Jihad è una parola sola. Ma tantissime sono le interpretazioni e tra queste, sicuramente, una delle più suggestive e che ha maggiore presa tra le “masse” islamiche è quella di al-Souri, uno degli ideologi di al-Qaeda, che nel suo saggio Invito alla resistenza islamica mondiale ha integrato e puntualizzato le teorie di Ayman al-Zawahiri, soprattutto spiegando quello che potremmo definire il ruolo delle avanguardie, in attesa del risveglio della umma, fino ad ipotizzare – non senza qualche contraddizione rispetto all’impianto rigidamente integralista – una qualche forma di alleanza con formazioni guerrigliere anche di estrema sinistra, in funzione antimperialista o antiamericana.
Siamo in presenza di una nuova guerra mondiale, sostiene al-Souri. In questo concordando, pur dal fronte opposto, con i consiglieri “neocons” di George W. Bush, i quali parlano della quarta guerra mondiale, seguita alla terza, ossia alla guerra fredda.
Afferma al-Souri in apertura del saggio: «Questo libro è dedicato agli uomini pronti a difendere la religione di Dio e ai musulmani indifesi di tutto il mondo. Oggi assistiamo all’assalto barbaro più violento della storia per mano della civiltà occidentale e queste terze crociate non sono altro che il proseguimento delle due passate». Parole gravi e impegnative, in linea con lo spessore politico del personaggio: Omar Abdulhakim Abu Mous’ab al-Souri, il cui vero nome è Mustapha Setmariam Nassar. Un siriano e jihadista della prima ora che ha seguito il percorso battuto da tanti arabi durante gli ultimi due decenni combattendo in Afghanistan e partecipando al jihad contro i sovietici; prima ancora aveva però aderito alla società dei Fratelli musulmani in Siria e aveva vanamente contrastato il regime ba’atista di Hafez al-Asad.
Negli ultimi anni al-Souri ha speso gran parte del suo tempo scrivendo Invito alla resistenza islamica mondiale, una sorta di summa idelogico-storica che serve anche da manuale operativo al servizio del jihad globale (o Total jihad come è stato definito dal primo “telegiornale” di al-Qaeda, andato in onda lo scorso 26 settembre) e dei suoi militanti. Il libro, come tiene a precisare lo stesso autore, è «il frutto di un lavoro decennale, scritto dal 2001 in poi dai vari rifugi in cui mi sono trovato. Nel 2005 uscirà una nuova edizione». L’edizione qui esaminata è quella del 2004 ed è ovviamente rivolta all’intera umma, la comunità islamica.
Nel testo, di ben 1256 pagine, fin dalle prime righe si pone l’accento sulla svolta rappresentata dalla data dell’11 settembre del 2001, dall’attacco al World Trade Center di New York e al Pentagono: «Una data che ha segnato l’inizio di una vera guerra mondiale». Da una parte la comunità islamica, dall’altra i crociati e i sionisti guidati dal presidente statunitense George W. Bush. Crociato è uno dei termini cui si fa più ricorso, crociato è il programma di Bush per il prossimo decennio: «Cambiare la cartina geografica del Medio Oriente e del mondo arabo e musulmano; sfruttare gli scontri etnici e politici già in corso; sostituire l’identità culturale e di pensiero con quella occidentale; impossessarsi delle ricchezze naturali e umane della regione». Questo il programma che George W. Bush starebbe portando avanti, col pieno sostegno dei governi arabi e musulmani corrotti e dei loro apparati. Tant’è che sul banco degli accusati ci sono anche gli ulema, gli uomini di religione, considerati «la disgrazia più grande», per i loro continui inviti a una pacifica convivenza, a un dialogo in nome di un islam moderato.
Per al-Souri non esiste un islam moderato, esiste un solo islam ed esiste una sola agenda da seguire ovvero quella del jihad globale: «È necessario un programma di lavoro per salvaguardare l’identità religiosa, di pensiero e culturale del mondo arabo-islamico; occorre un programma di lavoro per la diffusione di testi di pensiero al fine di attivare in maniera pacifica una propaganda politica e di informazione; occorre un programma di testi sull’identità jihadista, che comprenda aspetti educativi e moduli di addestramento e di scienza militari con lo scopo di lanciare la resistenza musulmana mondiale».
Il jihad deve fare riferimento al proprio intrinseco significato: uno sforzo lungo la via di Dio, uno sforzo che deve essere del singolo, ma che deve interessare anche la comunità nella sua interezza. «Solo con il jihad armato la umma potrà vincere» e come simbolo di questa resistenza si invitano i musulmani a liberare i luoghi sacri alla religione. «La chiave di lotta dovrà basarsi su tre aspetti importanti: quello religioso con la liberazione della Mecca, di Medina e di Gerusalemme; quello politico, cacciando gli occupanti stranieri; e quello economico, riappropriandosi delle ricchezze che gli altri paesi ci stanno rubando».
Il jihad, dunque, così come considerato da al-Souri, è esclusivamente una guerra di difesa contro i soprusi dell’Occidente, contro forze straniere occupanti e contro i regimi arabo-musulmani corrotti. In questo senso, si rimanda implicitamente alla storica ripartizione fatta dalla religione islamica tra dar al-islam, territorio retto da un governo islamico, e dar al-harb, territorio retto da un governo di infedeli. Tra questi due mondi esiste un conflitto perenne nel corso del quale sono ammesse soltanto delle tregue fino all’inevitabile vittoria dell’islam. Una vittoria – è importante sottolineare – che non sottintende una conversione degli infedeli, ma una loro sottomissione politica. In questo conflitto il piccolo jihad è la risposta della umma o del singolo individuo a un attacco esterno proveniente dal dar al-harb oppure è la lotta per imporre la parola di Dio nelle zone non musulmane. Nel caso dei conflitti – o stati di guerra – in Cecenia, Afghanistan e Iraq i qaedisti e gli altri gruppi del terrorismo islamico tengono quasi sempre a precisare che il loro è un jihad difensivo contro quelle che sono considerate ingerenze straniere all’interno della umma; una strategia, questa, volta a ottenere più ampio credito, maggiore legittimazione e maggiore seguito.
L’analisi di al-Souri fa ovvio riferimento a questi elementi propri della tradizione islamica e sui quali peso fondamentale hanno le interpretazioni che se ne possono fare. Il conflitto con l’America diviene così un conflitto pan-islamico contro una coalizione crociata e sionista; e una delle priorità diviene la ricerca delle cause che hanno determinato la vittoria statunitense in Iraq e in Afghanistan subito dopo l’11 settembre.
Alla base di quelle vittorie, secondo al-Souri, ci sarebbero state l’impiego di forze locali, l’isolamento del paese attaccato, lo strapotere bellico nemico, ma anche «la predisposizione a commettere massacri contro i civili, l’unilateralismo, la trasformazione dei popoli musulmani in semplici e impotenti spettatori costretti da governi e ulema a restare fuori dalla lotta e dall’azione».
Al-Souri parla senza mezzi termini di sconfitta del jihadismo di fronte all’America, ma delinea possibili contromosse e soluzioni per fronteggiare un avversario rivelatosi più forte sul campo di battaglia globale.
Nella sostanza, il filo conduttore di quello che può essere a buon ragione definito un completo manuale di jihadismo (che include anche “consigli” sull’addestramento militare) è uno: la sconfitta dei jihadisti deve servire da lezione, la lotta deve continuare e l’unico modo per farlo è attraverso la formazione di piccole cellule segrete di guerriglia in attesa che la umma intera si svegli dal suo torpore e prenda parte alla difesa contro la guerra di civiltà voluta da Bush. «Stiamo attraversando momenti difficili, ma ben presto Dio ci porterà alla vittoria fino ad espugnare Roma, come è stato annunciato dal profeta». In questo senso – con tutti i distinguo – la dottrina politico-militare non sembra differire troppo da quella di molti gruppi rivoluzionari di estrazione marxista-leninista, i quali hanno sempre sottolineato l’importanza delle avanguardie per trasformare la lotta di classe in guerra di classe.
L’analisi di al-Souri, c’è da aggiungere, è molto sobria. Tuttavia non mancano invettive contro i capi di Stato occidentali e gli ulema “governativi” («quel ciccione dell’imam al-Sedais…»), i leader arabi, in particolare quelli sauditi.
Accanto alle accuse più propriamente politiche, ci sono poi le accuse legate direttamente al malcostume (ossia alla laicizzazione della società) e alla corruzione degli apparati burocratici: «La umma è segnata oggi da una grande corruzione che riguarda tutti i settori della vita quotidiana. L’occupazione straniera ha fatto nascere nuove correnti laiche e, nonostante l’indipendenza, i governi musulmani continuano a sottostare ai vecchi colonizzatori. Non si governa inoltre secondo i canoni della shari’a con la scusa che essa non è adatta ai nostri tempi moderni e che è anzi causa dell’arretratezza dei musulmani».
L’occupazione di Iraq e Afghanistan, insieme alla questione palestinese, sono temi ricorrenti nella casistica di al-Souri che però allarga notevolmente lo spettro del suo discorso considerando in realtà occupati la quasi totalità dei paesi arabi e musulmani. «Indirettamente il mondo musulmano è occupato attraverso la diffusione di basi militari, di uffici dei servizi segreti (ci sono 23 uffici della Fbi a Riad, in Oman, in Sudan, in Tunisia, in Marocco…) e peggio ancora attraverso la occidentalizzazione dei musulmani mediante i mezzi di comunicazione, i programmi educativi e di insegnamento, appellandosi ai diritti dell’uomo e all’emancipazione della donna». Un quadro che rientrerebbe in un più ampio disegno americano, all’interno del quale l’occupazione dell’Iraq rappresenta solo un primo passo: «Ci sono progetti per dividere la Siria, l’Egitto, l’Iraq, l’Arabia Saudita, la Turchia, l’Iran e occupare il Pakistan». Secondo l’analisi di al-Souri, dunque, si è di fronte a delle vere e proprie crociate. Nello stesso tempo nel testo vengono formulate critiche anche nei confronti di paesi rimasti neutrali in merito all’occupazione dell’Iraq: «In questo clima la Cina, la Francia, la Germania e la Russia hanno spesso assunto posizioni moderate, ma in realtà si tratta di commedie diplomatiche perché anche loro si aspettano una porzione della torta musulmana che l’America ha il compito di dividere».
La legalità del jihadUna delle preoccupazioni di al-Souri, è dimostrare che il jihad invocato dai fondamentalisti è legale. E la questione della legalità riaffiora spesso nel testo, sia per negare legittimazione agli attuali governi arabi, sia per richiamarla quando si tratta di giustificare l’azione jihadista. Cinque i motivi che legalizzerebbero il jihad: la terra musulmana è direttamente o indirettamente occupata dagli infedeli; i governi dei paesi musulmani sono apostati e lontani dai fondamenti della religione; un musulmano non è tenuto a obbedire a un apostata; i princìpi della shari’a islamica affermano che chi collabora con gli infedeli contro i musulmani è apostata egli stesso e quindi da uccidere; la shari’a ammette l’uccisione di chi si oppone ai musulmani anche se musulmano.
La legalità non è un concetto secondario nel credo jihadista. Le stesse decapitazioni di ostaggi che di recente hanno rappresentato un fenomeno crescente in Iraq, sono comminate in seguito al giudizio di un gruppo di saggi che usano la shari’a (o meglio la loro interpretazione dei testi sacri e giuridici dell’islam) come unico metro di riferimento. La legalità rappresenta poi anche uno strumento utile a ribattere la propaganda di ulema e governi “corrotti”. Legalità contro illegalità, apostasia contro vera fede. Questo è il piano su cui si vuole spostare l’attenzione del lettore jihadista o apprendista tale. Da un lato si sottolinea la valenza difensiva di questo jihad, dall’altro si confronta la strada del jihad che porta alla vera fede e alla vera applicazione dell’islam con quella predicata dal mondo corrotto e blasfemo dei governi schiavi dell’Occidente e degli ulema vigliacchi.
In questo contesto, ricadono gli inviti ai militari a disertare: «Per quanto riguarda gli apparati militari e di sicurezza, abbiamo un gruppo che segue la politica del proprio governo perché convinto della legalità del proprio governo contro l’islam e i musulmani, e un secondo gruppo che invece combatte senza però condividerne la politica. Fanno parte del secondo gruppo il soldato ignorante, che ignora l’infedeltà del suo governatore e che non sa il vero motivo della guerra; quello costretto a svolgere tale lavoro contro la propria volontà; infine quello che combatte per accumulare denaro e ricoprire cariche più alte. Il soldato forzato a combattere deve lasciare l’esercito oppure rifiutarsi di combattere a costo di venire maltrattato, incarcerato o cacciato. È meglio scegliere di venire uccisi piuttosto che uccidere un musulmano. I soldati ai quali è ordinato di uccidere i musulmani, devono piuttosto uccidere con le proprie armi chi fa parte dei governi musulmani corrotti insieme ai loro capi americani e inglesi. Meglio morire da martire combattente che sporcarsi le mani con il sangue dei musulmani».
Inoltre, secondo al-Souri, in questo contesto di guerra non c’è più spazio per il dialogo, né per altra soluzione che non sia lo scontro e la resistenza armata. «I musulmani forse pensano che ricorrere a dibattiti televisivi oppure organizzare manifestazioni di protesta siano cose che possano sconfiggere queste nuove crociate. Oramai molti musulmani, volenti o nolenti, pregano l’America come fosse un dio. E l’America ha aperto nei nostri paesi diversi uffici per i suoi servizi segreti, ha sparso migliaia di soldati e ha anche il potere di intromettersi nella nostra politica interna designando nuovi governi ed esautorandone altri. (…) Noi crediamo che l’unica soluzione per fronteggiare le nuove crociate è la resistenza musulmana armata mondiale che ci porterà con la volontà di Dio alla vittoria finale. I popoli arabi e musulmani non hanno più speranza nelle filosofie, nelle ideologie e nelle correnti di pensiero locali e straniere che non guardano all’islam come unica soluzione per affrontare il nemico».
Gli esempi ripresi più spesso per sottolineare la possibilità di successo del jihad sono la lotta contro il colonialismo – considerata una «lezione positiva» – e le esperienze di jihad sperimentate più di recente nei Balcani, nel Caucaso e in Asia. «Durante il colonialismo, popoli musulmani e stranieri sono riusciti a ottenere la propria indipendenza grazie alla resistenza popolare e alla lotta armata. Ci sono esempi straordinari nella storia passata di paesi come il Marocco, l’Algeria, lo Yemen, l’Iraq (… ) Oggi poi possiamo parlare delle grandi vittorie dei jihadisti in Bosnia, Afghanistan e Cecenia. Nelle nostre trascorse battaglie contro l’America in Afghanistan, Somalia e Iraq (ultima guerra del Golfo) abbiamo visto che gli americani non sono in grado di sopportare uno scontro diretto e che per questo motivo si avvalgono del sostegno di governi musulmani rinnegati. Sono invece capaci di seminare morte e distruzione lanciando bombe sulla testa di civili innocenti. I loro alleati della Nato sono invece più deboli in campo sia militare che economico e sociale. La lotta armata è legale, possibile e porterà a risultati sicuri se Dio vuole. Per questo motivo tutti i musulmani devono partecipare alla resistenza che sarà guidata da ulema e da capi del risveglio musulmano; si tratta della battaglia dell’intera umma e non di un solo gruppo».
Le terze crociateLo scontro appare ormai inevitabile tra due culture differenti e incapaci di coesistere. E nella sua propaganda anti-americana al-Souri assegna proprio al nemico la colpa di aver innescato il conflitto parlando per primo di scontro di civiltà: «Oggi si può paragonare l’America a Caino che prima di uccidere il fratello gli dice “ti ucciderò”. Essa si fa portavoce della teoria dello scontro di civiltà, secondo la quale sulla terra non possono coesistere civiltà in contrasto tra di loro, ma che solo una alla fine resterà. La civiltà occidentale dovrà senza ombra di dubbio entrare in uno scontro assoluto con quella musulmana e Bush ha dichiarato che Dio lo ha scelto alla guida di queste crociate dopo averlo salvato dalla droga e dall’alcol!».
In questa prospettiva nel suo libro, al-Souri parla di terze crociate e nella sua analisi storica individua le prime due nelle crociate medievali (dal 1050 al 1291) e nel periodo del vecchio colonialismo (dal 1800 al 1970). Nelle prime due la vittoria finale ha arriso ai musulmani, nelle terze invece – quelle definite del nuovo colonialismo – è stata la comunità cristiana insieme a ebrei e a governi musulmani corrotti a sconfiggere i movimenti del risveglio musulmano e dell’intera umma. Quattro sono le fasi nelle quali vengono fatte rientrare le terze crociate (1990-2003): la prima guerra contro l’Iraq (l’operazione “Tempesta nel deserto” per la liberazione del Kuwait nel 1991), i massacri contro i musulmani della Bosnia e del Caucaso (1994-1997), la distruzione dell’emirato dell’Afghanistan (2001) e infine l’occupazione dell’Iraq (2003). «Nella seconda metà del XX secolo la corrente jihadista entra in crisi profonda. La maggior parte dei capi pensava di aver imboccato un vicolo cieco. Molti tentativi jihadisti erano falliti e parecchie associazioni erano state sciolte. Gli attivisti rimasti in vita erano dispersi per il mondo e costretti a vivere in rifugi segreti. Tre furono le soluzioni proposte: arrendersi e consegnare le armi sull’esempio di quanto fatto dai Fratelli musulmani siriani in seguito alla tragedia di Hama ; proseguire il jihad dal momento che in molti, compresi quelli che hanno combattuto in Afghanistan accanto ai talebani, vedono nella saldezza di intenti un dovere sharaitico; dirottare i propri sforzi a un livello internazionale per cacciare l’America e suoi alleati». Quest’ultimo punto è quello di maggiore interesse, perché è quello fatto proprio dall’ideologia qaedista. Nell’universo ideologico della rete terroristica creata da Bin Laden, l’America è la testa del serpente la cui eliminazione porterà automaticamente alla distruzione dei governi musulmani corrotti. Sconfiggendo gli Stati Uniti si creerebbero le basi ideali per la costituzione di governi fondati sull’islam “vero”.
Nel testo sono anche indicati con precisione tutti i limiti entro i quali deve svilupparsi la strategia jihadista. Anzitutto l’azione violenta non deve essere fine a se stessa, ma deve rispondere a precisi criteri. Così, accanto agli appelli a combattere il diavolo americano, i suoi alleati, i governi miscredenti e apostati, c’è anche il richiamo a riconoscere i diritti delle etnie non musulmane che abitano in paesi musulmani a meno che queste non collaborino con il nemico. Preciso il riferimento allo status di dhimma (protetto) che l’islam assicura da sempre alla “gente del Libro” (ahl al-Kitab), ovvero a cristiani ed ebrei che vivono all’interno del dar al-islam e che possono mantenere la propria fede dietro pagamento di un tassa (jizya).
Lunga, appassionata e carica di ironia è poi anche la parte dedicata alla descrizione delle democrazie occidentali, considerate semplicemente una commedia. Il gioco della democrazia (e quindi di maggioranza e minoranza) è criticato nella maniera più assoluta e ritenuto inapplicabile rispetto ai princìpi dell’islam e della shari’a. Passando in rassegna le esperienze di partiti islamici che hanno partecipato alla vita politica e alle elezioni, l’autore trae la conclusione che in qualsiasi paese arabo o musulmano dove si terrebbero vere elezioni democratiche, i partiti islamici vincerebbero conquistando la maggioranza delle preferenze, come era accaduto in Algeria. «L’Occidente è però deciso a ostacolare la partecipazione degli islamici alla vita politica e a impedire loro di arrivare a formare gruppi di potere nell’esecutivo, nel legislativo e nel giudiziario. Per realizzare tale scopo, l’Occidente è pronto a organizzare colpi di Stato politici e militari. (…) La democrazia è una filosofia che è in opposizione ai princìpi della fede islamica. Essa lascia al cittadino la libertà di credo e di pensiero; ciascun cittadino può credere in quello che vuole oppure non credere, secondo le proprie inclinazioni personali. Nell’islam invece l’uomo non è libero di rinnegare Dio perché diverrebbe apostata e quindi, secondo la shari’a, meritevole di essere ucciso». E ancora: «La democrazia si basa sull’uguaglianza assoluta tra gli uomini senza distinzione di razza, di colore, di religione o di altro. Il concetto di uguaglianza nell’islam si basa sul grado di fede che ogni persona ha, sulla correttezza dei suoi comportamenti, sul timor di Dio».
La teoria politica dell’invito alla resistenza musulmana mondialeIl sistema islamico vede nella politica una delle tante attività dell’uomo regolate dalla shari’a. La resistenza teorizzata da al-Souri, ovvero la lotta contro le forze colonizzatrici, è un’attività politica in cui le operazioni di jihad armato hanno la funzione di realizzare un legittimo scopo politico, quale è la cacciata dell’occupante, e l’istituzione di un governo musulmano. Resistenza che richiede la conoscenza delle strategie e delle forze del nemico: «Bisogna conoscere la natura delle crociate americane, così come gli scopi e i mezzi. L’America vuole cambiare i lineamenti della religione musulmana, intende allontanare i musulmani dalla loro fede per avvicinarli a un modello di islam laico americano. (…) Ma nelle strade cresce il clima rivoluzionario anche grazie ai mezzi di comunicazione, ai canali di informazione e a quelli satellitari che giocano un ruolo importante e straordinario nello scambio di notizie e di idee. Si può dire che il clima è promettente, l’importante è saper controllare la situazione per non entrare in un disordine totale».
Se la lista dei nemici del movimento jihadista è chiara, esaminando la lista dei potenziali alleati e di quelle realtà che, pur non essendo alleate e non avendo nulla da condividere con il jihad, presentano degli aspetti considerati utili alla causa degli islamismi, si manifesta una inattesa propensione “movimentista” dell’ideologo jihadista: «Gruppi di sinistra occidentali, gruppi nazionalisti e forze di liberazione del terzo mondo, partiti verdi e nazionalisti occidentali, organizzazioni per la difesa dei diritti dell’uomo e istituzioni non governative in Occidente, organizzazioni militari segrete di sinistra come l’Esercito rosso giapponese e i baschi dell’Eta, istituzioni e organizzazioni americane e personalità contrarie alla politica espansionistica del loro governo». Tutti questi movimenti, partiti e organizzazioni dovrebbero – secondo al-Souri – essere oggetto della propaganda jihadista con un preciso programma politico e di informazione. «In questo clima conflittuale ci sono ancora paesi neutrali che bisogna portare dalla nostra parte. La Cina, diversi paesi asiatici e africani e una grande parte dei popoli occidentali odiano l’America, ma non hanno ancora capito gli scopi e il programma della resistenza. La resistenza prevede un conflitto armato e senza un lavoro politico e informativo tutti gli sforzi militari andranno a vuoto». In altri termini, così come fanno molti rivoluzionari occidentali che distinguono tra piano politico e piano ideologico (soprattutto nell’ipotizzare alleanze tra comuniste e anarchici) anche al-Souri sembra operare una distinzione “tattica” tra il piano politico e quello ideologico che, in questo caso, si identifica con il piano religioso.
Ad ogni modo, le principali direttrici di resistenza devono essere militari, politiche, mediatiche, civili (manifestazioni e altre forme di protesta), passive (interruzione di qualsiasi tipo di rapporto con il nemico) e infine culturali (per rafforzare l’identità religiosa e culturale arabo-musulmana).
Tra i potenziali “alleati”, al-Souri – cadendo a volte in contraddizione con quanto affermato in altri passi del volume – vede l’Europa e ne spiega i motivi: «Noi crediamo che la guerra dell’America contro i musulmani vada contro gli interessi europei. È nell’interesse della resistenza dare la possibilità ai principali paesi europei di ritirarsi dalla coalizione americana in modo pacifico ed è importante chiarire che noi lottiamo contro i governi aggressori e non contro le popolazioni europee che hanno invece assunto ottime posizioni nei confronti del nemico americano». Di tutt’altro tono invece le parole riservate agli americani: «Sfortunatamente le statistiche dimostrano che il popolo americano, servo dei mezzi di informazione degli ebrei, continua a sostenere in maggioranza Israele e la politica ostile dei suoi governi rispetto al mondo musulmano. Nonostante l’Iraq non abbia mai avuto armi di distruzione di massa, nonostante gli scandali di Abu Ghraib, i crimini di Israele, i crimini dei soldati statunitensi in Afghanistan, il popolo americano ha scelto e votato il maiale Bush dichiarando di voler stare a fianco del loro presidente nella guerra contro i musulmani. Per questi motivi crediamo che bisogna far assaggiare a questo popolo criminale le offese che hanno subito altri popoli come gli abitanti originari dell’America, le vittime dei massacri nucleari durante la seconda guerra mondiale e quelle delle guerre in Vietnam, Corea, Iraq, Somalia, Afghanistan (…) Le forze di pace in America devono assumersi la responsabilità di frenare il governo anche con l’uso di armi, altrimenti toccherà alle popolazioni offese respingere quest’ostilità usando tutti i mezzi possibili, impiegando anche le armi di distruzione di massa e attuando una politica di sterminio e di uccisione di civili. Ciò è quanto viene fatto dagli americani che devono essere proprio per questo motivo sottomessi agli stessi maltrattamenti da loro compiuti».
Il terrorismo è così considerato strumento utile per rispondere all’occupazione del suolo arabo e ai soprusi perpetrati contro le popolazioni arabo-musulmane. Quasi ovvio che a questo punto l’autore si soffermi sugli attentati di Madrid dell’11 marzo del 2004, avvenuti poco prima delle elezioni parlamentari che segnarono la vittoria dell’attuale premier spagnolo Luis Zapatero. «Lungo il corso della storia il terrorismo è stato un mezzo efficace per sottomettere i nemici. Oggi, in seguito agli attentati di Madrid, il governo spagnolo ha ritirato le sue truppe dall’Iraq. E lo stesso ha fatto l’Honduras».
Terrorismo e resistenza vanno dunque di pari passo e gli obiettivi dell’uno sono funzionali a quelli dell’altro. Obiettivi strategici e militari: nella lista di possibili target per attentati si va dalle principali personalità politiche “alla guida delle crociate”, alle infrastrutture e ai sistemi di comunicazione; ai centri informatici, alle istituzioni riconducibili a entità ebraiche, a sedi istituzionali e a resort turistici. Tra gli obiettivi sono anche i civili: «Bisogna colpire i civili per incutere timore e per ritorsione. Occorre però evitare le donne e i bambini. Bisogna affondare le navi americane e alleate, con azioni suicide o con atti di pirateria. Devono morire nello stesso modo in cui muoiono i nostri bambini e le nostre famiglie; devono assaggiare la fame e sentire la crisi economica. Dobbiamo far capire ai nostri popoli con dichiarazioni e con l’informazione che sopportare la guerra e le perdite economiche temporanee serve per non perdere del tutto la nostra civiltà, le nostre ricchezze e la nostra religione». Questi ultimi concetti – che già si trovano in alcuni dei discorsi di Osama Bin Laden – rappresentano la linea-guida del possibile attacco all’Occidente: indiscriminato e contro gli inermi. Come la dottrina qaedista sostiene da tempo e come ultimamente lo stesso al-Souri sostiene con grande vigore.