Guerra e fondamentalismi: la Francia che dice no

Non in nostro nome: l'appello degli intellettuali francesi contro una nuova guerra che nutrirà il terrorismo invece di annientarlo.

Guerra e fondamentalismi: la Francia che dice no
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29 Novembre 2015 - 11.42


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Nessuna interpretazione monolitica, nessuna spiegazione meccanicistica può far chiarezza gli attentati. Quindi bisogna restare in silenzio? Molti ritengono – e noi li capiamo – che davanti all’orrore di quanto accaduto, si può solo restare in raccoglimento. Ma noi non possiamo tacere, quando altri parlano e agiscono per noi, trascinandoci nella loro guerra. Dovremmo lasciarli fare, in nome dell’unità nazionale e della pressione a pensarla come il governo?

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Perché sarebbe la guerra, ora. Prima, no? E la guerra in nome di che: dei diritti umani e della civiltà? In realtà, la spirale in cui ci trascina lo Stato pompiere piromane è infernale. La Francia è perennemente in guerra. Esce dal conflitto in Afghanistan, sporca del sangue dei civili assassinati. Lì i diritti delle donne continuano ad essere calpestati, mentre i talebani ogni giorno riguadagnano terreno. Esce da una guerra in Libia che lascia il paese devastato e in rovina, con migliaia di morti e le armi free market che riforniscono tutte le jihad. Esce da un intervento in Mali. I gruppi jihadisti legati ad Al-Qaeda continuano a crescere e a commettere massacri. A Bamako, la Francia protegge un regime corrotto fino all’osso, come in Niger e nel Gabon. Gli oleodotti del Medio Oriente, l’uranio sfruttato a condizioni spaventose da Areva, gli interessi di Total e di Bolloré non hanno nulla a che fare con questi interventi molto selettivi, che lasciano i paesi devastati? In Libia, in Africa Centrale, nel Mali, la Francia non ha alcun piano per aiutare le popolazioni a uscire dal caos. Ora non basta dare lezioni di presunta morale (occidentale). Quale speranza nel futuro possono avere popolazioni condannate a vegetare in campi profughi o a sopravvivere tra le rovine?

La Francia vuole distruggere il Daesh? Bombardando, accresce il numero dei jihadisti. I caccia Rafale uccidono civili innocenti come quelli del Bataclan. Come in Iraq, alcuni di questi civili finiranno per mostrarsi solidali con i jihadisti: questi bombardamenti sono bombe a orologeria.
Il Daesh è uno dei nostri peggiori nemici: massacra, decapita, stupra, opprime le donne e arruola i bambini, distrugge il patrimonio mondiale. Parallelamente, la Francia vende al regime saudita, noto finanziatore di reti jihadiste, elicotteri da combattimento, motovedette, centrali nucleari; l’Arabia Saudita ha appena ordinato 3 miliardi di dollari di armamenti; ha saldato la fattura di due navi Mistral, vendute all’Egitto del maresciallo Al-Sissi che reprime i democratici della primavera araba. In Arabia Saudita non si decapita? Non si tagliano le mani? Le donne non vivono in condizione di semi-schiavitù? Impegnata nello Yemen a fianco del regime, l’aviazione saudita ha bombardato le popolazioni civili, distruggendo al contempo tesori architettonici. Bombarderemo l’Arabia Saudita? Oppure l’indignazione oscilla secondo le alleanze economiche del momento?

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La guerra alla jihad, quella militare, si combatte anche in Francia. Ma come evitare che ci cadano giovani provenienti soprattutto da ambienti popolari, se continuano ad essere discriminati ovunque, a scuola, al lavoro, nell’accesso alla casa o nelle loro credenze? E se finissero in prigione. Stigmatizzandoli ulteriormente? Non dando loro accesso ad altre condizioni di vita? Negando la loro dignità rivendicata? Noi siamo qui: il solo modo di combattere concretamente, qui, i nostri nemici, in questo paese divenuto il secondo venditore di armi al mondo, è di rifiutare un sistema che, in nome del profitto irresponsabile, produce ovunque maggiori ingiustizie. Perché la violenza di un mondo che quattordici anni fa Bush junior ci prometteva riconciliato, pacificato, ordinato, non è stata pensata da Bin Laden o dal Daesh. Cresce e prolifera sulla miseria e le ineguaglianze di cui, anno dopo anno, i rapporti dell’ONU evidenziano la crescita, tra i paesi del Nord e del Sud e all’interno dei cosiddetti paesi ricchi. L’opulenza degli uni ha come controparte lo sfruttamento e l’oppressione degli altri. Non si può arrestare la violenza senza attaccare le sue radici. Non ci sono scorciatoie magiche: le bombe non lo sono.

Quando sono scoppiate le guerre di Afghanistan e Iraq, le nostre mobilitazioni sono state imponenti. Affermavamo che quegli interventi avrebbero seminato cecità, caos e morte. Avevamo torto? La guerra di François Hollande avrà le stesse conseguenze. Ci dobbiamo subito attivare contro i bombardamenti francesi che accrescono il pericolo e contro le derive liberticide che non risolvono niente, ma eludono e negano le cause dei disastri. Questa guerra non verrà fatta in nostro nome.

 
Primi firmatari: Ludivine Bantigny, storica, Emmanuel Barot, filosofo, Jacques Bidet, filosofo, Déborah Cohen, storica, François Cusset, storico des idées, Laurence De Cock, storica, Christine Delphy, sociologa, Cédric Durand, economista, Fanny Gallot, storica, Eric Hazan, Sabina Issehnane, economista, Razmig Keucheyan, sociologo, Marius Loris, storico, poeta, Marwan Mohammed, sociologo, Olivier Neveux, storico dell’arte, Willy Pelletier, sociologo, Irène Pereira, sociologa, Julien Théry-Astruc, storico, Rémy Toulouse, editore, Enzo Traverso, storico.

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Appello pubblicato su [url”Libération”]http://www.liberation.fr/planete/2015/11/24/a-qui-sert-leur-guerre_1415808[/url]

Traduzione di Flavia Vendittelli

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