Shireen Abu Akleh, Reema, Yaser, Ahmed: morire da giornalisti, testimoni scomodi in Palestina
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Shireen Abu Akleh, Reema, Yaser, Ahmed: morire da giornalisti, testimoni scomodi in Palestina

L'emittente televisiva del Qatar ha condannato l'uccisione della sua giornalista: ha parlato di un"crimine atroce attraverso il quale si vuole impedire ai media di svolgere il loro lavoro"

Shireen Abu Akleh, Reema, Yaser, Ahmed: morire da giornalisti, testimoni scomodi in Palestina
Shireen Abu Akleh
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

11 Maggio 2022 - 17.32


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Ora è il tempo della disinformatia. Dello scarico delle responsabilità. Del confondere le acque. Delle lacrime di coccodrillo e delle promesse di inchieste “severe” per stabilire la “verità dei fatti”. 

Ma per i tanti che l’hanno conosciuta in vita, questo è il tempo del dolore e della rabbia. Dolore e rabbia per l’uccisione di Shireen Abu Akleh, 51 anni, inviata di Al-Jazeera, ferita mortalmente nel campo di Jenin, in Cisgiordania. Uccisa “a sangue freddo” dalle forze israeliane, per Al Jazeera. L’Idf, le Forze di difesa israeliane, fa sapere il suo portavoce – sta indagando sulla “possibilità” che Abu Akleh sia invece rimasta ferita perché colpita da palestinesi armati. 

Il messaggio di Al Jazeera

L’emittente televisiva del Qatar ha condannato l’uccisione della sua giornalista: ha parlato di un”crimine atroce attraverso il quale si vuole impedire ai media di svolgere il loro lavoro”. Al Jazeera considera il governo israeliano e le forze di occupazione responsabili dell’uccisione della defunta collega Shireen”e pertanto ha invitato la comunità internazionale a ritenere “le forze di occupazione israeliane responsabiliper aver preso di mira e ucciso intenzionalmente Abu Aqleh”.

 Da Ramallah, il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha detto di ritenere “il governo israeliano pienamente responsabile di questo atroce crimine”, sottolineando che fa parte “della politica quotidiana perseguita dall’occupazione contro il nostro popolo, la sua terra e i suoi luoghi santi”. La presidenza, in una nota citata dall’agenzia palestinese Wafa, ha quindi accusato Israele di “prendere di mira i giornalisti per nascondere la verità e commettere crimini in silenzio”.

Il presidente palestinese ha fatto sapere che domani presenzierà ai funerali della giornalista, che si svolgeranno a Ramallah, sempre in Cisgiordania: il corteo partirà dal palazzo presidenziale della Muqata. 

Shireen Abu Akleh aveva anche la cittadinanza americana: “Sono molto rattristato – ha detto su Twitter l’ambasciatore Usa in Israele, Tom Nides – Sollecito una estesa indagine sulle circostanze della sua morte e sul ferimento di almeno un altro giornalista oggi a Jenin”. Anche la rappresentanza della Ue presso i Palestinesi – citata dai media – ha chiesto “una indagine indipendente” sull’evento in modo “da portare i responsabili davanti la giustizia”.

“Abbiamo ricevuto con grande shock la dolora notizia e questa occupazione criminale che uccide le persone e la parola e uccide la verità. Shireen Abu Akleh è una stella splendente nel cielo della Palestina”. Così ha dichiarato il premier palestinese Mohammad Shtayyeh, oggi in visita al Parlamento europeo. 

Non si è fatta attendere la risposta del premier israeliano Naftali Bennett, che parla di “accuse senza prove solide” e – come il suo esercito – sottolinea che “c’è una probabilità da non scartare che palestinesi armati che sparavano in modo selvaggio abbiano provocato la dolorosa morte della giornalista”. 

Israele ha offerto alla Anp  una indagine congiunta patologica sulla morte della giornalista di Al-Jazeera”. Lo ha detto il ministro degli Esteri Yair Lapid ricordando che “i giornalisti devono essere protetti nelle zone di conflitto e che tutti si ha il dovere di arrivare alla verità”. Offerta però rifiutata. 

Un altro cronista – Ali Samoudi, del network Al Quds – è rimasto ferito negli scontri. In condizioni stabili, ha detto che – insieme alla collega uccisa e ad altri reporter – si trovava nelle “vicinanze delle scuole dell’Unrwa vicino al campo di Jenin”. Tutti, sottolinea Samoudi, “indossavano elmetti e divise da giornalisti”. Il gruppo “è stato preso direttamente di mira dalle forze di occupazione”. Abu Akleh, si legge su Al-Jazeera che cita il ministro della Salute palestinese, è stata portata in ospedale in condizioni critiche dopo essere stata ferita. Lì è poi stata dichiarata morta. Le dinamiche non sono ancora del tutto chiare. Un’altra reporter della stessa testata per cui lavorava Abu Akleh, Nida Ibrahim, ha dichiarato che l’ipotesi per cui la collega sia rimasta uccisa perché colpita alla testa dagli israeliani è supportata da alcuni video girati al momento degli scontri. 

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 Il Jerusalem Post ha scritto di scontri tra “palestinesi armati” e forze israeliane a Jenin iniziati dopo operazioni di queste ultime, anche nel campo profughi di Jenin, vicino a Burkin, e in altre località della Cisgiordania per effettuare arresti.

Gli ultimi istanti di vita

In un video il collega di Shireen Abu Aqleh, Mujahid Al-Saadi, racconta i dettagli della morte descrivendo quella che sembra essere una esecuzione. “Quello che è successo è che stavamo aspettando i nostri colleghi per entrare nel campo profughi nel punto in cui l’esercito (israeliano) era presente. 

“Abbiamo scelto un punto che non era stato terreno di scontro tra i giovani e i militanti. Siamo arrivati al punto in cui abbiamo aspettato che Shireen si mettesse l’attrezzatura di sicurezza, poi ci ha raggiunto e ci siamo spostati di qualche metro.  Ci siamo palesati di fronte all’esercito e ai passanti dato che siamo stampa Tv, siamo arrivati e, in pochi secondi, è arrivato il primo colpo.

Ho detto loro che siamo stati presi di mira, ci hanno sparato, mi sono girato e ho trovato Shireen a terra, ho trovato Shatha che si proteggeva da un albero e urlava, mi sono girato e ho trovato Shireen a terra nei primi secondi, con la sparatoria e ci stavamo dicendo che ci stavano sparando. Le raffiche hanno continuato per più di 3 minuti sulle squadre che erano lì, Ali si è fatto male ma è stato in grado di attraversare la strada e raggiungere un posto sicuro, e le raffiche intanto continuavano. Mi sono rifugiato sotto una scala nella fabbrica di cemento e le riprese continuarono.

L’ultima persona che il cecchino ha visto si stava rifugiando sotto un albero, era la nostra collega Shatha Hanaysheh, la sparatoria verso di lei è continuata mentre era sotto l’albero, e non siamo riusciti a fornire il primo soccorso a Shireen. I giovani sono venuti da noi, quelli che erano per strada, che stavano cercando di tirare fuori Shireen, sono stati anche colpiti, ogni volta che qualcuno si muoveva in avanti sono stati colpiti”.

“Questo terrorismo israeliano sponsorizzato dallo stato deve fermarsi, il sostegno incondizionato a Israele deve finire”. Lo ha scritto su Twitter la vice ministra degli Esteri del Qatar Lolwah Alkhater.

Anche l’ambasciatore palestinese nel Regno Unito, Husam Zomlot, punta il dito contro i militari israeliani per la morte di Abu Akleh. “Le forze dell’occupazione israeliana hanno assassinato la nostra amata giornalista Shireen Abu Akleh mentre stava coprendo la loro brutalità a Jenin”, ha scritto il diplomatico su Twitter. 

In ricordo di Yaser, Ahmed, Reema…

Due passi indietro nel tempo. 9 aprile 2018. Scrive Andrea Barbolini su Lifegate: “Yaser Murtaia era un giornalista palestinese, dell’agenzia di stampa Ain Media, la cui sede è nella Striscia di Gaza. Aveva una trentina d’anni. Venerdì 6 aprile seguiva le manifestazioni di protesta nei pressi della frontiera con Israele, teatro di nuovi scontri con l’esercito della nazione ebraica che difende il confine. 

Il reporter sapeva che la situazione sarebbe stata particolarmente tesa. Già il 30 marzo, primo giorno della “Marcia del ritorno” –  movimento di protesta che culminerà il 15 maggio, giorno in cui ricorre la Nakba, la “catastrofe”, ovvero l’espulsione forzata di migliaia di palestinesi al momento della creazione dello stato di Israele – i morti erano stati 17 e i feriti circa 1.400. L’esercito ha infatti aperto il fuoco sui manifestanti, affermando di essere stato costretto a difendersi. Anche nei giorni successivi, altro sangue è stato versato nel corso dei cortei. Per questo, Yaser si era munito di una giacca sulla quale campeggiava la scritta ‘Press’,  circostanza confermata da un filmato che lo ritrae mentre viene trasportato in un centro sanitario dopo essere stato ferito. Alla manifestazione seguita dal giornalista palestinese avevano partecipato migliaia di persone. Il bilancio fornito dal ministero della Salute di Hamas, alla fine della giornata, ha parlato di nove morti e circa 500 feriti: un gruppo di persone aveva incendiato dei pneumatici e lanciato pietre contro i soldati israeliani che hanno risposto lanciando lacrimogenie sparando ancora una volta ad altezza uomo. ebraico: “Il giornalista è stato colpito in modo deliberato dai militari. Indossava un gilet che lo rendeva riconoscibile in quando operatore dell’informazione: è stato ucciso in modo intenzionale. Si tratta di un crimine contro la libertà di stampa”. L’associazione ha quindi lanciato un appello al governo di Tel Aviv “affinché rispetti la risoluzione 222 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, approvata nel 2015, in materia di protezione dei giornalisti e ha chiesto di avviare un’inchiesta indipendente”. quando è stato colpito: “L’obiettivo eravamo chiaramente noi reporter”. Secondo il sindacato dei giornalisti palestinesi, anche altri cinque colleghi sono stati feriti. Una versione categoricamente negata dall’esercito israeliano.  Yaser Murtaja è morto sabato. Centinaia di amici e colleghi hanno accompagnato il feretro del professionista dall’ospedale alla propria abitazione. Il corpo è stato coperto da una bandiera palestinese e dalla giacca con la scritta “Press”.

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Il 18 maggio 2018, Reporter Senza Frontiere (Rsf) ha ufficialmente richiesto alla Corte Penale Internazionale (Icc) di aprire un’indagine su quelli che considera crimini di guerra compiuti dalle forze armate israeliane contro i giornalisti palestinesi partecipanti alle proteste tenutesi a Gaza dal 30 marzo 2018.

L’appello di Rsf è stato presentata alla procuratrice capo dell’Icc Fatou Bensouda poche ore prima della riunione del Consiglio di sicurezza Onu. Basata sull’art. 15 dello Statuto di Roma dell’ICC, la richiesta riguarda i colpi d’arma da fuoco che i cecchini dell’esercito israeliano avrebbero sparato a circa 20 giornalisti palestinesi durante le manifestazioni della “Grande Marcia per il Ritorno” a Gaza.

Secondo quanto sostiene Rsf si tratta di crimini di chiara competenza della Corte Penale Istituzionale.

“Le autorità israeliane non potevano non essere a conoscenza della presenza di giornalisti tra i civili durante le proteste. Pertanto hanno violato l’elementare dovere di precauzione e differenziazione dei bersagli, mirando con veri proiettili a soggetti protetti” ha detto Christophe Deloire, segretario generale di Rsf.

“La deliberata e ripetuta violazione del diritto umanitario internazionale costituisce un crimine di guerra. Appellandosi alla Corte Penale Internazionale, Rsf invita le autorità israeliane a rispettare rigorosamente il diritto internazionale”.

Varie fonti hanno confermato che i seguenti giornalisti sono stati colpiti mentre prendevano parte alle manifestazioni tenutesi ieri a Est della città di Gaza: Omar Hamdane, cameraman dell’emittente televisiva nazionale algerina EnTv, ha riportato ferite d’arma da fuoco a un piede; il reporter di Al-Jazeera, Wael Dahdouh, è stato ferito alla mano destra; Mohammed Abu Dahrouj, cameraman della Zain Media è stato colpito alla gamba sinistra; il fotografo freelance del quotidiano Palestina pro-Hamas, Yasser Qudeih, ha riportato una ferita d’arma da fuoco allo stomaco ed è stato trasferito all’unità di terapia intensiva nell’ospedale europeo di Gaza.

Altri due giornalisti hanno riportato ferite d’arma da fuoco nei pressi della città di Khan Younis. Abdullah al-Shorbagi, giornalista del media pro-Hamas Khan Younis Media Network, è stato colpito al piede sinistro, mentre Nihad Fuad, reporter della radio Forsan al-Erada, è stato ferito alla testa e portato all’ospedale europeo di Gaza. Il giornalista del portale web Safad Press, Farhan Hashem Abu Hadayd, ha riportato ferite d’arma alla gamba sinistra mentre era a Est della città di Rafah.

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Due giornalisti palestinesi sono stati uccisi da proiettili sparati da soldati israeliani. Dal 30 marzo, data d’inizio della “Grande Marcia per il Ritorno” l’esercito israeliano ha attaccato le proteste palestinesi lungo il confine di Gaza e Israele.

Questi due giornalisti sono Yaser Murtaja, 30 anni, fotografo dell’agenzia indipendente Ain Media. E Ahmed Abu Hussein, 27 anni, reporter di Shaab and Bisann News. Entrambi erano chiaramente riconoscibili come giornalisti: identificati dal gilet e dall’elmetto con la scritta “Press”.

In tutto, almeno altri 20 giornalisti hanno riportato ferite d’arma da fuoco, e di questi almeno tre erano palesemente identificabili come addetti stampa.

Nessun procedimento è stato avviato contro Israele.

La storia si ripete

14 maggio 2021. Così racconta Alessandra Fabbretti per l’agenzia Dire:  “Tra le vittime di un bombardamento israeliano di mercoledì notte c’è Reema Saad, una giornalista di 30 anni, al quarto mese di gravidanza. Come ricostruisce la testata Middle East Eye, il raid è avvenuto intorno all’1.30 del mattino e ha colpito un edificio residenziale nel sobborgo di Tal al-Hawa, a sud di Gaza City. La cronista era nel suo appartamento con la famiglia. Tutti dormivano: oltre a lei, il marito Mohammed al-Telbani e i due bambini, Zaid di quattro o cinque anni, e Mariam, di due o tre.

Dopo il bombardamento, i soccorsi sono intervenuti per estrarre le persone rimaste sotto le macerie: il corpo di Reema è stato trovato senza vita, mentre il marito e il figlioletto sono stati portati in ospedale, dove sono poi deceduti. Dispersa la piccola Mariam.

Reema e Zaid sono tra i 119 civili palestinesi uccisi da inizio settimana, quando Israele ha avviato bombardamenti sulla Striscia di Gaza in risposta al lancio di missili da parte di Hamas. Il ministero della Salute locale ha riferito che tra le vittime 31 sonobambini e 19 donne. Samia Saad, la madre di Reema Saad, ha raccontato che il giorno prima della tragedia aveva proposto alla figlia di passare la notte da lei ma che la donna aveva risposto di sentirsi al sicuro, persuasa che l’esercito israeliano non avrebbe colpito quell’area periferica. “Andava sempre a letto presto, il suo lavoro era molto faticoso ha detto la donna della figlia cronista, di cui ora sui social network circola un’immagine che la ritrae mentre tiene un’intervista televisiva.

La morte di Reema Saad non richiama solo il tema delle uccisioni tra i civili palestinesi, ma anche del tributo pagato dai media in questa crisi, che alcuni osservatori hanno definito “la terza intifada”: ieri l’organizzazione internazionale per i diritti dei giornalisti, Committee to Protect Journalists (Cpj), ha avvertito che tra gli edifici rasi al suolo dall’aviazione israeliana ce ne sono anche due che, a Gaza City, ospitavano gli uffici di una dozzina di testate, locali e internazionali. 

L’esercito ha avvisato in anticipo i residenti dell’intenzione di colpire le torri di oltre 12 piani di Al-Jawhara e Al-Shorouk, ma il Cpj avverte di non essere in grado di confermare che questo sia stato sufficiente a evitare vittime. L’emittente Bbc ha rilanciato dichiarazioni delle autorità locali, secondo le quali ci sarebbero stati “dei morti”.

Ignacio Miguel Delgado, rappresentante di Cpj per il Medio Oriente e il Nord Africa, ha dichiarato: “È assolutamente inaccettabile che Israele bombardi e distrugga gli uffici dei media mettendo in pericolo la vita dei giornalisti, soprattutto perché le autorità israeliane sanno dove si trovano questi media. Le autorità israeliane devono garantire che i giornalisti possano svolgere il proprio lavoro in sicurezza, senza paura di essere feriti o uccisi”.

Giornalisti in Palestina. Così si muore.

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