La Tunisia sgombera l'inferno dei rifugiati di camp Chouca
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La Tunisia sgombera l'inferno dei rifugiati di camp Chouca

Il campo si trova nel Governatorato di Medenine e fu istituito quando i libici cominciavano a fuggire dalla repressione dei Gheddafi

Camp Choucha in Tunisia
Camp Choucha in Tunisia
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Diego Minuti Modifica articolo

20 Giugno 2017 - 19.51


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La nostra epoca vive di paradossi e tale sembra la decisione delle autorità tunisine di procedere allo sgombero con la forza (per tutta la giornata del 19giugno sono intervenute le forze di sicurezza e l’Esercito) di camp Choucha, che non è stato solo un luogo di espiazione per colpe mai commesse, ma anche il simbolo della crudeltà della guerra in Libia che ha costretto migliaia di persone a varcare il confine con la Tunisia e di chiedere accoglienza alle organizzazioni umanitarie.
Camp Choucha si trova nel Governatorato di Medenine e fu istituito nell’immediatezza dei primi sconfinamenti dalla Libia devastata dalla rivolta e dalla durissima repressione delle forze di sicurezza comandate da Mutassim al Khaddafi. Un immenso rettangolo di sabbia e inferno, dove accorsero in migliaia dopo avere attraversato il valico di Ras Jedir, diventato nel tempo la porta d’accesso verso la speranza. Ma se eri libico, avevi le tasche piene di dollari e guidavi potenti automobili europee, il passaggio non era un problema. Bastava strizzare l’occhio alla guardia di frontiera giusta ed oplà eri già in Tunisia, dove ancora molti libici vivono in case di lusso, quando non in alberghi a cinque stelle.
Ma se eri senza soldi e magari scappavi veramente dalla guerra era tutto più difficile perché dovevi passare la trafila dei richiedenti asilo, con tutto quel che ne conseguiva. Ed alla frontiera si presentarono anche migliaia di operai stranieri (soprattutto asiatici) con le loro famiglie che, perso il posto di lavoro per la guerra civile, cercarono di passare il confine, ma furono spessissimo rimandati indietro, abbandonati in una terra di nessuno ed in balia di banditi armati, ad una sorte che non per tutti è stata benevola. L’iter per la valutazione delle richieste è sempre stato lungo e irto di difficoltà, dovute non tanto alla farraginosità delle norme della burocrazia tunisina, quanto al fatto che era difficile accertare se chi si trovava davanti ai funzionari era davvero un aspirante rifugiato, un criminale di guerra, un contrabbandiere arricchito o, più semplicemente, qualcuno che chiedeva una ospitalità magari temporanea, per vedere come sarebbero andate a finire le cose al di là del confine.
Camp Choucha però non era attrezzato per questo e, in migliaia, sono rimasti per moltissimi mesi, nelle tende fornite dall’Unhcr e da altre organizzazioni umanitarie. Tende di tela gommata che – chi scrive ne fu testimone diretto – sotto il sole calcinante dell’estate tunisina diventavano l’anticamera dell’inferno, mentre di sera erano solo un simulacro di protezione contro le repentine escursioni termiche della zona.
Il campo diventò un immenso calderone ribollente di paura, sofferenze, ma anche di contrasti tra gruppi etnici diversi, incapaci di comprendere la disumanità che vivevano i rifugiati, scegliendo invece la lotta per accaparrarsi magari una tenda migliore o razioni più robuste.
Nel giugno di quattro anni fa l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati decise di chiudere il campo, davanti all’impossibilità di risolvere i problemi legati alle migliaia di richiedenti asilo che premevano per vedere accolte le loro istanze. Una misura che si tradusse nell’interruzione dell’erogazione di acqua e luce ed in dure limitazioni alla circolazione, con il divieto di non uscire dal perimetro del campo, pena l’arresto.
La maggior parte delle richieste di asilo sono rimaste inevase, anche perché la Tunisia, nonostante un gigantesco impegno umanitario, non poteva avere la forza accogliere tutti quelli che lo chiedevano. Ma la misura in questi anni s’è colmata e, seppure a distanza di quattro anni, la decisione dell’Unhcr di chiudere camp Choucha ha portato al suo smantellamento. Che poi questo sia avvenuto alla vigilia della Giornata mondiale del rifugiato è una mancanza di sensibilità dell’omino che ha firmato il decreto di sgombero, che non può comunque fare dimenticare quanto la Tunisia, praticamente da sola, ha fatto per i rifugiati.
Come in occasione della festa dell’Aid, quando migliaia di famiglie tunisine, anche non agiate, aprivano le porte delle loro case a quanti più rifugiati possibile per dividere con loro il pranzo, uno dei più legati alla tradizione islamica.
Lo sgombero è stato contestato dal Forum tunisino dei diritti economici e sociali, ma senza grandi risultati. Il Forum ha anche chiesto, e questa è una novità, che del problema si facciano carico le nazioni che hanno contribuito alla guerra in Libia. Un appello che, però, ha ben poche possibilità d’essere ascoltato.

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