Il tema della violenza sessuale come arma di guerra entra a pieno titolo nell’agenda del G8, che si svolgerà il 10 e 11 aprile prossimi a Londra. Di fronte al dilagare degli stupri sul fronte si è levata una voce forte e autorevole perché si avvii un rafforzamento dell’azione internazionale su questo atroce fenomeno. Ed è stato il governo britannico, per iniziativa del suo ministro degli esteri William Hague, ad avviare la campagna di informazione e sensibilizzazione Preventing Sexual Violence Initiative (PSVI), promossa dal Foreign Office nell’ambito della Presidenza britannica del G8 nel 2013.
Dalla Sierra Leone alla Bosnia, dalla Somalia al Congo così come in Ruanda e in Libia – e purtroppo oggi tragicamente anche in Siria – la violenza sessuale è stata, ed è usata per terrorizzare e distruggere intere comunità, per sottomettere donne e ragazze, ma anche uomini e bambini, alla schiavitù sessuale e al lavoro forzato. Oltre ai traumi fisici e psichici che lascia sulla pelle di quanti sopravvivono a tali atrocità, la violenza sessuale accentua divisioni etniche, settarie e di ogni altro genere, rafforzando conflitti e instabilità. Ma anche in questo campo le cose stanno spaventosamente cambiando: negli ultimi anni le violenze sessuali in territori di guerra sono aumentate a ritmi esponenziali e non è ancora ben comprensibile se ciò sia dovuto ad una loro recrudescenza o se la crescente attenzione sul fenomeno abbia scoperchiato un vaso i cui contenuti erano noti, ma non nella loro reale entità. A questo si aggiunge la volontà delle donne, decise ad uscire dal buio del silenzio e a raccontare le ferite inferte al loro corpo e all’animo proprio e dei loro familiari.
Le cifre non lasciano dubbi: in Bosnia tra il 1992 e il 1995 sono state stuprate circa 50mila donne, seguite poi da solo 30 condanne. In Sierra Leone la cifra oscilla tra 50mila e 64mila. Nel Nord Kivu (Repubblica Democratica del Congo), riferisce l’Unhcr, si stima vi siano 40 stupri al giorno. Durante il genocidio in Ruanda sono circa 400 mila gli stupri stimati, mentre in Liberia il 49% delle donne tra i 15 e i 70 anni ha denunciato di aver subito almeno una volta una violenza fisica o sessuale da un soldato o combattente (sono stati riscontrati casi. Purtroppo, anche tra le forze di peacekeeping). In Siria si sta svolgendo un conflitto terribile in cui crimini di questo genere vengono commessi al pari degli omicidi. E il dramma è che le proporzioni di questo orrendo fenomeno sono enormi almeno quanto il grado di impunità che lo circonda.
Al di là dei numeri e delle ragioni – sebbene siano entrambi di drammatica importanza – una cosa è certa: oggi la violenza sessuale perpetrata in ambito bellico viene utilizzata come una vera e propria arma di guerra contro la popolazione civile al pari di un kalashnikov o di un macete, tanto che le organizzazioni internazionali la indicano come una delle principali ragioni di fuga dai campi profughi. E il dato è confermato da chi ogni giorno è in contatto con questa realtà. Fabio Gianfortuna, psicologo di Medici Senza Frontiere, ha grande esperienza in Darfur. «Non solo la situazione è di gran lunga peggiore rispetto a dieci anni fa – dice Gianfortuna – ma c’è la precisa intenzione di rendere impossibile la vita nei campi profughi, tanto da costringere le popolazioni a fuggire nei Paesi limitrofi. E la violenza sessuale, perpetrata su intere famiglie, è uno dei sistemi utilizzati».
Una vera strategia politica, dunque, dove la maggior parte dei casi di violenza sessuale non è perpetrata dagli eserciti di occupazione, bensì dai gruppi in conflitto tra loro, con la chiara intenzione di distruggere, degradare, umiliare e terrorizzare le opposte fazioni politiche, o interi gruppi etnici e religiosi.
E perché anche in Italia vi sia una maggiore consapevolezza rispetto a questo fenomeno, l’ambasciatore britannico Christopher Prentice ha dato vita – nell’ambito della campagna avviata dal suo governo – alla costituzione di un gruppo di lavoro con il coinvolgimento dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr), di Roma Capitale (Dipartimento Pari Opportunità), delle associazione “Se Non Ora Quando” e “Avvocati Senza Frontiere” e ha organizzato a Roma un convegno-dibattito dal titolo “Fermiamo la violenza sessuale come arma di guerra”. Obiettivo di questa azione è la stesura di un documento/messaggio stilato dalla società civile italiana – frutto del confronto con esperti, Ong, media e università – con la collaborazione dell’ambasciata britannica, che verrà inviato all’attenzione dei ministri degli Esteri del G8 e che verrà presentato alla stampa in Campidoglio a metà marzo.
«Sia l’Italia sia il Regno Unito – ha affermato Prentice – in qualità di Paesi membri del G8 hanno la responsabilità di agire con l’obiettivo di consegnare alla giustizia chi commette queste atrocità. La campagna mira a sostituire la cultura dell’impunità con una cultura della consapevolezza e della deterrenza rispetto alla violenza sessuale come arma di guerra. Si tratta di un fenomeno finora troppo spesso ignorato, dimenticato o volontariamente trascurato, dai cittadini come dalla comunità internazionale».
A chiarire ulteriormente la strategia che il Regno Unito intende adottare per contrastare la violenza nelle zone di guerra è stata Jackie Upton del Foreign Office, che ha illustrato un piano che si basa su un doppio binario. Per quanto riguarda la parte pratica ci sarà un maggiore sostegno da parte del Regno Unito ai Paesi colpiti attraverso un team di 73 esperti (38 uomini e 35 donne), composto da dottori, psicologi, avvocati, poliziotti, specialisti di questioni di genere, che andrà a potenziare le risorse già disponibili. Il gruppo opererà in sei Paesi a forte rischio: lungo il confine siriano, in Libia, nel Sudan meridionale, nella Repubblica Democratica del Congo, in Mali e in Bosnia.
Dall’altra parte, nel periodo di presidenza del G8, il governo britannico si impegnerà a lavorare sui diritti delle donne, anche attraverso un protocollo internazionale che aumenterà la portata delle pene per chi commette questi reati e il sostegno psicologico e sociale per le vittime. «È necessaria una maggiore consapevolezza su questo tema – ha spiegato la collega Ann Hanna – È di sicuro importare il lavoro che stanno portando avanti le Ong, ma bisogna che si mobiliti anche l’opinione pubblica. Dobbiamo rompere il muro del silenzio e far in modo che gli interventi siano efficaci».
Tra i problemi individuati c’è anche la forte insufficienza del controllo internazionale sul fenomeno con scarsa qualità delle indagini e della documentazione. Altra questione, l’eterogeneità del modo in cui gli ordinamenti giuridici dei diversi Paesi trattano la materia. Per questo tra gli obiettivi fissati c’è anche quello di creare una rete stabile tra i Paesi del G8, per armonizzare le leggi sulla violenza sessuale e poi per creare sistemi efficaci e diffusi di sostegno e assistenza ai sopravvissuti.
Questo tipo di violenze oggi riguardano anche le persone che scappano dai conflitti, in particolare rifugiati e richiedenti asilo, di cui un terzo sono donne. «È necessario e urgente – ha affermato Francesca Paltenghi dell’Unhcr– valutare la questione di genere nelle procedure del riconoscimento della protezione internazionale ma anche nel processo di tutela e accoglienza». Secondo Paltenghi, inoltre, bisogna intensificare la presenza delle donne nei processi di pacificazione dei conflitti. «Le conseguenze di uno stupro sono fortissime per la vittima e la società, e in termini di stigma, proseguono anche una volta terminato il periodo bellico».
La rappresentante dell’Unhcr ha anche ricordato la convenzione del Consiglio d’Europa contro la violenza sulle donne e la violenza domestica, messa a punto a Istanbul nel maggio 2011, che ha tra i suoi principali obiettivi la prevenzione dei crimini, la protezione delle vittime e la perseguibilità penale degli aggressori, identificando – elemento importantissimo – il fenomeno come una “violazione dei diritti umani”. Per entrare in vigore la convenzione ha bisogno di dieci ratifiche. Sino ad oggi l’Italia, con la ministra Fornero, ha solo firmato la convenzione, si attende la ratifica da parte del nostro governo, sperando ormai in quello che arriverà.
Tornando al dibattito, anche il presidente di “Avvocati senza Frontiere”, Antonio Manca Graziadei, ha sottolineato come durante i conflitti le donne siano considerate «un’arma di guerra: in questi casi si stupra una donna per stuprare un’intera comunità, per questo molte volte questi crimini vengono commessi in pubblico», mentre per Nicoletta Dentico di “Se non ora quando” «è importante che il governo britannico abbia deciso di portare all’attenzione questo tema in un paese come il nostro, dove è in atto una vera e propria guerra contro le donne, basta vedere i dati allarmanti del femminicidio nel nostro paese».
Ci sarebbe ancora tanto altro da raccontare, ma concludiamo con l’auspicio dell’ambasciatore britannico a Roma Christopher Prentice: «Mi auguro che per il nuovo governo la violenza sulle donne usata come arma nei conflitti sia una priorità anche dopo le elezioni. Sono consapevole che per il nuovo governo ci saranno anche altre priorità ma spero che, all’interno del G8, ci sia una concreta partnership tra Londra e Roma sull’iniziativa».
E intanto l’8 marzo – come ha ricordato Lavinia Mennuni, delegata di Roma Capitale alle Pari Opportunità – il Colosseo si illuminerà a favore dei diritti delle donne e la giornata sarà dedicata proprio alla condanna della violenza sessuale come arma di guerra.
Al dibattito hanno partecipato, oltre all’ambasciatore Christopher Prentice, Ann Hannah e Jackie Upton – PSVI Team – UK Foreign Office, Francesca Paltenghi – UNHCR, Lavinia Mennuni – Roma Capitale, delegata alle Pari Opportunità, Nicoletta Dentico e Valeria Fedeli – SE NON ORA QUANDO, Antonio Manca Graziadei – Avvocati Senza Frontiere, Francesca Tei – Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Fabrizio Marcelli – Ministero degli Affari Esteri italiano, Titti Carrano – Donne in Rete. Ha moderato Francesca Paci – La Stampa.
In allegato (clicca qui sotto) il discorso del Ministro degli Esteri britannico, William Hague, tenuto a londra il 12 febbraio scorso alla presenza dei rappresentanti dei paesi del G8.