La calura ferrogostana e i migranti deportati: qual è il problema?
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La calura ferrogostana e i migranti deportati: qual è il problema?

E' arrivata al porto di Pozzallo la nave Ocean Viking che tra il 31 luglio e il 1° agosto ha messo in salvo 555 migranti in sei interventi sar

La Ocean Viking
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

8 Agosto 2021 - 17.24


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La notizia è sulla home page di tutti i siti. Sovrastata solo dalle 40  medaglie conquistate dall’Italia alle Olimpiadi di Tokyo. La notizia bomba è che si stanno avvicinando i giorni di massima temperatura. Ora, mettete in relazione questo evento climatico con un’altra notizia che devi andare a ricercare con lanternino, ma questo non accade per Globalist, dell’odissea tutt’ora non completamente risolta dei disperati del mare. 

Odissea in porto

E’ arrivata al porto di Pozzallo la nave Ocean Viking che tra il 31 luglio e il 1° agosto ha messo in salvo 555 migranti in sei interventi sar. A bordo attualmente ci sono 549 persone (6 sono state evacuate con procedure mediche di emergenza).  La nave ha atteso sei giorni l’assegnazione del pos il posto sicuro “place of safety” dopo avere inoltrato richieste ai centri di coordinamento dei soccorsi in mare di Malta, Tunisia, Libia e Italia e solo ieri mattina la situazione si è sbloccata. Dal 31 luglio al 1° agosto il team di Sos Mediterranee che opera sulla nave ong ha tratto in salvo 111 persone che erano a bordo di due gommoni e poi gli altri migranti da imbarcazioni in legno sovraccariche e a forte rischio naufragio.

A bordo c’erano rispettivamente 253; 106; 64 e 21 persone con gli scafi già invasi da acqua e carburante. Una volta completate le manovre, salirà a bordo il team Usmaf – sanita marittima- coordinato dal medico Vincenzo Morello. Poi verranno effettuati i tamponi anti Covid-19 a cura dell’Asp il cui team è coordinato dal medico Angelo Gugliotta. I migranti verranno identificati nell’hot spot di Pozzallo e successivamente trasferiti sulla nave quarantena Gnv Azzurra già in attesa in banchina. Su Ocean Viking ci sono 502 uomini (107 sono i minori) e 47 donne (11 minorenni) delle quali 17 sono sole e tre in gravidanza. Provengono da 21 paesi diversi. I più numerosi giungono dal Bangladesh (107), poi Egitto (72), Mali (54), Marocco (50) e Eritrea (49).

Musumeci in trincea

“Non amo ripetermi e neppure alimentare polemiche sterili. Dico con forza che la Sicilia continua a essere presa d’assalto dagli sbarchi e che le politiche nazionali non riescono a bloccare questo criminale commercio di carne umana. I viaggi dei ministri degli Esteri e dell’Interno sull’altra sponda del Mediterraneo non stanno raggiungendo gli obiettivi sperati. E l’Europa guarda complice e silente. La Sicilia è la frontiera a Sud di un Continente che preferisce girarsi dall’altro lato, mentre la disperazione sale dall’Africa, cercando in Sicilia la porta di accesso a una vita che in queste condizioni non potrà mai essere migliore”. Così il presidente della Regione siciliana Nello Musumeci. “Mi appello – prosegue il governatore – al presidente Draghi: serve un segnale forte e ormai può venire solo da lui. Faccia quello che non ha voluto fare chi l’ha preceduto e dichiari lo stato di emergenza per gli sbarchi. C’è un mix pericoloso tra numeri crescenti degli emigranti, situazione epidemiologica regionale e la prognosi di crescita di entrambe le situazioni nelle settimane più calde per il turismo e per l’economia siciliana. Gli hotspot al collasso e le persone ammassate l’una sull’altra non possono essere nascoste e lasciano trasparire l’immagine forte di un’accoglienza finta che non rispetta la dignità dell’uomo”.

“Serve – conclude Musumeci – un gesto forte che ci consenta di adottare misure di compensazione finalmente adeguate e che dia un messaggio chiaro a chi, a Bruxelles, fa di tutto per non assumersi chiare responsabilità. Una cosa è certa: così non si può andare avanti e io non farò finta di nulla”.

Non sono numeri, sono persone

Da un recente report di Save the Children: La Libia continua ad essere un paese frammentato e instabile, affetto da una guerra civile strisciante, che comporta difficoltà, oltre che per i civili libici, anche per i migranti, soprattutto per quelli intrappolati nei centri di detenzione in aree affette dal conflitto in corso, fra i quali si stima la presenza di almeno 1000 minori. Oltre alla guerra, nel Paese perdurano le violenze e gli abusi nei confronti dei migranti, sottoposti a detenzione arbitraria, tortura e riduzione in schiavitù.

Nelle attuali circostanze, la Libia non può essere considerato un Paese sicuro e i trasferimenti o i rimpatri di migranti, soprattutto se minorenni, nel Paese, condotti dalla guardia costiera libica o da qualsiasi altra autorità, li espongono ad inaccettabili violazioni dei diritti umani fondamentali. L’Italia e l’Europa non possono rimanere indifferenti di fronte alle testimonianze che arrivano dai centri di detenzione libici e devono compiere ogni sforzo per assicurare l’evacuazione immediata dei migranti e l’attivazione di corridoi umanitari.

Giovanna, nostra collega impegnata in frontiera sud ci ha raccontato ciò che ha visto con i suoi occhi condividendo con noi, le storie di chi è fuggito dalla Libia ed è sopravvissuto alla traversata del Mediterraneo.

“Eravamo appena tornati da Lampedusa, dove avevamo partecipato alle iniziative promosse nell’ambito della Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione, per ricordare le centinaia di persone annegate il 3 ottobre, l’11 ottobre del 2013 e le migliaia morte in questi ultimi 6 anni nel Mediterraneo, soprattutto centrale, per aver affidato la loro vita a trafficanti senza scrupoli, non avendo altre alternative alla ricerca di un futuro migliore, lontano da guerre, povertà estrema e da torture, incarcerazioni coatte e schiavitù in Libia.

Una beffa del destino ha mescolato la dimensione del passato e del presente, perché il 7 ottobre un altro naufragio si è verificato a poche miglia da Lampedusa. A bordo dell’imbarcazione c’erano molte donne e minori, alcuni dei quali non ce l’hanno fatta. Siamo tornati sull’Isola perché i nostri operatori potessero incontrare e sostenere i minori sopravvissuti.

Tra loro c’era una 16enne guineana, che ha lasciato il suo Paese all’insaputa della famiglia, perché “in Guinea la vita è difficile”, ha raggiunto un connazionale in Libia, che le ha procurato un lavoro in un ristorante.

Il ricordo di quei mesi è impresso sul suo volto terrorizzato. “Quando ho lasciato la Guinea mi aspettavo di trovare una situazione totalmente diversa. Poi quel “fratello” ha deciso di farmi partire e ha pagato per me il viaggio. Non ho avuto la possibilità di dire di no”. È partita di notte, il 5 ottobre 2019 “Non dimenticherò mai più quella notte, quel viaggio e quella paura”. Trema ancora al ricordo e mantiene lo sguardo basso mentre continua a raccontare: “Su quella barca di legno traballante ci hanno stipati su tre livelli, uno addosso all’altro, faceva molto freddo e le onde mi facevano venire la nausea. Il freddo era insopportabile, così un ragazzino ivoriano che avrà avuto 14 anni, seduto di fianco a me mi ha dato la sua giacca. Quando i trafficanti ci hanno fatto salire avevano detto che a bordo ci sarebbero stati acqua e cibo, ma non era vero e così quando siamo caduti in acqua nessuno aveva più forze. Quando la barca si è capovolta, io mi ci sono aggrappata con tutte le forze rimaste, un altro ragazzo si è aggrappato a me, poi mi sono sentita sollevare dalla giacca”. Era salva. Ma il suo pensiero corre subito verso quel ragazzino gentile che le aveva dato la giacca, e non riesce a trattenere le lacrime: “Lui non ce l’ha fatta”.

Il dolore e l’orrore li affida alla carta, disegnando le scene del naufragio. Poi prova a proiettarsi nel futuro: “Vorrei studiare musica e prendere un diploma, suono il pianoforte e mi piacerebbe diventare una musicista”.

Tra le tante testimonianze che i nostri operatori hanno raccolto in questi anni sul drammatico viaggio, a volte letale, e sugli orrori della permanenza in Libia, ce ne sono altre recenti di un gruppo di minori non accompagnati sbarcati a Pozzallo qualche giorno fa, la maggior parte dei quali proveniva dalla Somalia. Tra loro ce n’erano alcuni anche di 14 e 15 anni, che hanno riportato di aver trascorso circa 2-3 anni in Libia, in case private o in centri di detenzione nei pressi di Tripoli, di aver trascorso molto tempo in prigione e di essere usciti grazie al pagamento di un riscatto da parte dei propri familiari, che dovevano chiamare di fronte ai trafficanti, subendo violenze, per essere più convincenti mentre chiedevano il pagamento. Molti di questi adolescenti somali hanno riferito di aver provato a imbarcarsi più volte (fino a 4), ma di essere stati intercettati dalla Guardia Costiera Libica e di essere quindi stati trasferiti presso i centri di detenzione governativa”.

Non c’è via d’uscita se non il mare

Da un rapporto di Amnesty International: “Date le terribili condizioni e gli abusi, i programmi di reinsediamento ed evacuazione esistenti non sono sufficienti a fornire percorsi legali e sicuri per lasciare la Libia a chi ne ha bisogno, e solo 5’709 rifugiati vulnerabili hanno beneficiato di tali programmi dal 2017 all’11 settembre 2020. Questo riflette l’esiguo numero di impegni di reinsediamento assunti dai Paesi che accolgono i rifugiati, compresi gli Stati membri dell’UE. Le restrizioni di viaggio imposte a seguito della pandemia di Covid-19 hanno ulteriormente aggravato la situazione, con solo 297 rifugiati evacuati dalla Libia nel 2020, prima della chiusura delle frontiere nel marzo 2020.

Un rifugiato ha raccontato ad Amnesty International: ‘Ora, in questo momento dei rifugiati [stanno] per attraversare il mare… Non c’è nessuna evacuazione e nessun reinsediamento… I rifugiati in Libia sono a rischio. Siamo tra la vita e la morte’.

Questo significa che rifugiati e migranti disperati hanno poche vie d’uscita dalla Libia, se non rischiare di attraversare il Mediterraneo su imbarcazioni inadeguate. Le traversate sono estremamente pericolose, anche a causa delle intercettazioni da parte di Guardia costiera libica e di gruppi criminali. I sopravvissuti di un incidente avvenuto a metà agosto hanno raccontato ad Amnesty International che uomini armati a bordo di un’imbarcazione chiamata Captain al-Salam 181 li hanno derubati e poi hanno sparato alla loro barca, causando l’incendio del motore e il capovolgimento della barca. Si stima che circa 40 persone siano morte dopo essere state abbandonate in balia del mare.

Sfruttamento, condizioni di vita squallide, violenza

La ricerca di Amnesty International ha scoperto che i rifugiati e i migranti sono spesso sfruttati dai datori di lavoro e sottoposti a lavori forzati da parte di milizie e gruppi armati. Molti vivono in condizioni squallide senza accesso all’acqua potabile e ai servizi igienici, fatto che aumenta il rischio di contrarre il Covid-19 poiché le misure di stanziamento fisico e le norme igieniche preventive sono impossibili da implementare. Ciononostante, rifugiati e migranti sono confrontati ad ostacoli che bloccano l’accesso all’assistenza sanitaria e sono stati in gran parte esclusi dagli sforzi delle autorità per arginare la pandemia.

I rifugiati e i migranti sono anche spesso rapinati. Le donne e le ragazze sono ad alto rischio di violenza sessuale. Non si rivolgono però alla polizia, temendo la detenzione o la vendetta da parte dei presunti autori dei reati.

Razzismo e xenofobia 

Anche le persone rifugiate e migranti devono affrontare il razzismo dilagante e la xenofobia. I funzionari governativi, i membri dei gruppi armati e delle milizie e i media spesso usano un linguaggio razzista per riferirsi ai neri. La pandemia di Covid-19 ha ulteriormente alimentato il razzismo, con funzionari e privati che accusano pubblicamente i rifugiati e i migranti della diffusione del virus e chiedono la loro espulsione.

La ricerca di Amnesty International ha rivelato che le autorità de facto della Libia orientale hanno espulso con la forza oltre 5’000 rifugiati e migranti nel 2020 senza un giusto processo e senza la possibilità di contestare la loro deportazione. L’accusa che le persone arrestate fossero “portatori di malattie contagiose” è stata tra le ragioni citate per le deportazioni. In un clamoroso episodio di discriminazione documentato da Amnesty International, un gruppo armato ha impedito a un autobus di entrare nella città sudorientale di Kufra, a meno che tre cittadini ciadiani non scendessero dal veicolo. Gli uomini armati hanno ordinato loro di fare un test per il Covid-19 e li hanno lasciati nel deserto fuori città. Gli altri passeggeri, tutti cittadini libici, sono stati autorizzati a procedere senza la necessità di effettuare il test o altri controlli. 

La storia di Ahmed

Ahmed, vicino Tripoli aveva a un alloggio e un lavoro. Ci era arrivato nel 2017 per stare alla larga dai fanatici di al-Shabaab in Somalia. “Una notte alle 3 del mattino alcuni criminali sono entrati in casa nostra. Hanno picchiato mia moglie. Ho reagito. Mi hanno pugnalato a una gamba e hanno detto: “Se ti muovi, le spariamo”. Ci hanno rapiti e ci hanno portati in un hangar”. Per liberarli hanno chiesto “20 mila dollari a persona. C’erano 16 o 17 prigionieri nell’hangar: Somalia, Eritrea, Etiopia. Siamo rimasti circa 15 giorni. Ci picchiavano. Quando arrivi ti spogliano, picchiano gli uomini e violentano le donne. Dopo due settimane, ho colto un’occasione e sono scappato”. Nell’ultimo dossier di Amnesty International non ci sono solo le testimonianze dalle prigioni clandestine, soprattutto ci sono le prove raccolte sul campo e che inchiodano le autorità ufficiali. Investigazioni condotte incrociando i dati: “Dopo aver ottenuto gli screenshot dai prigionieri che mostravano la loro posizione in tempo reale su Google Maps, Amnesty International ha esaminato le immagini satellitari delle coordinate Gps e ha identificato la posizione nella città di al Zawiyah, 45 km a ovest di Tripoli, con una forte presenza di veicoli militari”. Una fonte indipendente ha confermato che il luogo individuato quale prigione “è il quartier generale delle forze di supporto di al Zawiyah. Alcuni internati sono riusciti a sfuggire poche settimane fa e hanno confermato le acquisizioni: “Venivano tenuti in condizioni orribili senza cibo o acqua potabile a sufficienza e picchiati regolarmente. I loro rapitori hanno chiesto chiesero un riscatto di 6.000 dinari libici”, circa 4mila euro. 

Non è l’unica conferma del coinvolgimento diretto di funzionari pubblici nel traffico di esseri umani. “Due uomini su cui pende un mandato d’arresto da parte delle autorità libiche e i cui nomi figurano nella lista delle persone sottoposte a sanzioni da parte delle Nazioni Unite per il loro presunto coinvolgimento nel traffico di esseri umani, sono ufficialmente legati al Gna (il governo riconosciuto di Tripoli, ndr): Ahmad al-Dabbashi, detto “al-Amou”, è stato visto combattere con le forze del Gna nell’aprile 2020, mentre il ben noto Abdurhaman al Milad, detto “al Bija”, è il comandante della guardia costiera libica presso la raffineria della città portuale di al-Zawiya”.

Tutto questo scempio di diritti, di vite, di umanità avviene anche con i finanziamenti italiani. Se non è complicità questa…

Ma di tutto questo, statene certi, all’Italia che va, o sta, in vacanza, non frega un bel niente. Il problema è il green pass. E come difendersi dalla calura ferragostana. I migranti? Ma loro stanno in mare… 

 

 

 

 

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