Libano, un anno dopo: requiem per un paese in ginocchio e uno Stato fallito
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Libano, un anno dopo: requiem per un paese in ginocchio e uno Stato fallito

Sono le 18:08 del 4 agosto 2020 quando una delle più potenti esplosioni non nucleari della storia devasta il porto di Beirut e interi quartieri facendo oltre 200 vittime e 7mila feriti

Esplosione a Beirut
Esplosione a Beirut
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

4 Agosto 2021 - 12.04


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Libano, un anno dopo. Un anno di dolore indicibile, di rabbia, di giustizia negata. Un anno di sfinimento sociale, di uno Stato in fallimento, di una lotta quotidiana per la sopravvivenza.  Un anno fa si urlava all’emergenza in Libano. Sono le 18:08 del 4 agosto 2020 quando una delle più potenti esplosioni non nucleari della storia devasta il porto di Beirut e interi quartieri della capitale libanese facendo oltre 200 vittime e 7mila feriti, costringendo 300mila persone ad abbandonare le proprie case, distrutte o fortemente danneggiate da un impatto esteso fino a 20 chilometri di distanza. L’esplosione è stata causata dalla detonazione di 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio rimaste apparentemente incustodite per anni in un magazzino del porto. 

Ma emergenza in Libano c’era già prima e l’emergenza in Libano c’è ancora oggi. Poco meno di 4 milioni di abitanti, un milione e mezzo di profughi siriani, mezzo milione di profughi palestinesi. L’emergenza c’era già prima perché nei mesi che hanno preceduto l’esplosione il Paese era caduto in una crisi economica senza precedenti, il debito pubblico era cresciuto così tanto fino a rendere il Libano il terzo paese al mondo per rapporto debito/pil (170%), obbligandolo a dichiarare la bancarotta nel marzo del 2020. Sembrava che peggio non potesse andare «invece», racconta a Vita Marina Molino Lova, responsabile per Avsi  dei progetti in Libano, il Paese si sta quotidianamente degradando, e i libanesi vengono umiliati, ogni giorno, un po’ di più. Il sentimento di tutti, il sentimento comune è quello di essere in caduta libera. È da un anno che non si prospettano soluzioni, vie d’uscita. Siamo davvero sull’orlo di una guerra civile. E questa non è un’ipotesi remota, ma la realtà in cui stiamo velocemente precipitando”.

L’inflazione della lira libanese fa solo una cosa: aumenta, da mesi non conosce altri movimenti. I beni di prima necessità costano dieci volte di più. “Un litro di latte costava duemila lire libanesi, ora ne costa ventidue. Un chilo di carne costava 25mila lire libanesi, oggi ne costa quasi trecento. E domani?”. Il tasso di disoccupazione nel Paese è del 40%, la stima è per difetto. Uno stipendio medio, in Libano, raggiunge un milione e mezzo di lire libanesi, meno di cento dollari al mese. Gli impiegati pubblici, i militari semplici, guadagnano anche meno di un milione. “Beirut era un po’ il centro di quello che restava dell’economia del Libano”, continua Molino Lova, «ma dopo l’esplosione gli uffici sono andati distrutti, i negozi non hanno più riaperto”.

Umiliare i cittadini libanesi significa questo: “vivere senza corrente. O meglio: prima dell’esplosione il governo garantiva 12 ore di energia al giorno, per le altre 12 c’erano i generatori. Ora il governo dà un’ora di energia al giorno. Per le altre 23 c’è il generatore”. “Ma chi se lo può permettere? La gente qui usa le candele perché il generatore costa dalle ottocentomila lire libanesi a un milione e sei. Vi ricordate? Lo stipendio medio, per i pochi che ancora lo percepiscono, è di un milione e mezzo. Umiliare le persone significa lasciare che i loro figli muoiano di fame. In un nuovo studio di Unicef emerge chiaramente come i più piccoli stiano sopportando il peso del collasso economico. Il 77% delle famiglie non può permettersi di comprare cibo per i propri figli e il 15% ne ha interrotto l’istruzione, 1 bambino su 10 è stato mandato a lavorare. Uno su tre va a letto senza cena o senza una cena dignitosa”.

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Giustizia negata

Scrive Lorenzo Trombetta, corrispondente dell’Ansa da Beirut, uno dei pochi che la realtà libanese non solo la conosce in ogni sua piega ma la vive in prima persona. “L’unica certezza finora emersa è che l’esplosione è stata generata dalla detonazione di 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio, per anni rimaste apparentemente incustodite in un magazzino del porto di Beirut. Da più parti si è invocata l’apertura di una inchiesta internazionale indipendente. Ma finora le indagini sono quelle svolte dalle autorità libanesi, da febbraio guidate dal giovane giudice Tareq Bitar, subentrato al più esperto procuratore Fadi Sawan, rimosso dal suo incarico su forti pressioni politiche dopo che aveva incriminato tre ex ministri.Il giudice Bitar ha però insistito sulla pista aperta da Sawan. E un mese fa ha aperto un fascicolo contro nove personalità ai vertici delle istituzioni e dei servizi di sicurezza del Paese, indicate come presunti corresponsabili del disastro. Oltre a ex ministri e deputati, tra loro spiccano i nomi del premier uscente Hassan Diab e del capo dell’intelligence, il generale Abbas Ibrahim.L’establishment politico libanese, fortemente contestato a causa della peggiore crisi economica della storia del Paese scoppiata nell”autunno del 2019, ha finora fatto quadrato. E non ha concesso la rimozione delle immunità istituzionali delle nove figure accusate di ‘negligenza’ e ‘incuria’. Queste accuse partono dalla constatazione, sostenuta da una serie di prove documentali mai smentite dagli organi istituzionali, che i vertici politici e di sicurezza libanesi erano sempre state al corrente dell’esistenza del nitrato di ammonio scaricato da una nave cargo nel 2013 e da allora stoccato in un magazzino nel porto. Sulle cause dell’esplosione l’ipotesi finora più accreditata è quella accidentale, anche se gli inquirenti non hanno ancora escluso quella di un attacco missilistico. Diversi testimoni e vittime della tragedia avevano affermato di aver udito poco prima dell’esplosione il rombo di un velivolo. Da più parti sono state avanzate ricostruzioni, mai comprovate da immagini satellitari e dai tracciati radar, di un raid aereo israeliano su quello che, secondo alcuni, era un deposito di esplosivi di Hezbollah. Sia Israele che i vertici della milizia sciita libanese filo-iraniana hanno smentito con forza questa ipotesi. E mentre è montata in questi mesi e settimane la frustrazione e la rabbia dei familiari delle vittime, il Libano è ogni giorno sempre più in ginocchio: il sistema bancario è fallito dal 2019 ed è ormai cronica l’assenza di benzina, elettricità e medicinali. Le Nazioni Unite stimano ad oltre 350 milioni di dollari gli aiuti d’emergenza per la popolazione che si tenteranno di raccogliere nella Conferenza Internazionale organizzata per dopodomani dalla Francia e dall’Onu. Il Paese non ha un governo nel pieno dei suoi poteri dall’agosto dell’anno scorso, quando il premier Diab si era dimesso in seguito all’esplosione. E non lo avrà neppure per il 4 agosto, anniversario dell’esplosione, come si era augurato il primo ministro incaricato Najib Mikati che proprio oggi ha ammesso che esistono ancora delle divergenze tra le forze politiche”.

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La denuncia di Amnesty International 

‘Le autorità libanesi hanno trascorso l’ultimo anno ostacolando spudoratamente la ricerca della verità e della giustizia per le vittime della catastrofica esplosione del porto di Beirut”. Lo sostiene Amnesty International in una nota in occasione del primo anniversario dell’esplosione. Nel corso dell’anno gli sforzi delle autorità libanesi per proteggere i funzionari hanno ripetutamente ostacolato il corso delle indagini, scrive Amnesty, ricordando che il primo giudice incaricato dell’inchiesta è stato allontanato dopo aver convocato esponenti politici per l’interrogatorio. Documenti ufficiali, spiega Lynn Maalouf, vicedirettore per il Medio Oriente e il Nord Africa della Ong, indicano che le autorità doganali, militari e di sicurezza libanesi, nonché la magistratura, avevano avvertito i governi successivi della pericolosa scorta di sostanze chimiche esplosive nel porto in almeno 10 occasioni negli ultimi sei anni, ma non è stata intrapresa alcuna azione. Da più parti si è invocata l’apertura di una inchiesta internazionale indipendente: ”Le settimane di proteste dei sopravvissuti e delle famiglie delle vittime sono un duro promemoria di ciò che è in gioco. Il loro dolore e la loro rabbia sono stati esacerbati dal momento che, di volta in volta, le autorità ostacolano il loro diritto alla verità e alla giustizia”, ​​conclude Lynn Maalouf. 

Bancarotta politica, dramma sociale

Alla crisi economica è legata anche quella farmaceutica. L’organizzazione degli importatori farmaceutici e dei proprietari di magazzini ha annunciato che un gran numero di farmaci essenziali è ormai terminato, chiedendo misure immediate per affrontare la crisi. Il calo delle riserve della Banca Centrale libanese in valuta estera l’ha costretta a ritardare il pagamento delle quote alla società importatrici di farmaci. Attualmente 1 dollaro è scambiato a 1.515 lire libanesi, il suo valore sul mercato nero ha superato le 18.000 lire.

“Le importazioni si sono quasi completamente fermate più di un mese fa“, ha affermato l’organizzazione in una nota, spiegando che alla base della crisi ci sia il ritardo dei pagamenti di 600 milioni da parte della Banca ai fornitori.  L’organizzazione ha sottolineato che l’unica soluzione a breve termine sarebbe un accordo tra il ministero della Salute pubblica e la Banca centrale sul mantenimento dei sussidi ai farmaci in base, invitando poi la Banca centrale a destinare un importo mensile all’importazione di medicinali del Libano.

Il Libano è sull’orlo di un disastro che avrà delle “ripercussioni al di fuori del Paese“. Parole drammatiche quelle dell’ex  primo ministro libanese Hassan Diab. Al fine di prevenire quella che sarebbe una vera e propria “esplosione sociale“, il primo ministro si è rivolto televisivamente alla comunità internazionale chiedendo aiuto. Diab, che presiede il governo in carica dal 4 agosto scorso, giorno della tremenda esplosione nel proto di Beirut, ha aggiunto che qualsiasi governo avrebbe bisogno del sostegno di “nazioni amiche per salvarsi dalla situazione in cui si trova attualmente“.

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“I libanesi sono stati pazienti e stanno portando il peso di questa lunga attesa. Ma la loro pazienza si sta esaurendo mentre la loro sofferenza aumenta“, ha spiegato Diab. Oltre il 60% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà.  La lira libanese ha perso oltre il 91%del suo valore, ciò rende complicato accedere anche ai più comuni beni di prima necessità. L’insolvenza dello Stato ha generato anche una carenza di carburante che ha creato diversi danni a settori vitali come gli ospedali. Soltanto due delle quattro centrali elettriche del Libano sono attualmente in funzione con scarse forniture di carburante e la società  elettrica statale, E’lectricite’ du Liban, ha avvertito che potrebbe spegnerle se le riserve di gasolio dovessero esaurirsi.

Secondo quanto ha riferito la Banca Mondiale, la recessione che vive il “Paese dei Cedri” potrebbe essere la peggiore al mondo dagli anni ’50 dell’Ottocento. Il Pil è crollato dai 55 miliardi del 2018 ai 33 del 2020 causando così un aumento dell’inflazione che si teme possa essere ancora peggiore quest’anno. Una crisi finanziaria e sociale che si protrae da tempo: già nell’aprile del 2018 una conferenza di donatori internazionale aveva stabilito per il Libano un prestito di 11 miliardi di dollari in cambio di “riforme economiche” che tuttavia non sono state ancora implementate. Beirut vorrebbe avere anche un ulteriore prestito di 10 miliardi dal Fondo Monetario Internazionale, ma per ottenerlo è necessaria prima la formazione di un nuovo governo. Proprio su quest’ultimo punto è tornato a parlare Diab: “Collegare l’assistenza del Paese alla formazione di un nuovo governo è diventato una minaccia per la vita dei libanesi e dell’entità libanese”.

Trauma infinito

“Trauma – rimarca Luca Foschi in un bel reportage da Beirut per Avvenire – è la parola più ricorrente nelle voci della metropoli. L’orrore sedimentato dell’esplosione, certo: il panico, l’ansia densa e perenne come l’umidità, l’insonnia dei bambini, il loro precoce incontro con la presenza della morte. Un trauma che ha un luogo, una forma, s’invelenisce al pensiero dei responsabili, alla sfilata delle loro maschere. 

Ma ciò che si avvinghia all’incredulità della psiche e rende abissale lo sconforto è il vigile spettro della storia, il destino sanguinoso del Libano aggregato dall’inganno coloniale di britannici e francesi, strutturato sull’oligarchia e il confessionalismo, esploso con l’interminabile guerra civile, curato con l’unguento del neoliberismo spietato dagli stessi satrapi che lo avevano diviso, o dai loro eredi. Trincea e teatro di tragedia classica per i blocchi geopolitici che si contendono il Medio Oriente. Il Libano è di tutti, il Libano non esiste. Sopravvive puntellato dalle Ong, dal circuito delle provvidenziali rimesse della diaspora, sempre più numerosa, chiuso nel conforto delle famiglie. La storia ha eroso il luogo di convergenza collettiva dello Stato, lo ha reso un simulacro ostentato dalle bande dei partiti”.

Libano, un anno dopo. Requiem per un Paese in ginocchio.

 

 

 

 

 

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