Successivamente all condanna a 21 anni di prigione del fascista Breivik scrissi un’analisi sulla silenziosa deriva fascistoide.
A distanza di anni, mentre in Italia e in Europa (e anche in America) intolleranza, xenofobia e razzismo stanno diventando un vanto e il mondo e anni di crisi economica hanno spinto alla guerra tra poveri e all’ulteriore emarginazione dei più deboli e indifesi tra i poveri, quelle parole mi sembrano ancora attuali.
La legge norvegese è chiara: 21 anni sono il massimo della pena, anche se la condanna può essere prorogata se il detenuto fosse ritenuto ancora pericoloso al momento della sua scarcerazione.
Così hanno deciso in Norvegia e la giustizia di un paese civile che ha subito una sciagura così grande per mano del fascista Breivik va rispettata. Loro hanno pagato con un terribile tributo di sangue il fanatismo xenofobo di un loro cittadino; solo loro hanno il diritto di giudicare.
Però io guardo la sentenza da un altro punto di vista. Politico. Perché ciò che preoccupa me e tutti gli osservatori dei fenomeni eversivi non è tanto l’equazione pena mite uguale moltiplicazione dei terrorismi. Non si tratta di questo. La pena di morte, paradossalmente, potrebbe rappresentare un miglior viatico perché altri imbraccino le armi. La mia preoccupazione è che Breivik possa diventare ancora di più di quanto lo sia, non il “martire” da emulare, ma un punto di riferimento ideologico o identitario nel mare magnum della xenofobia e dei fascismi occidentali. Questo è il punto. Non tanto se era o non era sano di mente (e io credo che fosse totalmente consapevole) quanto piuttosto che lucida, determinata, spietata e socialmente alimentata è l’idea che ha armato la mano di Breivik. Una idea che si ciba giorno dopo giorno di intolleranze, di paure, di impossibilità di parlare, di dialogare con chi è diverso da noi.
Ho scritto non molto tempo fa dopo un’ennesima vicenda di fascismo: “E’ in questa tolleranza dell’intolleranza che il fascistume rialza la testa e si fortifica, sentendo il vero favorevole per affermare il diritto dei forti, per vantarsi delle bandiere del Duce o del terzo reich, per fare proseliti nelle curve (plurale) per reclamare fette di territorio dove imporre la propria legge.
E’ in questa ignavia di chi, inseguendo il nuovismo e il moderatismo (e qualche volta il grillismo) a forza di dire che destra e sinistra non ci sono più, fa crollare il valore dell’antifascismo, relegandolo a residuo del passato. Sono gli stanchi del 25 aprile; gli stufi dei partigiani a spalancare le porte ai potenziali Breivik che coltiviamo anche in casa nostra”.
La verità è che il mondo di Breivik, anzi dei Breivik, ogni giorno trova linfa non solo nel fanatismo dei fascisti esaltati, ma nel giustificazionismo e nelle tante piccole intolleranze di quelli che si presentano come moderati ma strizzano l’occhio alla pancia reazionaria delle masse. Agli incravattati che dicono che gli immigrati portano solo criminalità; alle politiche scriteriate sui campi rom, ai Sarkozy che insegue Le Pen.
Breivik è il mostro. Ma i germi infetti che lo hanno prodotto sono dentro tanti “normali” tanti che oggi puntano il dito. La realtà è che Breivik è il prodotto di un occidente malato, incapace di reagire alla sua decadenza, che si rifugia in fortini sempre più piccoli e angusti, incapace di interpretare la modernità. Breivik, come più volte documentato su Globalist, è uno dei tanti “templari” in giro per il mondo. E questo deve far preoccupare. Ma Breivik non è solo il figlio del fascismo dei fanatici. E’ figlio del più diffuso fascismo dei moderati. E questo deve farci preoccupare molto ma molto di più.