Benifei: "Recovery fund. Così si batte la destra sovranista"
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Benifei: "Recovery fund. Così si batte la destra sovranista"

Parla il capo della delegazione Pd al Parlamento europeo: "Chi aveva scommesso o predetto il fallimento, come la destra, si è dovuto ricredere"

Brando Benifei
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

5 Ottobre 2020 - 16.29


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Il Recovery fund come strumento fondamentale per contrastare le disuguaglianze sociali e il rischio recessione determinati dalla crisi pandemica. E’ la sfida che l’Italia ha davanti a sé. Una sfida che passa per Bruxelles. Globalist ne parla con Brando Benifei, giovane e combattivo capo della delegazione Pd al Parlamento europeo.

In Italia si continua a discutere e polemizzare su tempi, modi, gestione e finalità del Recovery fund. Visto da Bruxelles che giudizio si dà di questo dibattito?

Oggi abbiamo un dibattito un po’ surreale da parte della destra in Italia. Va ricordato in proposito che quando noi abbiamo discusso e deciso a livello europeo del piano di ripresa, del Recovery fund, ci siamo scontrati con una forma di disfattismo rispetto al fatto che si sarebbe potuto ottenere, come poi è accaduto, per la prima volta un debito comune europeo, che sarà lo strumento per finanziare questo piano di ripresa. La destra aveva scommesso su un fallimento. Quando il presidente Conte affermò, durante il periodo del lockdown, in una delle sue conferenze stampa che non ci saremo accontentati soltanto di prestiti agevolati ma che cercavamo di ottenere dei titoli di debito comune per un piano pluriennale d’impresa, in generale questa posizione era stata anche in Italia, dall’opposizione ma anche da alcuni commentatori, presa quasi un po’ a ridere, come qualcosa di velleitario, perché un obiettivo del genere non era stato mai raggiunto…”.

E invece?

Diciamo che chi aveva scommesso o predetto il fallimento si è dovuto ricredere. E questo risultato è stato ottenuto grazie al combinato disposto di due fattori: la battaglia politica condotta e il cambiamento di alcune condizioni interne alla politica europea…

A cosa ti riferisci in particolare?

Al fatto che almeno nelle classi dirigenti europee si è determinata la consapevolezza che se l’Italia, la Francia e la Spagna non ripartono con forza, tutto il continente va in estrema difficoltà. Questa consapevolezza si è sempre più consolidata. E’ stata la Confindustria tedesca, non degli amici dell’Italia, a scrivere alla cancelliera Merkel per dire che era necessario procedere in questo modo per evitare di avere poi dei problemi anche in un Paese, come la Germania, con grandi capacità di indebitamento autonomo e di sviluppo anche in un momento così difficile. In questo contesto si è ottenuto un risultato storico. Oggi però questo risultato ha un reale impatto sulla vita delle persone, aldilà di una innovazione istituzionale, se si riesce a fare arrivare presto e bene queste risorse sul territorio. Il governo è impegnato a definire entro metà ottobre uno scheletro di progetti, negli ambiti in cui si vorrà utilizzare questo flusso di risorse, per poi passare, dalla seconda metà di ottobre fino all’inizio del nuovo anno, ad un dialogo serrato sia con la società italiana, con le realtà istituzionali intermedie, con l’Anci e la Conferenza delle Regioni la discussione è già molto articolata, sia con la Commissione europea. Dopo questo primo scheletro di progetti, ci saranno circa mesi di confronto con i “portatori d’interessi” per definire meglio le varie progettualità. Il ministro Amendola parla, in generale, di un centinaio di progetti. Progetti che andranno discussi anche con la Commissione europea che non ha un ruolo di imposizione dall’alto ma piuttosto di confronto di fronte a proposte che vengono dai governi. A tal proposito, credo che sia importante rimarcare, e questo non è sempre chiaro nel dibattito pubblico, che stiamo parlando di un fondo che andrà ad alimentare progetti nazionali, che certamente hanno un valore europeo ma che sono proposti e messi in pratica dagli Stati membri, nel nostro caso dall’Italia. Tutt’altra partita, che avviene in parallelo al dibattito sul Recovery fund, è quella relativa al bilancio ordinario dell’Unione Europea 2021-2027, che è il bilancio che finanzierà i programmi europei ordinari, che noi conosciamo bene, dall’Erasmus al Fondo sociale europeo, ai programmi per la ricerca. E’ importante ricordare questa cosa, e operare questa distinzione, perché sul bilancio ordinario pluriennale, che esisteva ed esiste a prescindere dalla pandemia, c’è una battaglia politica ancora aperta da parte del Parlamento europeo, perché una parte dei Paesi più restii a far partire il Recovery fund, i cosiddetti “frugali”, hanno provato a scaricare sui programmi europei del bilancio ordinario, i tagli che volevano imporre per ridurre in qualche modo il bilancio comunitario. Quindi abbiamo, da una parte, questo risultato del Recovery fund, acquisito ma che ora deve diventare realtà concreta con il processo di messa a terra che ho in precedenza brevemente illustrato. Dall’altro lato, abbiamo ancora una partita politica aperta che riguarda il bilancio comunitario e la sua definizione, perché il Parlamento europeo si sta opponendo a tagli rispetto a misure che riteniamo fondamentali da portare avanti a livello comunitario, come sono i programmi di mobilità, quelli per la ricerca, il fondo sociale europeo che è molto importante per i bilanci regionali. Questo è un tema oggetto di un negoziato ancora serrato tra il Parlamento europeo e gli Stati membri. Ultimo tema che mi sembra utile sottolineare per capire a che punto siamo sulle progettualità europee per la ripresa, è il dibattito in corso sullo stato di diritto. Per la prima volta s’intende mettere un meccanismo di verifica del rispetto dei diritti fondamentali dello stato di diritto all’interno dei Paesi europei, vincolando, collegando per la prima volta questo strumento alle risorse in bilancio. Si tratta di un dibattito molto delicato. E lo è perché possiamo immaginare come governi quali quello ungherese e polacco, ma l’elenco potrebbe allungarsi, che sono al centro di questo scrutinio, si sentano un po’ messi all’angolo rispetto a questo dibattito sul rispetto dello stato di diritto. E reagiscono minacciando di rallentare l’entrata in vigore del Recovery fund, se non bloccarla, se fossero messi troppo alle strette con uno strumento di controllo troppo stringente sull’erogazione delle risorse rispetto a questo tema. Per cui è realistico immaginare che si trovi una mediazione, che probabilmente non sarà pienamente soddisfacente anche per noi, che come Parlamento europeo stiamo tenendo su questo punto in maniera forte e da tempo, di fronte ad abusi, a violazioni dello stato di diritto, della separazione dei poteri, pensiamo, solo per fare un esempio, alla persecuzione in Polonia delle persone Lgtb, un tema che abbiamo seguito costantemente facendo pressioni a tutti i livelli. Sicuramente una cosa positiva è che per la prima volta un primo meccanismo di controllo che tenga sulla “graticola” rispetto all’erogazione dei fondi, i governi che si macchiano da tempo di tentativi di scardinare gli assetti della democrazia liberale nei loro Paesi, è stato attivato. E’ un passo avanti importante, anche se non esaustivo. Importante perché non era affatto scontato. Questa settimana avremo a Bruxelles incontri con la presidenza di turno tedesca, in particolare con il ministro per gli affari europei del governo tedesco Michael Roth, per discutere come migliorare una proposta di compromesso che al Germania sta proponendo, per far sì che sia comunque un reale deterrente per regimi che anche all’interno dell’UE oggi stanno tentando di scardinare gli assetti  di libertà e di diritti acquisiti che sono incardinati nei trattati. Voglio ricordare che la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, da quando è stato approvato l’ultimo trattato di riforma delle istituzioni, il Trattato di Lisbona, è diventata parte del diritto europeo, e quindi la cogenza di questo rispetto dei diritti fondamentali è oggi parte integrante dello stare dentro il sistema europeo. Noi su questo vogliamo che si vada avanti. Sicuramente sarà un tema importante di questa legislatura.

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A proposito di diritti. Un altro tema caldo riguarda il Migration Pact presentato recentemente a Bruxelles dalla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. Un “Patto” europeo che il mondo solidale, quello delle associazioni, delle Ong, dei movimenti di base, ha giudicato ancora troppo cedevole rispetto al fronte di Visegrad e degli innalzatori di muri.

Condivido questo giudizio e dico che per noi quella proposta, nella sua attuale formulazione, non è soddisfacente. E’ un passo avanti, perché dopo due anni che eravamo fermi sul dossier riforma del regolamento di Dublino, arriva finalmente una proposta. Questo va apprezzato ed è importante. Però è una proposta che va molto migliorata. C’è già un principio sacrosanto, che è stato affermato chiaramente dalla Commissione europea anche in questa proposta,  e cioè che la solidarietà, la gestione comune della questione migratoria tra i Paesi dell’Unione, ma il bilanciamento di ciò che viene previsto si  concentra ancora troppo sui rimpatri piuttosto che sulla condivisione della solidarietà  rispetto ai richiedenti asilo, ai rifugiati che vedono riconosciuto il loro diritto alla protezione internazionale. Peraltro anche sul fronte della collaborazione per i rimpatri, il meccanismo appare farraginoso e poco efficace per il modo in cui viene proposto. Si capisce che c’è un tentativo di mediazione per trovare un punto d’incontro, va detto, però, che alla fine con questo approccio si finisce per scontentare sia i Paesi di Visegrad che vorrebbero non avere alcun vincolo, sia i Paesi, come il nostro, che vivono il primo impatto dei flussi migratori. Il Parlamento europeo è pronto a fare la sua parte, farà i propri emendamenti al Migration Pact che arriverà all’esame dell’europarlamento nelle prossime settimane. Noi riteniamo che si debba prendere una posizione più netta e in qualche modo mettere all’angolo i Paesi di Visegrad. Voglio ricordare una cosa a mio avviso di grande importanza di cui spesso non si parla, ritenendo, a torto, che sia solo un fatto procedurale, quasi burocratico…

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Vale a dire?

Per ragioni diplomatiche, di rapporti fra i Paesi, si è deciso di accettare che nella riforma di Dublino si preveda di continuare ad andare avanti all’unanimità. Ma in realtà, i trattati permetterebbero di procedere anche a maggioranza. Bisogna decidere di prendere quella strada. Il Consiglio europeo sbaglia a cercare un accordo compromissorio con i Paesi di Visegrad che comunque dovranno rispettare il diritto europeo una volta che fosse approvata una norma a loro non del tutto gradita. Ci vuole più coraggio da parte dei governi anche a strappare su questo tema, perché lo si può fare. Su questo il Parlamento europeo è pronto a lavorare e a migliorare la proposta, che è bene che ci sia, afferma l’impegno collettivo come principio fondamentale, ma che è ancora carente , come ha rimarcato giustamente il mondo della solidarietà, perché è vero che non è chiaro il meccanismo di condivisione di responsabilità rispetto anche all’accoglienza e non solo ai rimpatri.

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