Romero, 33 anni dopo c'è la svolta del Papa
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Romero, 33 anni dopo c'è la svolta del Papa

Bergoglio sblocca la causa di beatificazione, ma è da riscrivere tutta la storia della Chiesa negli anni delle dittature. Le responsabilità di Wojtyla e Paolo VI

Romero, 33 anni dopo c'è la svolta del Papa
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23 Aprile 2013 - 18.12


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di Francesco Peloso

Jorge Mario Bergoglio ha deciso di sbloccare la causa di beatificazione di Oscar Arnulfo Romero, l’arcivescovo di San Salvador ucciso dai militari il 24 marzo del 1980. In questi termini la notizia è stata data dallo stesso postulatore della causa, cioè la personalità incaricata di seguire il processo e di sostenerlo, il vescovo Vincenzo Paglia della Comunità di Sant’Egidio.

‘Sbloccare’ ha detto Paglia, un’espressione scelta non per caso, evidentemente, a significare che proprio quella, fra le centinaia di cause di beatificazione che continuavano a passare al vaglio della Congregazione delle cause dei santi, era ferma da tempo, arenata su un binario morto.

Romero è il simbolo di una Chiesa che si oppose con la non violenza ma con estrema decisione alle dittature che insanguinarono l’America Latina fra gli anni ’70 e gli anni ’80, quelli in cui la Santa Sede decideva intanto di combattere senza esclusione di colpi la guerra fredda. Il nemico era ad oriente, da Berlino ovest in avanti, e l’elezione di Giovanni Paolo II suggellò quella scelta di campo. Wojtyla fu pontefice politico per eccellenza e ha molti meriti che non vanno dimenticati soprattutto nell’ambito del dialogo con l’ebraismo e l’Islam, una visione che si rivelerà profetica dopo gli attentati delle Torri Gemelle del 2001. E tuttavia fu ferocemente anticomunista, lui che veniva da un Paese d’oltrecortina, ma ben presto trasformò l’opposizione ai regimi dell’est, in una visione ideologica integralista che finì col mettere nello stesso calderone ogni movimento di liberazione sospettato di avere qualche simpatia di sinistra.

Erano gli anni in cui in America Latina la repressione dei militari – spesso sostenuti dai settori più reazionari delle gerarchie ecclesiastiche – metteva a tacere ogni esperienza di cambiamento nel cono sud. Sindacalisti, attivisti per i diritti umani, dirigenti politici, furono le vittime principali di questa politica, prima ancora che i movimenti guerriglieri o di lotta armata.

Le guerriglie che infiammarono la regione furono spesso utilizzate dalle polizie dei diversi Paesi come motivazione per dare il via a strette autoritarie feroci: è il caso della stessa Argentina, ma anche del Cile, dell’Uruguay, del Brasile. In America centrale tuttavia l’attività dei militari e degli squadroni della morte fu particolarmente spietata perché traeva ulteriore impulso da una spinta razzista che vedeva negli indios e nei campesinos componenti sociali incapaci di accettare il modello di sviluppo e sfruttamento occidentale e quindi da considerarsi alleati naturali e irredimibili degli oppositori. Inoltre le piccole repubbliche dell’istmo centroamericano venivano trattate dalle amministrazioni di Washington e da quelle guidate da Ronald Reagan in modo specifico, una sorta di protettorato nordamericano. Sono gli anni della rivoluzione sandinista in Nicaragua, dei preti della teologia della liberazione, di una Chiesa che invoca giustizia sociale e diritti a fronte di diseguaglianze e violenze crescenti. Settori minoritari del clero sceglieranno di appoggiare direttamente la lotta armata, un’opzione che di fatto accelerò e intensificò la repressione contro la Chiesa di base.

Come ha spigato di recente Leonardo Boff, esponente storico della teologia della librazione, l’idea che i preti di quella stagione storica fossero tutti dei marxisti, è una rappresentazione della teologia liberazionista caricaturale che faceva comodo alle dittature. In realtà si coniugava il messaggio evangelico a nuove forme di organizzazione di vita nelle comunità, costruendo esperienze di condivisione e solidarietà che avevano come tema centrale quello della ‘conversione’ a modelli sociali alternativi (più che il principio della lotta di classe); ciò naturalmente non toglie che spesso quella Chiesa si trovò a fianco di movimenti sindacali e organizzazioni impegnate sui temi dei diritti civili e sociali. La brutalità della violenza dei militari fu sconvolgente, la tortura divenne strumento di governo in diversi Paesi. La Chiesa si spaccò anche in Salvador dove alcuni vescovi contestarono l’impegno di Romero in favore dei poveri.

In queste settimane il Papa sta compiendo passi concreti per curare almeno in parte le ferite di quella stagione, anche perché egli stesso viene da un Paese che ha sofferto enormemente a causa della dittatura. Le madri le nonne di plaza de mayo, le due organizzazioni che si battono contro i crimini della dittatura argentina, hanno aperto un dialogo importante con Francesco. Il vescovo di Roma ha risposto alle loro richieste, ha ricambiato inviti e, così facendo, ha spalancato una porta che per troppi decenni era stata chiusa a doppia mandata dalla Santa Sede. Romero, lungi dall’essere un simbolo di parte, come hanno fatto credere a lungo i cardinali latinoamericani di destra di cui si era circondato Giovanni Paolo II, è figura ancora popolarissima fra la gente dell’America Latina. Il suo martirio è conosciuto e il suo sacrificio segno di speranza. Alla Chiesa resta però il compito di fare chiarezza su quella stagione, sull’operato di Paolo VI e di Giovanni Paolo II; sull’azione dei loro nunzi, sulle scelte, sui silenzi, le complicità, i martiri.

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