La vicenda degli italiani, per lo più provenienti dal Nord Est del paese, di Romania è una vicenda a suo modo esemplare del modo, sostanzialmente brutale, con il quale, nei paesi comunisti, si è tentato di negare il problema delle minoranze. Oggi, occorre tener presente che, secondo le stime più recenti, in Romania vivono circa 220 mila italiani: quasi tutti però, sono arrivati nei vent’anni successivi alla caduta del regime comunista. Accanto agli italiani di recente immigrazione, vi è però anche una piccola minoranza italiana storica, risalente alla fine dell’Ottocento e ai primi decenni del Novecento. Su questo tema è stato del resto pubblicato un libro recente, “Veneti in Romania” (Longo Editore, Ravenna, 2008), a cura di Roberto Scagno, docente di Letteratura Romana all’ateneo di Padova. A lui abbiamo chiesto di raccontarci la loro storia
“Si trattò inizialmente di un fenomeno che coinvolgeva piccoli gruppi, provenienti per lo più dalla Carnia e dal Bellunese, che si recavano in Romania secondo uno schema stagionale, tra l’inizio della primavera e la fine dell’autunno. Gruppi che lavoravano per la modernizzazione del paese, unificato nel 1866 ed estremamente arretrato. Tenga presente che l’80% della popolazione rumena all’epoca era impegnato nell’agricoltura, un’agricoltura molto arretrata. In parole povere, la Romania della seconda metà del XIX secolo era un paese dove si doveva costruire tutto, dalle ferrovie, agli edifici pubblici, alla stessa pavimentazione stradale”
In quali attività erano impegnati questi gruppi di immigrati?
“Come detto, molti tornavano poi a casa, non tutti si stabilivano in Romania, terminato il lavoro stagionale. In parte erano tagliaboschi, in parte, fedeli alla tradizione friulana, tagliapietre e scalpellini. Diversi finirono per aprire cave di granito nella Moldavia meridionale, per la pavimentazione delle città rumene. Poi, dal 1890 in poi, quest’immigrazione da stagionale si fece sempre più stanziale, o attraverso matrimoni misti, o perchè il governo di Bucarest, che era il committente, forniva buone condizioni per l’avvio di piccole attività imprenditoriali, specie in campo edilizio. Si pensa comunque che il numero massimo di residenti italiani in Romania non abbia mai superato le 12mila unità”
E comunque erano cattolici. Una presenza doppiamente minoritaria, etnica e religiosa, in un paese in gran parte ortodosso…
“L’assistenza cattolica, là dove erano presenti i gruppi più numerosi, a Iasi e nella Moldavia meridionale, fu organizzata direttamente dalle missioni cattoliche di Parigi. Furono costruite anche varie parrocchie. Poi, dal 1948, con l’instaurazione del regime comunista di tipo staliniano, tutto cambia. Non solo fu del tutto bloccata l’immigrazione, ma anche l’identità di chi rimase nel paese fu praticamente annientata!”
Cosa accadde?
“Il regime tendeva a negare qualsiasi identità nazionale specifica. Quindi tutti i gruppi etnici, compresi gli italiani, se volevano mantenere la loro cittadinanza erano costretti ad espatriare. Chi restava, doveva rimanere cittadino romeno. Punto. Questo, con la guerra fredda, significava anche la fine della possibilità di mantenere contatti con l’Italia, senza contare la perdita di tutte le attività economiche autonome, avviate da decenni, nella maggior parte dei casi. Intendiamoci, non si trattava di grandi imprese, ma di piccole, medie aziende, specie in campo edilizio. Insomma, fu messo in pratica un tentativo, brutale, di attuare un’assimiliazione secca. Molti italiani lasciarono il paese, solo poche migliaia restarono in Romania”
Poi torneremo a parlarne, ma facciamo un passo indietro. Come erano organizzate queste comunità? Avevano scuole?
“Avevano scuole di lingua italiana, per lo più costruite tra il 1918 e il 1940, nel periodo tra i due conflitti mondiali, questo lo posso dire con sicurezza, sulla base dei documenti del Ministero degli Esteri che ho consultato. Teniamo però presente che i parroci cattolici spesso fungevano anche da insegnanti”
E durante il fascismo?
“Qui dobbiamo tener presente l’atteggiamento ambivalente, contraddittorio, del fascismo rispetto al problema dell’emigrazione. Da un lato la scoraggiava, a meno che non fosse indirizzata verso le colonie africane, dall’altro il regime doveva tener conto della presenza di comunità di italiani all’estero ormai radicate, ora grandi, nel caso degli Stati Uniti o dell’America Latina, ora di dimensioni più limitate, come nel caso della Romania. L’atteggiamento dei fascisti fu quello di relazionarsi a questa comunità attraverso un’opera di politicizzazione, istituendo sezioni dei fasci nei villaggi a maggiore presenza italiana. Tutto questo però, nel ricordo di alcuni italiani di Romania (poi tornati in Italia, che ho conosciuto in questi anni) si traduce anche in un bel ricordo. Il regime infatti, fino allo scoppio della guerra, invitava i giovani, i ragazzi, come ospiti, nelle colonie estive, di mare o di montagna e perciò permetteva loro di conoscere la madrepatria”
Torniamo al presente. Cosa resta oggi di questa comunità?
“Ben poco. Sul piano numerico si può parlare al massimo di tremila persone, ad essre generosi… Un pò la lingua si è preservata, anche se mescolata ai dialetti veneti o della Carnia. Il regime, d’altra parte, ha fatto di tutto per assimilarli, e molti hanno preferito cambiare cognome, rumenizzandolo. Un fenomeno abbastanza tipico, in questi casi. Poi, nel 1990, caduto il regime di Ceausescu, uno dei primi atti del nuovo governo fu l’approvazione di una legge che stabiliva di assegnare 1 deputato in parlamento per ogni minoranza. Teniamo conto che in Romania le minoranza sono numerosissime, per cui il numero minimo di voti per poter avere una rappresentanza fu fissato a quota 10mila. In realtà, come detto, chi poteva dimostrare, tramite documenti specifici, di appartenere alla nazionalità italiana erano non più di due-tremila persone. In pratica, è finita che alcuni personaggi si sono inventati fantomatiche origini italiane pur di avere una propria rappresentanza a Bucarest…”
Fatto sta che esiste un partito degli italiani di Romania, che ha per simbolo una lupa romana.
“E’ vero, ed esprime anche un deputato, che però non è certo di origine italiana!”