“Bisogna smontare la retorica inventata dalla sinistra per cui la Libia non è un porto sicuro. Ho visitato oggi stesso un centro di accoglienza nel cuore Tripoli, all’avanguardia, con una clinica e campi sportivi”.
Lo diceva Salvini a giugno, fresco fresco di elezione al Ministero dell’Interno. A luglio, poi, il capo della Lega insisteva per far passare una norma che dichiari i porti libici sicuri.
Nel frattempo, la realtà correva parallela alle menzogne di Salvini. Perché non solo di questi fantomatici centri di accoglienza all’avanguardia non ce n’è traccia alcuna, ma le foto dei centri di detenzione libici hanno fatto più volte il giro del web. Veri e propri lager in cui, e l’ultima notizia è di pochi mesi fa, non sono rari i casi di suicidio dei migranti espulsi dai paesi d’Europa e ricondotti in Libia.
Non è finita: settembre 2018, non più di quattro mesi fa: un mortaio colpisce l’ambasciata italiana a Tripoli, costringendo l’ambasciatore a lasciare il paese. E oggi l’ultima notizia, l’attentato kamikaze al ministero degli esteri, che ha provocato cinque morti.
È questo il profilo di un luogo sicuro? Oppure, più probabile, è un luogo in cui scaricare gli indesiderati, premerli nei lager e dimenticarli, continuando nel frattempo a mentire?