Bosnia, la jihad islamica cresce con la crisi

L'allarme dall'ultimo rapporto dell'International Crisis Group: povertà e frustrazione diffusa nella federazione spingono sempre più musulmani ad abbracciare la Jihad.

Bosnia, la jihad islamica cresce con la crisi
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5 Marzo 2013 - 10.57


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Da tempo media e organizzazioni locali e internazionali mettono in guarda l’opinione pubblica sull’ondata di “islamizzazione” che sta colpendo la Bosnia, secondo molti esperti il Paese sta diventando terreno fertile per la formazione e l’addestramento di cellule terroristiche che, seppur frammentate, sono ormai radicate in molte zone della Bosnia. Anche se vari analisti frenano sull’urgenza della minaccia rappresentata dalla crescita del fondamentalismo islamico, la scorsa settimana l’International crisis group (organizzazione mondiale non-profit e non governativa) ha rilanciato l’allarme pubblicando una lunga relazione sull’argomento. Pur ricordando che le cellule wahabite (corrente integralista dell’Islam) sono piccole e frammentate, il rapporto avverte che hanno buon gioco nel crescere in Bosnia ed un’ampia analisi viene dedicata allo studio dei fattori che spingono molti bosniaci musulmani ad abbracciare la Jihad.

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Come sottolinea anche “Radio Free Europe” la frustrazione è facile preda della propaganda islamica più integralista e i musulmani della Bosnia in questo momento si sentono traditi dal loro stesso Paese e dal percorso “democratico” intrapreso insieme alla comunità serba e a quella croata. I bosniaci inoltre, a differenza degli altri due popoli costituenti, non ricevono alcun sostegno economico, politico o sociale da parte degli Stati vicini e sviluppano così un maggior senso di isolamento e distacco rispetto alla propria identità. Si comprende quindi come le teorie estremiste delle scuole wahabite attraggano molti bosniaci disgustati dalla democrazia e dalle istituzioni.

L’episodio che più ha fatto scattare il campanello d’allarme risale al 28 ottobre del 2011: Mevlid Jasarevic, un 26enne bosniaco, apre il fuoco dinanzi all’Ambasciata statunitense a Sarajevo. L’attentato non ha provocato per fortuna vittime (soltanto un agente è stato ferito lievemente) ma sul movente gli investigatori sono stati subito d’accordo: terrorismo islamico. Jasarevic esce infatti dalla comunità islamica wahabita radicata a Gornja Maoca, cittadina nel nordest del Paese, guidata da Nusret Imamovic, considerato dalla polizia come il principale propugnatore delle teorie fondamentaliste islamiche.

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In Bosnia, oggi, ci sono opinioni discordi sulla reale presenza dei wahabiti e sul loro impatto nella vita quotidiana dei cittadini, nessuno possiede dati su quanti siano i sostenitori del movimento che non ha alcun genere di organizzazione ufficiale o di leadership riconosciuta. Secondo un sondaggio condotto recentemente dall’Agenzia Prisma di Sarajevo, il 3% della popolazione bosniaca si dichiarerebbe “appartenente al movimento wahabita”. Altri sondaggi, condotti dalla stessa Agenzia, segnalano al contrario un atteggiamento “molto negativo” dei bosniaci nei confronti di questo movimento a cui sarebbe contrario il 70% della popolazione.

Le differenze più rilevanti tra wahabiti e i seguaci dell’Islam bosniaco tradizionale riguardano la pratica religiosa, e la questione della separazione tra la religione e lo Stato. Il problema principale, per i wahabiti, è quello del rispetto di leggi che non hanno nulla a che fare con la sharia. Gli aspetti più rilevanti, tuttavia, sono quelli esteriori. Gli appartenenti a questo movimento sono infatti molto riconoscibili in Bosnia: gli uomini portano generalmente barbe lunghe e indossano pantaloni corti (non devono toccare il terreno), mentre le donne, in modo assolutamente insolito per la regione, indossano una lunga tunica nera che copre tutto il corpo tranne gli occhi. Le donne inoltre non escono mai sole, né parlano con altri uomini se non alla presenza del marito o di un familiare. Da qualche tempo si vedono anche ragazze molto giovani vestirsi in questo modo e, in alcuni casi, anche bambine.

Le famiglie dei wahabiti sono solitamente numerose, a volte con 5 o 6 figli, a differenza del resto della popolazione che in generale ne ha uno o due. Le donne devono occuparsi della famiglia, non lavorano, e la loro esclusione dalla società è molto criticata dalle associazioni per i diritti civili. Secondo i seguaci del movimento in questo modo esse non sono discriminate ma protette, visto che l’emancipazione non ha portato loro felicità. Sui mezzi pubblici, nelle ore di punta, i mariti cercano di proteggere le mogli dal possibile contatto con i passeggeri. Questo atteggiamento irrita molto il resto della popolazione, specie nelle aree urbane, e non è raro assistere a insulti indirizzati ai wahabiti. Negli edifici religiosi, poi, i wahabiti si tengono solitamente in disparte ed escono dalla moschea dopo aver adempiuto alla cosiddetta parte obbligatoria della preghiera (il farz) mentre gli altri fedeli restano e sono quindi disturbati dalla confusione che si viene a creare.

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Ci sono inoltre molte controversie sul modo con cui la Comunità islamica ufficiale della Bosnia Erzegovina, guidata fino all’estate del 2006 dal Reis ulema Mustafa Cerić, ha affrontato la presenza wahabita. Molte critiche si sono indirizzate verso la superficialità con cui questo fenomeno sarebbe stato considerato. La pratica religiosa dei wahabiti ha creato infatti molte discordie tra i fedeli sia nelle campagne che in città, soprattutto nei casi in cui i primi hanno cercato di imporre ai secondi le proprie idee. Dopo alcuni incidenti avvenuti all’interno di edifici religiosi ed alcune prese di posizioni di esponenti wahabiti che criticavano pubblicamente l’Islam tradizionale bosniaco e i suoi rappresentanti, la Comunità islamica ha reagito emanando una risoluzione nella quale richiama i musulmani “alla saggezza e alla stabilità”.

La Comunità ha dichiarato non accettabile il comportamento di coloro che cercano di imporre il wahabismo decidendo che cosa corrisponde alla “vera” fede, molti tuttavia pensano che dovrebbe opporsi a questo movimento in maniera molto più determinata. Nel settembre 2008 si è verificato a Sarajevo un primo serio incidente che ha coinvolto un gruppo di wahabiti. Alcune associazioni della società civile sarajevese avevano organizzato il Queer Festival, una manifestazione artistica su tematiche di genere. Alcune decine di integralisti, insieme a un gruppo di hooligans, hanno attaccato fisicamente gli ospiti del festival e i giornalisti presenti alla serata inaugurale all’Accademia, nel centro della città. L’aggressione ha avuto una grande eco nel dibattito pubblico cittadino, anche per la reazione incerta delle forze dell’ordine, che non sono riuscite a evitare diversi feriti tra coloro che volevano partecipare alla mostra. Buona parte dell’opinione pubblica di Sarajevo, inoltre, è rimasta sconcertata per la mancata reazione della Comunità Islamica, che non ha condannato esplicitamente l’azione.

Nel luglio del 2010, a Mostar, è avvenuto un secondo incidente. Alcuni giovani, che erano seduti al bar vicino a una moschea, sono entrati in contatto con un gruppo di wahabiti che tornava dalla preghiera. Ne è seguita una rissa furibonda. 5 giovani sono rimasti feriti e un wahabita, Magdy Dizdarević, di 35 anni, che peraltro secondo i procuratori non aveva partecipato agli scontri, è stato ucciso. Diverse persone sono state arrestate, e le indagini non si sono ancora concluse. Alcuni osservatori locali ritengono che la minaccia rappresentata da questo movimento sia più seria di quanto appaia specie sotto il profilo della potenziale imposizione di una diversa visione religiosa al resto dei musulmani bosniaci. L’ideologia wahabita è radicale, aggressiva, e questo può costituire un problema in una società in cui le relazioni tra i tre principali gruppi nazionali sono ancora delicate.

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I problemi economici legati alla transizione, inoltre, e la nuova ricerca di spiritualità, sono fattori che giocano a favore dei wahabiti. Secondo le testimonianze riportate da alcuni aderenti al movimento, ci sarebbero premi in denaro per chi sceglie di unirsi ai wahabiti, il cui sostegno maggiore, in termini ideologici e finanziari, proverrebbe da persone o organizzazioni legate all’Arabia Saudita (ma non dalle autorità ufficiali di quel Paese). Utilizzare i simboli esteriori del movimento, in particolare l’abbigliamento delle donne, potrebbe fruttare tra i 200 e i 500 euro mensili. Queste illazioni, emerse a più riprese nel dibattito pubblico, non hanno però mai ricevuto una conferma ufficiale. E’ molto raro infatti che oggi, in Bosnia Erzegovina, qualcuno abbia il coraggio di ammettere pubblicamente di essere un rappresentante del movimento wahabita, o anche solo di farne parte. La reticenza è naturalmente il frutto dell’attenzione recentemente dimostrata dalla Comunità internazionale.

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