Hanno partecipato alle elezioni. Sfidando la brutale repressione del regime. Molte loro sedi sono state prese d’assalto dagli squadristi del Sultano. Nonostante intimidazioni, città a maggioranza curda sotto assedio, hanno superato la soglia di sbarramento del 10% e sono entrati in Parlamento. Ma la scure del Pinochet del Bosforo si è abbattuta su di loro. Leader e parlamentari sono stati sbattuti in carcere e ora il partito è stato dichiarato fuorilegge.
Dittatura senza limiti
La lotta del Sultano contro l’opposizione curda, già falcidiata da numerosi arresti ai suoi vertici con l’accusa di legami con il terrorismo, rischia di far sparire definitivamente il secondo partito del Paese, il filo-curdo Hdp. La Corte Costituzionale ha infatti accolto la richiesta della procura generale della Cassazione di Ankara sull’apertura di un procedimento per la messa al bando della formazione con l’accusa, più volte ribadita dal presidente turco, di aver agito come braccio politico del Pkk, organizzazione classificata come “terroristica” da Turchia, Usa e Ue. Questo nonostante il partito abbia sempre negato ogni legame con gruppi armati. Un via libera all’unanimità, quello arrivato dai giudici costituzionali, che adesso porterà all’invio all’Hdp del dossier dell’accusa per poter presentare una memoria difensiva, alla quale seguirà una replica della Procura e un dibattimento verbale finale. La decisione sull’eventuale messa al bando, prevista dall’articolo 69 della Costituzione turca, verrà presa a maggioranza dei due terzi dei 15 membri della Corte Costituzionale sulla base della valutazione di merito del relatore assegnato al caso. È stata invece respinta la richiesta di congelamento preventivo dei conti correnti del partito. Il procuratore della Cassazione, Berk Sahin, ha chiesto anche l’interdizione per 5 anni dall’attività politica di 451 dirigenti Hdp, tenendo conto che alcuni di questi, compreso il leader Selahattin Demirtas, si trovano già da diversi anni in carcere. Nell’atto d’accusa, lungo 843 pagine, il partito viene accusato di minacciare “l’integrità indivisibile dello Stato e della Nazione”, agendo come braccio politico del Pkk. Una prima richiesta della Procura, inviata a marzo, era stata respinta per vizi formali.
Nella repressione in Turchia seguita al fallito colpo di stato del 15 luglio 2016, l’Hdp ha subito l’arresto di centinaia di suoi dirigenti, compreso Demirtas, detenuto da oltre 4 anni e mezzo in un carcere di massima sicurezza, e la destituzione di decine di parlamentari e sindaci. L’avvio del procedimento sulla messa al bando arriva pochi giorni dopo l’assalto armato a una sede del partito filo-curdo a Smirne in cui è stata uccisa la dipendente 20enne Deniz Poyraz.
Demirtas, perché Erdogan lo teme
Perché è un leader carismatico che ha saputo dare orgoglio, unità e identità alla frantumata (in partitini e tribù) minoranza curda senza però confinare il suo partito l’Hdp, dentro gli stretti confini di un’appartenenza comunitaria.
E questo perché, Demirtas ha saputo guardare oltre, proporre una visione laica, libertaria, della Turchia, attirando a sé il voto di una società civile organizzata, particolarmente attenta ai temi dei diritti civili, della libertà di espressione, di una sessualità plurale che rivendicava dignità e spazi nella vita pubblica.
Molti degli attivisti dell’Hdp, e del suo nuovo elettorato, sono giovani under 30, diversi dei quali protagonisti della rivolta libertaria di Gezi Park. In campagna elettorale aveva ribadito in ogni comizio che : “Siamo arrivati in una fase in cui possiamo iniziare a costruire una nuova vita mi candido non solo per poter diventare un presidente diverso dagli altri, ma anche per cambiare la Turchia»” Così, in una intervista a Euronews, Demirtas , originario di Elazig, nel Kurdistan turco, una laurea in giurisprudenza racconta di sé e della scelta di impegnarsi in politica: “Mi sono sempre occupato di politica, fin da quando ero ragazzo. La politica fa parte della mia vita. Mi sono sempre battuto per la democrazia. E come molti giovani curdi ho fatto diverse battaglie contro i diritti negati ai curdi, in nome dell’identità etnica, e contro l’oppressione. Sono in politica da quasi 25 anni. Negli ultimi otto anni sono stato parlamentare e co-presidente di un partito. Ho anche fatto l’avvocato nel campo dei diritti umani (è stato il fondatore del presidio di Amnesty International a Diyarbaki, ndr), ma come volontario.
Insomma in tutti questi anni, ho sempre lottato, senza un attimo di sosta, per i principi e i valori in cui credo. E non ho mai smesso. Posso definirmi un candidato cresciuto in un momento cruciale della storia della Turchia, ovvero quello della lotta per la democrazia”.
Una lotta che in molti, nella Turchia del “Sultano Erdogan” hanno pagato con la vita. Gli eurocentrici diranno di lui che “guarda ad Occidente piuttosto che a Oriente”. Non è così. Il messaggio dell’uomo nuovo della politica turca è che valori come quelli dell’inclusione, dell’uguaglianza della fraternità, dei diritti umani, della pace, sono principi universali, che appartengono all’umanità. E che possono unire le due sponde del Bosforo.
Tempo fa, per Left, intervistai Demirtas. Questa parte della lunga intervista aiuta a comprendere meglio perché Erdogan continui a tenerlo in carcere. Perché vede in lui un leader in grado di costruire un’alternativa laica, plurale, progressista in grado di sfidare e sconfiggere il Sultano di Ankara.
Lei ha ridato orgoglio e identità politica alla comunità curda turca, ma al tempo stesso ha sempre sostenuto di voler andare oltre l’appartenenza etnica, per dare basi solide alla “nuova Turchia”.
È così. Il successo dell’Hdp nelle elezioni di giugno, non è solo merito di una comunità, quella curda, che pure ha compreso l’importanza dell’unità rispetto alle vecchie divisioni. Il merito di quel risultato è anche di quanti, elettori e attivisti, vedono nell’Hdp il partito di armeni, islamisti, aleviti, lavoratori, donne, ambientalisti, attivisti dei diritti umani, il suo voler essere rappresentativo di tutti i gruppi oppressi. Non so se riusciremo ad essere all’altezza di queste aspettative, quel che so è che vale la pena battersi per cercare di realizzarle.
Nelle presidenziali dello scorso anno, a suo fianco si è schierata anche la comunità omosessuale turca. La scelta elettorale del popolo lgbt, ribadita anche per le elezioni legislative del giugno scorso, deriva dal fatto che Demirtas, cito testualmente, «è l’unico candidato che ha espresso il suo impegno per i diritti dei gay». Non ritiene di essersi alienato i favori della parte più tradizionalista della società turca?
Se una democrazia non riconosce che la sfera delle libertà e dei diritti debba investire anche la sfera della sessualità, non è una democrazia compiuta, pienamente realizzata. Quando ho preso posizione in favore dei diritti dei gay non l’ho fatto per un calcolo elettorale ma perché sono profondamente convinto che quei diritti sono parte di quella Turchia libera, plurale, rispettosa dei diritti di tutte le minoranze che era anche nel cuore dei ragazzi massacrati a Soruc.
All’uomo che l’ha definito «intrattenitore da bar», lei ha risposto così nei comizi e nelle, rare, apparizioni televisive: «Abbiamo mol- te questioni da discutere, ma Signor Recep Tayyp Erdogan, fino a quando l’Hdp esisterà lei non diventerà mai presidente». Ora che Erdogan è diventato presidente, lei resta di questo avviso?
Il responso delle urne va rispettato: sul piano istituzionale Erdogan è il presidente della Turchia e come tale dovrebbe mostrarsi un leader che unisce invece di dividere. Ma sul piano politico, le distanze restano incolmabili. La sua visione della Turchia, la sua idea di società, sono opposte a quelle che come Hdp cerchiamo di portare avanti. Vede, Erdogan si fa vanto di aver modernizzato il Paese. Questo, forse, vale in economia, ma la “modernizzazione” deve investire anche altri campi, tra i quali quelli della libertà d’informazione, dei diritti delle minoranze, della giustizia sociale. In tutti questi campi Erdogan ha fallito.
In un’intervista di qualche tempo fa lei ha affermato: “Posso definirmi un candidato cresciuto in un momento cruciale della storia della Turchia, ovvero quello della lotta per la democrazia». Resta questa la sua priorità?
Assolutamente sì. Ed è una convinzione che ho maturato ancor prima di impegnarmi in politica, quando da volontario operavo come avvocato nel campo dei diritti umani. La democrazia non sono solo libere elezioni, ma un sistema più complesso di regole e di equilibri fra poteri che vanno difesi e rafforzati giorno per giorno. E in questa idea di democrazia, le diversità sono una ricchezza e non una minaccia. Ma anche su questo punto io e il presidente Erdogan siamo destinati a non andare d’accordo.
Lei parla di una “nuova Turchia”, laica, plurale, tollerante. Ma tra i suoi avversari c’è chi sostiene che come ogni curdo lei non ha mai smesso di sognare il Grande Kurdistan.
Se così fosse, mi sarei vergognato a chiedere i voti di quanti curdi non sono. Certo, mi sento orgoglioso di essere curdo, e penso che nei vari Stati in cui le nostre comunità vivono, esse hanno il diritto di rivendicare spazi di libertà. E questi spazi voglio che si realizzino nel Paese in cui sono nato, la Turchia. Il messaggio che abbiamo lanciato in tutta la campagna elettorale è di tolleranza, di inclusione. Il risultato ha premiato i nostri sforzi. Ma siamo ancora agli inizi. Il cammino della democrazia è ancora lungo e irto di ostacoli, ma questo non ci spaventa.
E’ passato del tempo da quell’intervista. Tempo che Demirtas ha trascorso e continua a trascorrere in un carcere di massima sicurezza. Le sue condizioni di salute non sono buone. Ad aggravarle è la durezza della detenzione, condizioni sanitarie pessime, il Covid che impazza. Ma la sua voce non è stata soppressa. Demirtas continua ad essere un combattente per la libertà. Di un popolo. Sostenerlo è un dovere. Silenziarne la voce è essere complici dell’autocrate turco.
Complici di un dittatore che usa tre milioni di profughi siriani come arma di ricatto nei confronti dell’Europa. Complici di un islamonazionalista che ha portato avanti la pulizia etnica contro la popolazione curda nel Rojava siriano. Complici di un imperialista che ha riempito la Libia di mercenari qaedisti che avevano ucciso, stuprato, depredato in Siria sempre al soldo dell’invasore turco. L’Europa si è prostrata ai piedi di costui. Lo ha riempito di soldi. Una vergogna infinita.