Berkeley: dalla lotta contro la guerra in Vietnam alle proteste contro Trump

La prestigiosa università della California è una culla del pensiero liberal e pacifista

Protesta a Berkeley
Protesta a Berkeley
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Diego Minuti Modifica articolo

17 Aprile 2017 - 17.51


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Anche la più devastante delle tempeste comincia con una gocciolina di pioggia che cade dal ventre nero di una nuvola per cominciare la propria brevissima storia. L’America, per antonomasia la terra delle libertà, ha sempre vissuto in modo viscerale il rapporto tra l’Uomo e le Istituzioni e se queste ultime cercano di prevaricare, di imporre, di reprimere reagisce e lo fa a modo suo, affidando il ruolo di apripista ai più giovani.
Ci sono luoghi deputati a incarnare, fisicamente, la Libertà universale. Alcuni facilmente riconoscibili, come Philadelphia che custodisce la campana che chiamò a raccolta la gente per ufficializzare la Dichiarazione che sanciva la separazione delle colonie dalla Gran Bretagna. Come miss Liberty, che ancora oggi lancia il suo sguardo benevolo ed accogliente verso il Paese ove ciascuno ha un’opportunità, nel bene e nel male.
E poi ci sono altri luoghi, entrati quasi di soppiatto nella Storia non uscendovene più. Come Berkeley, la prestigiosa università californiana, officina del pensiero liberale e da dove divenne rivolta la protesta contro la guerra del Vietnam e contro una società ritenuta oppressiva.
In questi decenni, trascorsi tra presidenti cacciati dalla Casa Bianca, tra presidenti che usavano lo Studio Ovale per esercizi ginnici politicamente scorretti, tra presidenti che per scatenare una guerra si sono affidati a motivazioni  per nulla fondate, Berkeley è rimasta un simbolo perché  nelle sue aule, nei viali del suo campus si discuteva e si discute, si assumono posizioni e, soprattutto, le si difendono anche davanti all’uso della forza da parte di chi le avversa. Come è accaduto oltre un mese fa quando decine e decine di studenti si sono mobilitati per cercare di impedire – come poi in effetti sono riusciti a fare – un evento in cui avrebbe dovuto parlare Milo Yiannopoulos, uno dei guru della destra estrema. Una protesta che forse cozza con la storia dell’ateneo dove, nel 1964, fu fondato il Free speech movement, appunto per difendere il diritto di parola. Ma, dicono oggi gli studenti di Berkeley, un conto è difendere il diritto ad esprimere le proprie idee, un altro è affidare alle parole messaggi che mirano a comprimere gli spazi delle libertà personali, nel presunto interesse generale. La possibilità di protestare Berkeley se l’è conquistata sul campo accademico prima che politico perché è ancora oggi una delle principali università della California, avendo dato, grazie anche ai suoi avanzati programmi di coinvolgimento delle varie componenti anche minoritarie della società, la possibilità di affermarsi in economia, nel mondo dell’arte così come dello sport. Ma è soprattutto nelle scienze che l’ateneo è diventata importante, contribuendo tra l’altro al programma per la costruzione della bomba all’idrogeno.   
Una considerazione che si vede anche in aspetti apparentemente secondari, come il fatto che uno dei due colori scelti per il simbolo ufficiale dell’ateneo è classificato come ”blu Berkeley” (l’altro è il gold California”). Tacendo dei 72 premi Nobel usciti dalle sue aule.
Ma queste cose poco hanno inciso nella storia delle proteste nate a Berkeley e poi dilagate nel resto dell’America. Perché la libertà di espressione divenne la prima da difendere quando tra i giovani americani, davanti allo spettro di dovere andare a combattere e morire in Vietnam, cominciò a serpeggiare la voglia di ribellarsi. E Berkeley fu la culla della protesta, condotta da un gruppo di ragazzi di cui Mario Savio e Jack Weinberg divennero i capofila naturali, infiammando i loro colleghi con discorsi in cui, paradossalmente, la violenza dei contenuti era sì presente, ma filtrata, mai diretta o manifestamente eversiva.  Come nei film noir (‘poliziotto buono, poliziotto cattivo’)  Weinberg appiccava l’incendio (non ti fidare mai di qualcuno per più di 30 secondi’)  e Savio ne mascherava gli effetti (per me la libertà di parola è qualcosa che rappresenta la dignità stessa di ciò che è umano).
> Berkeley fu, dal primo ottobre del 1964, l’emblema della rabbia giovanile, nutrita dalle pagine di Herbert Marcuse, il filosofo che lì aveva insegnato, ma anche dalla delusione del fallimento della nuova frontiera kennedyana, non per l’uccisione del giovane Jack a Dallas, ma per la vittoria di un establishment chiuso al progresso delle idee. Come una inarrestabile valanga, le proteste da Berkeley dilagarono nel resto del Paese scegliendo come bersaglio la mancata riforma della società in senso liberale (a cominciare dai diritti umani, sfregiati dalla negazione di quelli della gente di colore).
Le proteste, gli incidenti, le prima manganellate, tutti ricordi forse un po’ sfioriti, ma che sono rimasti impressi come un marchio a fuoco nella ”pelle” dell’università californiana, che è sempre in prima fila se si tratta di dovere contestare non per abitudine o prassi, ma quando si vede che la liberà di pensiero viene spenta negando quella di espressione.
 Negli anni ’60 i ragazzi americani tracciarono un sentiero che, di li a poco, sarebbe stato percorso anche in Europa, culminando in una deriva terroristica giocata sul sogno di ribaltare quella che veniva definita ”la società borghese”.
Nel 1970 l’eco delle proteste studentesche in America era ancora molto forte, ma la rabbia era canalizzata soprattutto contro Nixon e le sue politiche.  Il quattro ottobre di quell’anno, nei viali dell’Università di Kent State, in Ohio, migliaia di ragazzi si riunirono per urlare la loro rabbia contro la leva obbligatoria. La Guardia nazionale intervenne duramente, aprendo il fuoco. Quattro ragazzi (Allison Krausem Jeffrey Miller, Sandra Scheuer e William Schroeder) rimasero uccisi e le foto dei loro corpi, riversi sulla strada, tra le lacrime dei loro colleghi, furono la prima grande sconfitta per Dirty Dick, perché non erano giovani americani morti in una giugna dell’Estremo oriente, ma studenti morti ammazzati – da uomini in divisa – nella ‘civilissima’ America. Che restò sotto shock, chiedendosi come una simile tragedia poteva essere accaduta o peggio giustificata.  
Poco tempo dopo un allora giovane cantante canadese, Neil Young, scrisse una canzone chiedendo agli altri musicista del suo gruppo (David Crosby, Stephen Stills e Graham Nash) di inciderla subito. Era nata ”Ohio”, un inno contro la violenza e per la libertà. Il testo – preceduto da un ormai storico assolo di chitarra di Neil Young, potente e insieme struggente – recita ”Nixon sta arrivando con i (suoi) soldatini di piombo e noi finalmente siamo (uniti) da questa parte. In questa estate sento il rullo dei tamburi, quattro morti in Ohio”.
La leggenda racconta che , alla fine della registrazione del brano, David Crosby, stravolto dalla commozione, scoppiò a piangere, urlando il proprio dolore: ”How many more?”.

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