Piccola, tosta, incapace di arretrare se non davanti a un tumore che pian piano l’ha consumata. Il suo ultimo desiderio: “Non venire sostituita se non dopo l’elezione del Presidente degli Stati Uniti”. Ma difficilmente Donald Trump esaudirà la richiesta di Ruth Bader Ginsburg, morta a 87 anni, la giudice della Corte Suprema degli Usa, seconda donna della storia americana a far parte del massimo organo giudiziario (dopo Sandra Day O’Connor). Paladina dei diritti e della lotta per la parità di genere era stata nominata da Bill Clinton nel 1993.
Una vita densa, importante, sempre dalla parte dei fragili, degli invisibili. Era la più anziana della Corte Suprema, nota, rispettata. Appena si è appresa la notizia della morte in migliaia, soprattutte ragazze e ragazzi, si sono riversati sotto il Palazzo del massimo organo di giustizia degli States per piangerla. Incredibile come questa signora minuta sapesse parlare a tre, quattro, cinque generazioni senza mai perdere un briciolo di credibilità.
RBG la chiamavano in America, un acronimo che sembra lo slogan di una battaglia, preso in prestito dal titolo di uno dei libri dedicati alla storia di questa donna libera e brillante, intelligente e coraggiosa, che davanti alle ingiustizie sapeva dire no. “I dissent”. RBG la cui esistenza è stata indissolubilmente legata alle battaglie contro gli stereotipi di genere, per i diritti delle donne, per la legalizzazione dell’aborto, a sostegno dei migranti e per il matrimonio tra coppie Lgbt.
“Non chiedo favori per il mio sesso, chiedo solo che smettano di calpestarci”: la sua più celebre dichiarazione in tribunale. Nata a Brooklyn in una famiglia di immigrati russi ebrei, si laureò ad Harvard nel 1955, in quella prestigiosa università che da poco aveva iniziato ad ammettere le donne (fu una delle prime 9 su 500 colleghi maschi). Una laurea in tasca e zero lavoro. Nessuno voleva nel proprio studio un’avvocata. Ruth Bader Ginsburg lo aveva raccontato più volte quanto era stato duro esercitare la propria professione: “Ero donna, ero ebrea e per giunta ero mamma di un bambino di 4 anni”. Eppure era bravissima RBG. Lucida, appassionata, eloquio formidabile. La sua prima vittoria in tribunale fu negli anni Settanta, nel caso “Frontiero versus Richardson”, quando sostenne le ragioni di una sottotenente dell’aeronautica discriminata per poi arrivare all’equiparazione tra discriminazione razziale a sessuale. Nel 1996 si schierò per dichiarare incostituzionale la policy del Virginia Military Institute che da 157 anni ammetteva solo uomini. E vinse.
Un’icona, dicevamo. La sua immagine – quel colletto di pizzo sulla toga nera e lo sguardo fiero dietro le lenti – si moltiplica oggi sulle t-shirt, sulle felpe. Per l’America è davvero la fine di un mito. In tarda età, oltre ai libri, le fu dedicato anche un film, «Una giusta causa» uscito nel 2018.
Trump, che durante il suo mandato l’ha definita “fuori di testa” e contrastata in ogni modo, non vede l’ora di sostituirla con un conservatore per riaffermare la sua politica retrograda su molte, delicate questioni sociali. RBG era una dei quattro progressisti tra i 9 giudici della Corte Suprema Usa. Ma non solo: qualora l’esito del voto di novembre fosse contestato sul piano giuridico, come avvenne vent’anni fa, sarebbe proprio la Corte a intervenire. E il tycoon non vuole ostacoli.
A dispetto dei macchinosi giochi della Casa Bianca, rimane l’esempio di Ruth Bader Ginsburg. Non solo negli Usa. Quella tempra, quell’ostinazione. Quella determinazione nel dire ai più giovani: “Il tempo è dalla parte del cambiamento”. Speriamo davvero sia così, signora Giudice.
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