicastero della Sanità); e agogna l’immunità (futura) nei processi per l’imputato Netanyahu. Una destra populista e sovranista che nel suo vocabolario non contempla parole come ricerca di equilibrio, compro messo e democrazia liberale. 

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L’attuale composizione della Knesset ufficializza l’ingresso del fascismo nel tempio della democrazia israeliana, non è la prima volta che accade. E non sarà l’ultima. Ma come è stato possibile lasciare libero l’elefante dentro il negozio di lampadari? Alla domanda lo scrittore Yossi Klein, dalle pagine di Haaretz, risponde che il fascismo è profondamente permeato nella società israeliana: «I processi sono dinamici. Si sviluppano e avanzano, prima alla Knesset, poi al gabinetto e poi a casa vostra. Il fascismo è una vecchia conoscenza. È qui dal 1967, forse da prima. Ci si vergognava di chiamarlo così, ma era presente a ogni passo, anche se lo accettavamo in silenzio. Oggi non c’è più vergogna. Il fascismo non è più una maledizione. Oggi si può dare del fascista a qualcuno e non si viene insultati. Chiamateci fascisti se vi va, a Otzma Yehudit non interessa, alle prossime elezioni Yigal Amir (l’assassino di Rabin) avrà un posto in lista. Così come abbiamo legittimato Ben Gvir, verrà legittimato il fascismo. Lo convertiremo. Prenderemo l’estrema destra, le metteremo una kippah, le frange rituali e avremo un fascismo sionista-religioso. Umberto Eco ha definito il fascismo anche come una profonda affinità con la tradizione, una concezione del dissenso come tradimento, un’ossessione per la cospirazione e il culto dell’eroe e della morte. Il fascismo religioso sionista ebraico ha tutto questo». 

Scriveva Amos Oz, il grande scrittore israeliano, scomparso il 28 dicembre 2018, in un libro di una straordinaria attualità: «Nel mio mondo, la parola compromesso è sinonimo di vita. E dove c’è vita ci sono compromessi. Il contrario di compromesso non è integrità e nemmeno idealismo e nemmeno determinazione o devozione. Il contrario di compromesso è fanatismo, morte». Il mondo di Oz non è quello di Ben-Gvir. E lo scontro tra le due Israele non è destinato a ricomporsi. 

A meno di una separazione condivisa. Separarsi per non spararci.

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