Uscire, anche se per pochi giorni, da quella immensa prigione a cielo aperto chiamata Gaza. Respirare, anche se per pochi giorni, aria pura, vitale. Un’aria di libertà. Ma anche in quei giorni strappati alla sofferenza, Gaza ti accompagna, con il dolore della sua gente. Ti si appiccica addosso, come una seconda pelle.
Per comprendere appieno questo mix di sentimenti, vale la pena leggere il racconto-diario scritto per Haaretz da Mohammed Azaiza. Mohammed vive nella Striscia di Gaza ed è uno dei coordinatori sul campo di Gisha – una Ong per i diritti umani che promuove la libertà di movimento delle persone e delle merci da e per Gaza.
Il diario di Mohammed
“Dopo un ritardo di 18 mesi causato dalla pandemia e dalla conseguente chiusura dei cieli, il programma di formazione dei difensori dei diritti umani di Justice and Peace Netherlands, Shelter City, è finalmente iniziato. Nei miei pensieri privati, confesso che la mia eccitazione per questo viaggio è stata stimolata soprattutto dal mio bisogno di riprendermi dagli orrori dell’ultima guerra. Sto scrivendo queste parole dalla mia stanza nella città di Deventer, sulle rive del fiume IJssel, dove alloggio durante i tre mesi di corso. Ricordo che venendo qui non riuscivo a dire se fosse più forte il mio shock o la mia felicità, mentre il paesaggio si dispiegava davanti a me: Vaste distese verdi, innumerevoli fonti d’acqua e tra loro, su biciclette colorate, uomini e donne, giovani e anziani, che mi sorridevano come se mi dicessero: “Benvenuto nella tua nuova vita”. Ogni giorno in Olanda porta con sé esperienze interessanti, conferenze e incontri con studenti universitari e scolastici, personaggi pubblici e altri, così come domande che indicano, più o meno, come pensano gli olandesi. “Perché hai deciso di creare una famiglia vista la realtà di Gaza?” (Ogni persona ha diritto alla vita familiare). “Come sei riuscito a scappare e a venire qui?”. (Per mia fortuna, il valico di Rafah era aperto). Una domanda particolarmente toccante è venuta da un membro dello staff di un centro per i diritti umani: “Com’erano le tue notti durante la guerra?”. Per rispondere, ho dovuto affrontare ciò che avevo cercato con forza di sopprimere negli ultimi sette mesi.
Gli 11 giorni e notti di ostilità del maggio 2021 sono stati i più difficili della mia vita. Ricordo gli attacchi d’ansia che ho avuto quando ho capito che Israele stava deliberatamente bombardando edifici con gli occupanti ancora dentro, temendo che io e la mia famiglia fossimo i prossimi. Ho passato lunghe ore a contare i bombardamenti e a cercare inutilmente di capire in quale parte della casa avremmo dovuto trovarci quando arrivava il missile – dentro le stanze o sulla porta? Ricordo i miei figli che chiedevano: “Perché la gente sta morendo se non ha fatto niente di male?” e io che mi sforzavo di dare loro la rassicurazione che cercavano e che faticavo a nascondere le lacrime nei miei occhi. So di aver mentito loro quando ho promesso che tutto sarebbe andato bene.
Quando il bombardamento finì, uscii per le strade per incontrare la nostra nuova realtà: Strade martoriate, famiglie che avevano perso i loro cari, bambini uccisi nel sonno. Il mio cuore si è spezzato quando ho visto le rovine di Al Rimal, il quartiere che era il cuore bello e pulsante di Gaza. Sogni che giovani imprenditori avevano lavorato per costruire per anni erano sepolti ovunque. Qui c’era un piccolo ristorante avviato da tre donne, lì un’attività di stampa 3D, il lavoro di una vita di un mio amico, ora gravemente danneggiato. Quando l’ho chiamato per fargli le mie condoglianze, mi ha detto che aveva deciso di andare a casa presto quel giorno, che era felice che lui e i suoi figli fossero vivi.
Gli organizzatori del corso qui in Olanda mi hanno invitato a partecipare a una celebrazione che commemorava i 400 anni da quando il politico e prigioniero politico olandese, Hugo Grotius, fuggì da un famoso castello dove era stato imprigionato. Grotius è considerato il padre fondatore del diritto internazionale, e i suoi scritti hanno posto le basi per i principi di moralità nelle leggi di guerra. Ho incontrato decine di visitatori che si sono arrampicati su una scala lunga e stretta per dare un’occhiata alla stanza dove è stato tenuto prigioniero per anni. Ho parlato loro degli abitanti della Striscia di Gaza e di come anche loro anelano alla libertà dalla loro prigione. Più o meno nello stesso periodo, tre giovani di Gaza sono annegati in mare mentre cercavano di lasciare la Striscia in cerca di nuove speranze e opportunità. Il blocco e le guerre in corso, l’aumento della disoccupazione e la crescente miseria hanno scosso molti mentalmente. Nel 2018, i giovani della Striscia sono partiti per protestare contro questa realtà senza uscita e chiedere la libertà al confine orientale di Gaza. Durante il programma qui, ho incontrato molti attivisti di diversi paesi in Africa, Sud America, Medio Oriente e altri, tutti che dedicano la loro vita ai diritti del loro popolo. Alcuni di loro hanno subito molestie e arresti. Alcuni sono stati persino feriti da colpi d’arma da fuoco, ma nonostante le difficoltà e il pericolo, continuano a lottare per il cambiamento. Le loro storie mi danno la forza di continuare il mio lavoro. Nel frattempo, sono anche riuscita a visitare amici e parenti che sono stati sconfitti dalla situazione a Gaza e sono riusciti a costruire nuove vite qui all’estero. Uno dei loro figli, un quattordicenne, mi ha detto che pensa che tutti hanno il diritto di vivere nella loro patria in pace e serenità. Penso che abbia ragione. Non c’è momento migliore di oggi, giornata internazionale dei diritti umani, per ricordare a tutti che anche la gente di Gaza merita i diritti umani.
Tra pochi giorni, il programma finirà e tornerò a Gaza e dai miei figli, che mi mancano molto. Mi è piaciuta la calma che c’è qui, e voglio che anche i miei figli l’abbiano; vivere senza le fratture politiche tra i palestinesi, senza la paura della morte, senza le restrizioni israeliane che violano il loro diritto a una vita normale. Vorrei che potessero viaggiare senza doversi preoccupare dei permessi o del diritto alla libertà di movimento, che qui nei Paesi Bassi può essere dato per scontato. Vorrei che potessero guardare avanti, al futuro, vedere l’orizzonte aperto davanti a loro e tutta la bellezza che può portare”.
Questa è la testimonianza di un giovane di Gaza: dolore ma anche speranza, e soprattutto orgoglio di sentirsi palestinese e di condividere con il suo popolo un sogno di libertà.
L’agonia di Gaza
Gaza, una prigione che torna a fare notizia quando si fa la conta dei morti, quando torna ad essere un teatro di guerra. Allora i riflettori si riaccendono, i media ne tornano a parlare. Dimenticando che la vera, grande tragedia di Gaza e della sua gente, è la normalità. Ed è nella ‘normalità’ che Gaza muore. Nel silenzio generale, nel disinteresse dei mass media, nella complicità della comunità internazionale, nella pratica disumana e illegale delle punizioni collettive perpetrate da Israele, nel cinico operare di Hamas, Gaza sta morendo. L’ultimo, documentato grido d’allarme, è stato lanciato da Oxfam. L’assedio sta privando una popolazione di 1,980milioni di abitanti, il 56% al di sotto dei 18 anni, del bene più vitale: l’acqua. A oltre quattro anni dal sanguinoso conflitto che nel 2014 distrusse buona parte del sistema idrico e fognario di Gaza, il sistema straordinario disegnato dalla comunità internazionale per la ricostruzione post-bellica (il cosiddetto Gaza Reconstruction Mechanism-Grm) non riesce ancora a rispondere ai bisogni dei quasi 2 milioni di abitanti della Striscia “intrappolati” in una delle zone più densamente popolate del mondo. Una situazione drammatica, rimarca il report di Oxfam, aggravata degli effetti del decennale blocco di Israele sulla Striscia, di cui le prime vittime sono oltre 1,9 milioni di persone che devono sopravvivere con uno scarsissimo accesso all’acqua e una situazione igienico-sanitaria in continuo peggioramento. Basti pensare che il 95% della popolazione – anche solo per bere e cucinare – dipende dall’acqua marina desalinizzata fornita dalle autocisterne private, semplicemente perché l’acqua fornita dalla rete idrica municipale (che presenta oltre 40% di perdite) non è potabile o perché oltre 40mila abitanti non sono allacciati alla rete. A questo si aggiunge un sistema fognario del tutto inadeguato con oltre un terzo delle famiglie che non è connesso al sistema delle acque reflue. Una situazione di carenza idrica di cui fanno le spese soprattutto donne e bambini, che in molti casi sono costretti a lavarsi, bere e cucinare con acqua contaminata e si trovano esposti così al rischio di diarrea, vomito e disidratazione.Gli effetti del blocco israeliano nella vita di tutti i giorni: commercio praticamente inesistente, famiglie divise e persone che non possono muoversi per curarsi, studiare o lavorare. Le Nazioni Unite annunciano che entro il 2020, tra nemmeno due anni, sarà praticamente impossibile vivere a Gaza per la mancanza di energia elettrica, il più alto tasso di disoccupazione al mondo e l’impossibilità per la popolazione di accedere anche a beni essenziali come cibo e, per l’appunto, acqua pulita. Siamo all’annientamento di una popolazione: oltre il 65% degli studenti delle scuole gestite dall’Unrwa (l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi) a Gaza non riescono a trovare lavoro a causa delle dure condizioni di vita, dell’aumento della povertà e dei tassi di disoccupazione. Save the Children considera Gaza invivibile già oggi: con le condizioni attuali i bambini non riescono più a nutrirsi adeguatamente, dormire, studiare o giocare. Le forniture di energia elettrica dall’Egitto si sono completamente interrotte e l’unica fonte resta Israele nonché l’impianto di generazione interno di Gaza, che funziona a regime ridotto dopo essere stato colpito nel 2009 e lo scorso aprile si è dovuto fermare per mancanza di combustibile e di fondi per i rifornimenti. In un documentato report, Save the Children, chiede a Israele di interrompere subito il blocco di Gaza, dove quasi la metà della popolazione non ha lavoro e l’80% sopravvive solo grazie agli aiuti umanitari, e chiede alle autorità palestinesi e israeliane di fornire i servizi di base indispensabili agli abitanti dell’area. I 10 anni di isolamento hanno ridotto progressivamente la disponibilità di energia elettrica per le case che ora si limita a due ore al giorno o è totalmente assente per troppe persone. La mancanza di energia elettrica sta penalizzando un’infrastruttura già paralizzata dal blocco e dal conflitto, costringendo a frequenti e lunghe sospensioni del trattamento delle acque reflue che hanno causato l’inquinamento e la contaminazione di più del 96% delle falde acquifere, non sono più utilizzabili dall’uomo, e del 60% del mare di fronte a Gaza. Ogni giorno si riversano infatti nel mare 108 milioni di litri di acque reflue non trattate, l’equivalente del contenuto di 40 piscine olimpioniche. “I bambini di Gaza sono tristemente prigionieri del conflitto più politicizzato del mondo e la comunità internazionale non ha saputo reagire adeguatamente alle loro sofferenze. L’occupazione da parte di Israele e le divisioni nella leadership palestinese stanno rendendo la vita impossibile. Se hai 10 anni e vivi a Gaza hai già subito quattro terribili escalation del conflitto. I bambini di Gaza hanno già sofferto 10 anni di blocco e di minacce continue a causa del conflitto. Vivere senza accesso ai servizi indispensabili come l’elettricità ha conseguenze gravi sulla loro salute mentale e sulle loro famiglie. Stiamo assistendo ogni giorno ad un aumento del livello di ansia e aggressività,” rimarca Jennifer Moorehead, Direttore di Save the Children nei Territori Palestinesi Occupati. La mancanza di energia elettrica ha un grave impatto sulla vita dei bambini di Gaza, che non possono avere accesso ad acqua potabile sufficiente o nutrirsi di cibi freschi, essere assistiti dai servizi sanitari e di emergenza quando servono o mantenere un livello minimo di igiene per mancanza di acqua corrente. Non possono dormire sufficientemente durante la notte per il troppo caldo ed essere quindi riposati per studiare a scuola, o fare i compiti o giocare a causa dell’oscurità. “Qui è diverso dagli altri paesi che hanno l’energia elettrica per tutto il giorno, la nostra vita non è come la loro. Il mio sogno più grande è poter essere come gli altri bambini che vivono in pace, in sicurezza e hanno l’elettricità,” dice agli operatori di Save the Children Rania che ha 13 anni e vive a Gaza. Rania e i bambini di Gaza hanno conosciuto solo la guerra. E le sue conseguenze che segnano l’esistenza fin dalla più giovane età. Il primo dato emerso da uno studio dell’Unicef successivo alla guerra di Gaza dell’estate 2014, indica che il 97% dei minori interpellati aveva visto cadaveri o corpi feriti, e che il 47% di questi aveva assistito direttamente all’uccisione di persone. I sintomi rilevati durante lo studio includevano: continui incubi e flashback; paura di uscire in pubblico, di rimanere soli, o di dormire con le finestre chiuse, nonostante il freddo; più nello specifico, i disturbi fisici più frequenti erano disturbi del sonno, dolori corporei, digrigno dei denti, alterazioni dell’appetito, pianto continuo, stordimento e stati confusionali; quelli emotivi includevano rabbia, nervosismo eccessivo, difficoltà di concentrazione e affaticamento mentale, insicurezza e senso di colpa, paura della morte, della solitudine e dei suoni forti. La conseguenza più diffusa era il Disturbo post-traumatico da stress (DPTS), ovvero l’insieme dei disagi psicologici che possono essere una possibile risposta dell’individuo a eventi traumatici o violenti. Si tratta di sintomi frequenti in qualunque territorio martoriato da una guerra ma, nel caso dei bambini di Gaza, la situazione diventa ancora più insostenibile, sia per l’alta percentuale di minorenni nella Striscia (circa la metà della popolazione, in un territorio tra i più popolati al mondo, con 4.365 persone per chilometro quadrato), sia perché Gaza è una striscia di terra, isolata e circondata da Israele e dal mare perennemente sorvegliato dalla marina dello Stato ebraico. Questa è la vita a Gaza. E chi governa Israele come chi impone la sua legge nella Striscia, lo sanno bene. Come lo sa bene la comunità internazionale, capace solo di invitare alla moderazione o (l’Onu) a prospettare una commissione d’inchiesta, ripetendo una stanca litania che fa seguito all’esplosione della violenza. Tutti conoscono la realtà di Gaza, la tragedia umana che in essa si consuma. Ma questa consapevolezza non porta alla ricerca di un accordo, di una pace giusta, duratura, tra pari. Non impone rinunce per ridare speranza. Costa meno combattere, perché, tanto, a chi vuoi che possa interessare la sorte di due milioni di persone ingabbiate nella prigione chiamata Gaza.
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