Quando sta accadendo negli Stati Uniti, intorno alla controversa figura dell’ex consigliere per la Sicurezza, il generale Michael Flynn, al di là dei contenuti e delle motivazioni della vicenda – peraltro non tutti ancora molto chiari -, si riduce ad un interrogativo, che in Italia non si porrebbe nemmeno (siamo pur sempre la culla del diritto), ma che, sull’alta sponda dell’Atlantico, rischia di riaprire un dibattito, mai chiuso, su cosa debba prevalere, tra la giustizia e la verità. Ed è un interrogativo non di poco conto, anzi fondamentale.
Breve riassunto: il generale Flynn è stato consigliere per la sicurezza di Donald Trump per poche settimane, quando si è dovuto dimettere dopo che sono state confermate le voce secondo le quali aveva avuto, prima ancora dell’insediamento del neopresidente, degli incontri con l’ambasciatore a Washington della Federazione russa. L’ondata di proteste che la circostanza ha scatenato (con molte perplessità anche in seno al Partito Repubblicano) lo ha spinto a lasciare il prestigioso incarico di tenere in mano le chiavi della sicurezza interna (ma con ovvie proiezioni anche verso l’esterno) del Paese più potente della terra.
Messo all’angolo ed incalzato a chiarire il perché dei suoi incontri con il rappresentante diplomatico di Mosca, Flynn ha dapprima nicchiato, dicendo di non avere nulla da rimproverarsi. Ma, nelle ultime ore, ha fatto trapelare, attraverso il suo avvocato, di essere disposto a parlare a patto che gli venga concessa la totale immunità su eventuali comportamenti dolosi o fraudolenti accertati.
Pensando a chi – le commissioni del Congresso che si occuperanno del ‘Russiagate” – dovrà decidere se concedergli o meno il beneficio, c’è da domandarsi cosa prevarrà o sarà fatto prevalere, se la necessità (politica) di conoscere la verità dei fatti o quella (morale) di amministrare giustizia nei confronti di qualcuno che ha violato la legge. Non è quesito da poco, che ai nostri occhi potrebbe apparire mal posto poiché in Italia esiste una figura simile all’immunità (la legislazione premiale per i pentiti), che però non monda il soggetto dalle sue colpe, comunque valutate in considerazione del contributo dato all’accertamento della verità.
Ma Flynn, ponendo come condizione a collaborare la concessione dell’immunità (il suo avvocato dice, con grande senso pratico, che l’ex consigliere qualcosa da dire ce l’ha….) , chiede alla giustizia americana di saltare a pie’ pari il punto della sua responsabilità personale, aprendo quindi la strada a quella politica che, inutile negarlo, condurrebbe dritto verso l’attuale e controverso inquilino della Casa Bianca. Il quale – non certo per l’obbrobriosa equazione solo italiana del ”non poteva non sapere”, uno sfregio alla civiltà del diritto – dovrebbe spiegare come mai qualcuno degli uomini che, ancor prima dell’elezione, gravitavano nella cerchia ristretta dei suoi collaboratori, si muovesse con tale autonomia a andare a discutere con l’ambasciatore russo di argomenti che riguardavano ancora, almeno formalmente, l’amministrazione in carica, quella di Barak Obama.
La promessa di parlare e, quindi, svelare in cambio della non punibilità o dell’immunità (che sono cose diverse), diventa parte di una trattativa quasi mercantile tra chi offre (o si offre, come fa Flynn) e chi, dovendo comprare, deve decidere sino a che punto spingersi nella trattativa. Ma, a differenza nostra, gli americani hanno più senso pratico e certamente, nel momento in cui dovesse essere garantita a Flynn, l’immunità, pochissimi insorgerebbero, come invece sicuramente accadrebbe in Italia.
Non è un problema di scelta, ma di opportunità. Ma siamo davanti ad un paradosso.
Se a compiere gli stessi fatti emendabili fossero state due persone, una Flynn – che ha qualcosa da offrire per evitare una condanna – ed un’altra – che non conta nulla nell’immensità dell’universo – è giusto salvare solo chi ha deciso, strumentalmente, di collaborare, mandando in carcere chi non conosce circostanze di interesse per la giustizia da rivelare?
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