Il “faraone” alla conquista del Nilo. Il presidente-gendarme egiziano, Abdel Fattah al-Sisi, mostra i muscoli, e le armate, all’Etiopia per il controllo di quella che, al suo completamento, sarà la diga più grande dell’Africa. “L’acqua è una questione di vita o di morte”, proclama al-Sisi, “nessuno può toccare la quota d’acqua dell’Egitto”. E questo sarebbe lo “stabilizzatore” dell’Africa vaneggiato dal duo Conte&Di Maio! Se non è il petrolio (Libia), è il gas (Mediterraneo orientale). E se non è il gas, è l’oro blu: l’acqua.
Il Nilo Azzurro porta l’84% dell’acqua e il 96% del limo del Nilo. Nasce in Etiopia, come altri quattro grandi corsi d’acqua che vi confluiscono: Akobo, Tekeze, Atbarah e Baro. Modificarne la portata avrebbe dunque conseguenze serie, visto il contributo modesto dell’altro affluente, il Nilo Bianco, che origina dal lago Vittoria. E’ questa la ragione per cui da sempre le sue acque sono oggetto di contese e conflitti. Non è un caso che fu proprio l’esigenza di un accordo sull’uso del fiume a far nascere, più di seimila anni fa, il primo stato al mondo. La civiltà egizia, con le sue decine di dinastie e il suo pantheon di divinità, coincide con la storia del Nilo, che i faraoni hanno difeso attraverso i secoli. Gli ultimi scontri armati per il controllo del fiume risalgono alla fine dell’800, quando i pasha ottomani, che all’epoca dominavano l’Egitto, inviarono spedizioni in Sudan ed Etiopia.
Nemmeno i negoziati di settimana scorsa tra Etiopia, Egitto e Sudan, hanno sciolto i nodi. Tutte e tre i paesi rimangono sulle loro posizioni, senza che vi siano segnali, concreti, che si possa arrivare a un accordo in tempi brevi. Ma ciò che potrebbe aver messo una pietra tombale sulle negoziazioni trilaterali è la decisione di inviare la questione all’Onu. La mossa, annunciata dal ministero degli Esteri del Cairo, invita il Consiglio di sicurezza a intervenire “al fine di affermare l’importanza del proseguimento dei negoziati tra Egitto, Etiopia e Sudan, in attuazione degli obblighi previsti dalle norme di diritto internazionale, con l’obiettivo di raggiungere una risoluzione equa ed equilibrata della questione e di impedire l’adozione di misure unilaterali che potrebbero incidere sulle possibilità di raggiungere un accordo”.
La diga della discordia
L’annuncio non è stato ancora commentato ufficialmente dal governo di Addis Abeba che in precedenza, per voce del ministro degli Esteri Gedu Andargachew, aveva dichiarato che l’Etiopia potrebbe abbandonare il tavolo dei negoziati in corso con Egitto e Sudan nel caso in cui le autorità de Il Cairo lo avessero a loro volta lasciato. Il ministro aveva anche accusato le autorità egiziane di aver cercato di ostacolare i colloqui rimettendo il contenzioso al giudizio del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. “Mentre li invitiamo a negoziare con mentalità aperta ed a discutere questioni basate su principi, gli egiziani stanno pensando in modo diverso e per interrompere la negoziazione”, aveva detto Andargachew. Il capo della diplomazia etiope è nuovamente intervenuto sulla vicenda domenica scorsa, ribadendo in un’intervista all’agenzia di stampa Ena che l’Etiopia non accetterà mai alcun accordo che limiti i suoi diritti idrici sul Nilo Azzurro. “L’Etiopia sta discutendo con i due paesi solo del processo di costruzione della diga e non di questioni relative ai suoi diritti di utilizzare il fiume”, ha osservato il ministro, tornando ad accusare l”Egitto di voler limitare i diritti idrici dell’Etiopia. “La partita – rimarca si Africarivista.it Angelo Ravasi, è dunque delicatissima e sia l’Egitto sia l’Etiopia hanno tutti i motivi per difendere le loro posizioni. Dall’acqua del Nilo dipende tutto. Il Nilo è l’Egitto. Il paese delle piramidi potrebbe perdere fino a 300 milioni di dollari di elettricità e un miliardo e mezzo di dollari in agricoltura. Il Cairo, inoltre, dovrebbe aumentare le sue importazioni alimentari fino a poco meno di 600 milioni di dollari, con una perdita di circa un milione di posti di lavoro. L’Egitto consuma circa 80 miliardi di metri cubi di acqua all’anno, di cui 50 provengono dal Nilo. L’Etiopia, invece, potrebbe perdere lo slancio economico che sta mettendo in campo il primo ministro Abyi Ahmed. Il balzo del Pil – attualmente la crescita sfiora le due cifre, ma occorre fare i conti con la pandemia di coronavirus – potrebbe rimane una chimera e deludere l’opinione pubblica interna, con conseguenze imprevedibili, vista l’attuale fragilità del tessuto sociale, spesso squassata da rivalità etniche e religiose. Un Pil , tuttavia, che non si riflette sull’economia reale, sul benessere della popolazione. Addis Abeba ha un gran bisogno di questa diga che, non a caso è stata definita ‘diga della rinascita etiope’ e, come ha affermato di recente il premier etiope, la costruzione terminerà tra poche settimane”.
Secondo le stime, la confluenza della palude etiope con le acque del Nilo azzurro causerà nei prossimi anni una serie di devastanti siccità in Egitto e in Sudan e distruggerà il sistema agricolo tradizionale in questi paesi. Solo nel primo anno, circa 1,5 milioni di contadini potrebbero restare senza lavoro. Qualcosa di simile è accaduto in Siria dopo che la Turchia ha costruito dighe a cascata sul fiume Eufrate in Kurdistan negli anni ’80. Sebbene l’effetto non fu immediato e durò circa 25 anni, il graduale degrado dell’agricoltura siriana produsse la massiccia migrazione di contadini alla periferia delle grandi città. Tuttavia, i danni immediati in agricoltura non sono l’unico pericolo che le autorità egiziane devono tenere a mente. Va inoltre tenuto presente che, in caso di eventuale rilascio istantaneo di tutte le acque, le sue correnti possono trasportare circa il 70% di tutte le vite egiziane.
I lavori sono iniziati nel 2011 e affidati all’italiana
Salini. L’invaso, inoltre, potrà immagazzinare fino a 74 miliardi di metri cubi di acqua e il riempimento dovrebbe cominciare, almeno secondo le intenzioni di Addis Abeba, a luglio. L’oggetto del contendere è, infatti, sul riempimento che l’Egitto vorrebbe avvenisse in cinque anni mentre l’Etiopia in tre. Lo scorso ottobre, due settimane dopo avere vinto il Premio Nobel per la Pace, il primo ministro etiope Abiy Ahmed Ali parlò di fronte al parlamento del suo paese del più grande progetto infrastrutturale avviato negli ultimi anni in Etiopia: un’enorme diga a servizio di una centrale idroelettrica in costruzione sul Nilo Azzurro, fiume che a Karthoum, la capitale del Sudan, si unisce al Nilo Bianco formando il Nilo, il quale poi sfocia nel Mar Mediterraneo tra le città egiziane di Alessandria d’Egitto e Porto Said. Lo stesso Abiy, sempre nell’ottobre 2019, aveva affermato pubblicamente che l’Etiopia «è pronta ad arruolare milioni di uomini ed entrare in guerra per difendere la diga Grande Rinascita». I toni bellicosi del Premio Nobel per la Pace sono stati ripresi la scorsa settimana quando ha affermato che “nemmeno il coronaviurs ostacolerà i piani della diga”. Durante un question time del parlamento etiopico, a una domanda sullo stallo dei negoziati col Cairo sulla gestione delle acque del Nilo dopo il completamento della diga il premier ha così risposto: “Alcuni dicono delle cose sull’uso della forza [da parte dell’Egitto, ndt]. Voglio sottolineare che nessuna forza può impedire all’Etiopia di costruire una diga. Se ci sarà bisogno di andare in guerra, noi potremo avere milioni di persone pronte a combattere. Se qualcuno volesse lanciare un missile, altri [sottinteso: noi altri, ndt] potrebbero rispondere con le bombe. Ma questo non è nell’interesse di tutti noi”.
Due settimane fa si sono registrati scontri militari alla frontiera tra Sudan ed Etiopia. Anche se questi scontri riguardano rivendicazioni territoriali, se non risolti, influiranno negativamente sulla possibilità di risolvere in maniera pacifica il contenzioso regionale sulle acque del Nilo.
La protesta ambientalista
Sono quasi 400 le organizzazioni che hanno firmato la petizione contro la diga più alta dell’Africa. La gigantesca diga Gibe III, in costruzione lungo il fiume Omo, minaccia almeno otto tribù in Etiopia e circa 300.000 persone che vivono attorno al famoso lago Turkana del Kenia. Copie della petizione sono state consegnate in Francia, Germania, Italia, Belgio, Gran Bretagna e Stati Uniti. La diga fermerà i cicli naturali delle esondazioni da cui dipendono i metodi di coltivazione delle tribù della valle dell’Omo. Benché il governo affermi di poter risolvere il problema ricreando delle “piene artificiali”, i costruttori della diga hanno svelato dei progetti che prevedono che le tribù “passino a forme più moderne di coltivazione” dopo “un periodo di transizione”. L’imposizione di un cambiamento di questo tipo si rivelerà senza dubbio disastroso – rimarcano le 40 Ong – perché comporterà l’eliminazione delle già inadeguate “piene artificiali” in un panorama di totale mancanza di garanzie di mezzi alternativi di sopravvivenza. “Noi ci nutriamo di quello che ci dà il fiume Omo. Dipendiamo dal pesce che è come il nostro bestiame. Se le piene dell’Omo cessano, moriremo tutti” ha dichiarato un membro della tribù dei cacciatori raccoglitori Kwegu.
Le tribù non sono state consultate sulla diga, sul ‘cambiamento’ di mezzi e tecniche di sostentamento e nemmeno sulla cessione delle loro terre agli investitori stranieri, in violazione della stessa Costituzione dell’Etiopia.