I riflettori internazionali si sono spenti sull’inferno chiamato Afghanistan. L’inferno talebano. Dal quale l’Occidente è fuggito miserabilmente dopo una guerra ventennale che definire fallimentare è usare un eufemismo.
Inferno afghano
Gobalist i suoi riflettori non li ha spenti. E continua a raccontare ciò che è diventata la quotidianità per il popolo afghnao. Soprattutto per le donne. Una quotidianità fatta di soprusi, di violenze di ogni genere, di proibizioni medioevali, di diritti calpestati, di umiliazioni le più disparate. L’inferno in terra, per l’appunto.
La denuncia dell’Unicef
“In Afghanistan è in atto una delle peggiori crisi umanitarie del mondo. Quest’anno più di 28 milioni di persone, tra cui oltre 15 milioni di bambini, hanno bisogno di assistenza umanitaria e di protezione – un aumento impressionante di 4 milioni di persone rispetto al 2022. Fame e malattie sono in agguato. E l’economia è a pezzi.
Eppure, nonostante questa situazione devastante, le autorità de facto hanno preso la decisione inconcepibile e sconcertante di vietare alle donne afghane di lavorare con le Nazioni Unite in Afghanistan, compreso l’Unicef. Dopo il decreto che vieta alle donne afghane di lavorare con le Ong, questa decisione è un ulteriore affronto ai diritti fondamentali delle donne e compromette ulteriormente la fornitura di assistenza umanitaria nel Paese.
Le donne afghane sono la linfa vitale della nostra risposta umanitaria. Sono altamente qualificate e si trovano in una posizione unica per raggiungere gli afghani più vulnerabili, compresi i bambini e le donne, i malati e gli anziani e le persone con disabilità. Hanno accesso a popolazioni che i loro colleghi uomini non possono raggiungere. Sono esperte di nutrizione, operatrici sanitari e sociali, insegnanti, responsabili delle vaccinazioni, infermiere, medici e molto altro ancora.
Con una delle più grandi operazioni sul campo, l’Unicef punta a raggiungere solo quest’anno 19 milioni di afghani con servizi essenziali. Stiamo fornendo cure ai bambini gravemente malnutriti. Ci assicuriamo che le famiglie abbiano vestiti caldi e che le comunità abbiano acqua sicura da bere. E stiamo portando vaccini salvavita e altre forniture ai centri medici.
Le donne sono fondamentali per il successo del nostro lavoro. Senza di loro, il disastro umanitario in corso in Afghanistan peggiorerà e altri bambini moriranno.
L’Unicef si associa al Segretario Generale delle Nazioni Unite nel condannare fermamente la decisione delle autorità de facto di vietare alle donne afghane di lavorare con le Nazioni Unite in Afghanistan.
Chiediamo con forza alle autorità de facto di revocare la decisione e di annullare tutte le misure che limitano i diritti delle donne e delle ragazze al lavoro, all’istruzione e alla libertà di movimento”.
Così una nota ufficiale dell’Agenzia delle Nazioni Unite per l’infanzia.
Le violazioni
Impedire alle donne afghane di lavorare per le Nazioni Unite costituisce una violazione senza precedenti dei loro diritti e del diritto internazionale umanitario e viola anche il principio dell’immunità del personale impegnato nel sistema Onu. Il rappresentante speciale del Segretario generale per l’Afghanistan, Roza Otunbayeva, sta coinvolgendo le autorità fino al più alto livello possibile per trasmettere la protesta dell’Organizzazione e per chiedere un’immediata revoca dell’ordine. L’Organizzazione si sta inoltre impegnando con gli Stati membri, la comunità dei donatori e i partner umanitari. L’ordine avrà un ulteriore impatto sull’impegno della comunità internazionale in Afghanistan e sulla capacità delle Nazioni Unite di sostenere la popolazione mentre attraversa una crisi umanitaria senza precedenti.
Le immunità e i privilegi del personale Onu.
Le donne afghane che lavorano nelle Nazioni Unite godono di una serie di privilegi e di immunità che sono sancite dal diritto internazionale. Devono potersi muovere liberamente in tutto l’Afghanistan per esercitare autonomamente le loro funzioni. Non possono ricevere istruzioni da alcuna autorità esterna all’Organizzazione, che esiste per promuovere e incoraggiare il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali per tutti, senza distinzione di sesso, razza, lingua o religione. Gli sforzi per vietare alle donne di lavorare per l’Onu sono quindi contrari ai principi fondamentali dell’Organizzazione, ma l’Afghanistan è tenuto però a rispettare la Carta delle Nazioni Unite, avendo accettato liberamente gli obblighi in essa sanciti quando è diventato uno Stato membro nel 1946.
La povertà
Due terzi della popolazione afghana – circa 28,3 milioni di persone – hanno bisogno di assistenza salvavita, 20 milioni soffrono di insicurezza alimentare e 6 milioni sono a un passo dalla carestia. La nuova disposizione dei Talebani influirà inoltre negativamente sulla capacità delle Agenzie impegnate nell’assistenza umanitaria di raggiungere le persone più vulnerabili, in particolare le donne che vivono nelle zone più remote.
Una decisione senza precedenti. Nella storia delle Nazioni Unite, nessun altro regime ha mai cercato di vietare alle donne di lavorare per l’Organizzazione solo perché sono donne. Negli ultimi venti mesi le autorità talebane hanno emesso una serie di misure sempre più restrittive nei confronti delle donne e di fatto hanno cercato di limitare la loro partecipazione a tutti gli aspetti della vita sociale, economica e politica del Paese. Tagliando la popolazione femminile dalla vita pubblica, l’Afghanistan rischia di aggravare non solo la crisi economica ma anche di essere ulteriormente isolato dalla comunità internazionale.
Istruzione negata
il 21 marzo, i bambini e i ragazzi afghani hanno iniziato un nuovo anno accademico e scolastico, mentre tre milioni di bambine e le ragazze oltre la prima media continueranno a restare a casa. L’Afghanistan oggi è l’unico paese del mondo che vieta l’istruzione alle donne dopo la prima media. Ma se i talebani non cambieranno idea e non permetteranno alle ragazze di tornare a scuola – denuncia Save the Children – il futuro del Paese sarà ancora tutto all’insegna della povertà. Il rischio per la mancata educazione scolastica delle bambine e delle ragazze è che aumenti la pratica dei matrimoni precoci, che portano con sé abusi e violenze. Senza l’istruzione femminile la metà delle generazioni future non potrà lavorare e il paese sarà ancora condannato a un futuro di miseria con le famiglie che percepiranno guadagni sempre più bassi.
La testimonianza
“La prima media è troppo poco per noi: vogliamo continuare a studiare, vogliamo frequentare la scuola superiore. Se ci fermiamo alla prima media, non potremo fare nulla. Non potremo trovare un lavoro, né andare all’università”. Aaisha ha le idee chiare su come vorrebbe che fosse il suo futuro: prima le scuole superiori e poi l’università. Non ha altri desideri, per ora. Sua madre, Khadija, 37 anni, ha quattro figlie e tutte hanno dovuto interrompere gli studi. Sperava che le sue figlie potessero avere un futuro migliore rispetto al suo, visto che anche lei non ha potuto studiare: “non riesco nemmeno a leggere un segnale stradale per sapere dove mi trovo, ma vorrei che le mie figlie fossero in grado di farlo”, ha raccontato a Save the Children.
Il divieto di andare all’università. Poco dopo aver preso il potere nell’agosto 2021, il gruppo islamista ha vietato l’istruzione delle ragazze oltre la prima media, ma ha permesso che le donne potessero ancora frequentare le università, con una serie di restrizioni: la separazione dai maschi nelle aule, l’adesione a un codice di abbigliamento islamico, l’accesso solo a insegnanti donne e a un’offerta limitata di settori in cui poter studiare. A dicembre però è arrivata la svolta all’insegna della linea dura. I talebani hanno vietato infatti a donne e ragazze di frequentare anche le università pubbliche e private. A gennaio hanno avvertito le università che le studentesse non avrebbero potuto sostenere gli esami di ammissione previsti per la fine del mese. Il portavoce del Ministero dell’istruzione superiore, Ziaullah Hashemi, ha spiegato che i talebani erano impegnati a promuovere i diritti di tutti gli afghani basandosi sulla Sharia. A febbraio, sempre il Ministero dell’istruzione ha annunciato che i corsi primaverili sarebbero iniziati solo per gli studenti maschi.
Le decisioni dei talebani
L’Afghanistan è l’unico paese al mondo che ha vietato l’istruzione alle ragazze sopra la prima media. Eppure le ragazze stanno lottando per un futuro migliore e sanno che la strada per il successo è solo quella della scuola – commentano da Save the Children. Quando smettono di studiare, le ragazze e le bambine in Afghanistan devono affrontare tantissimi problemi perché sono a rischio di matrimoni precoci, violenze, abusi e altre forme di sfruttamento. “Ogni giorno in cui le ragazze e le bambine non vanno a scuola è un giorno sprecato. Non solo per loro, ma anche per le comunità che hanno un disperato bisogno di medici e di insegnanti qualificati e per lo sviluppo economico a lungo termine dell’intero Paese” spiega Olivier Franchi, Direttore nazionale ad interim di Save the Childrenper l’Afghanistan. “È fondamentale che le ragazze non vengano lasciate indietro quando le scuole riapriranno. Esortiamo i talebani a consentire il loro rientro a scuola senza ulteriori ritardi”.
Ma c’è chi si ribella
A darne conto è Avvenire con un documentato articolo di “A.Ma. “L’anno scolastico è cominciato da pochi giorni e le ragazze sono ancora fuori dalle aule. I taleban continuano ad accampare la scusa di non disporre delle strutture necessarie per far studiare le alunne “in sicurezza”, vale a dire separate dai maschi. Domenica diverse decine di afghane sono scese in piazza a manifestare contro questo divieto, al grido “l’istruzione è un nostro diritto”. Ma la protesta è durata poco: i taleban hanno disperso il gruppo di donne, così come raccontato da alcuni organi di stampa che operano fuori del Paese, come Afghanistan International Tv e il giornale online Hasht-e-Sub.
In alcuni video diffusi sui social, si vede il gruppo di donne che manifestano slogan come “Una madre istruita costruisce una nazione forte”, “L’istruzione è un nostro diritto”, “Nazioni Unite, rompete il vostro silenzio” e “Diritto, giustizia e libertà”. Alcune attiviste sarebbero anche state arrestate e la missione delle Nazioni Unite in Afghanistan (Unama) ha confermato che sta seguendo da vicino la questione. Lo scrive la stessa Unama sul suo account Twitter, sottolineando che “le donne e le ragazze afghane hanno il diritto di lamentarsi contro le politiche che limitano gravemente i loro diritti umani” e che “le autorità de facto devono rispettare le libertà fondamentali di tutti gli afghani”.
A scuole chiuse da quasi due anni, l’istruzione femminile è diventata un crimine. Ma negli ultimi mesi stanno prendendo piede le lezioni online, organizzate da diverse ong internazionali. I corsi sono soprattutto di inglese, unico ponte con il resto del mondo. I taleban non hanno vietato questo tipo di istruzione, né internet conosce limitazioni che non siano quelle tecniche.
Nel Paese tra i più poveri del mondo, secondo la Banca Mondiale solo il 18% degli abitanti ha accesso alla rete, senza contare il costo di un computer, insostenibile per la quasi totalità della popolazione. I collegamenti, laddove esistono, sono comunque funestati da continue mancanze di corrente.
Una delle scuole che offre lezioni online, la Rumi Academy, è passata dai 50 studenti del 2021 ai 500 odierni. L’Università del popolo, anch’essa online, ha registrato 15mila iscrizioni dall’agosto 2021, quando i taleban hanno ripreso il potere nel Paese; il suo direttore, Daniel Kalmanson, ha detto alla Reuters che le studentesse possono seguire tutte le lezioni che desiderano, negli orari che i collegamenti consentono e che i problemi tecnici di linea saranno considerati al momento degli esami. L’organizzazione no profit Learn Afghanistan, che gestisce diverse scuole di comunità, comprese alcune online, ha detto che tutte le sue lezioni saranno rese disponibili gratuitamente nelle principali lingue parlate in Afghanistan. Il gruppo inoltre trasmette le sue lezioni anche via radio, usata moltissimo nelle aree rurali.
Ma l’Afghanistan non ha solo il problema, molto serio, della mancata istruzione femminile. Oggi i problemi arrivano da una nuova ondata terroristica. Oggi a Kabul un kamikaze si è fatto saltare in aria vicino alla sede del ministero degli Esteri, uccidendo sei civili. L’attentatore è stato ucciso dagli agenti. L’esplosione è avvenuta nel centro della capitale afghana intorno a mezzogiorno, l’ora in cui durante il mese di Ramadan i dipendenti statali terminano la giornata lavorativa. L’attacco non è stato rivendicato, ma a metà gennaio un attentato analogo davanti al ministero degli Esteri portò la firma del sedicente Stato islamico”.
Raccontare l’Afghanistan che resiste. E’ un dovere morale, oltre che giornalistico. Per provare a rompere quel silenzio omertoso della comunità internazionale e di una stampa mainstream “smemorata”.