Guerre e Unione europea, Nobel dello "spread"
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Guerre e Unione europea, Nobel dello "spread"

Il Medio Oriente sobolle. Israele ha preso le misure ad Hamas a Gaza prima di occuparsi dell'Iran. In Siria è guerra civile. E l'Europa è Nobel dello Spread. [Ennio Remondino]

Guerre e Unione europea, Nobel dello "spread"
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Ennio Remondino Modifica articolo

26 Novembre 2012 - 11.48


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di Ennio Remondino

La Pace delle buone intenzioni. Quando fu assegnato il Nobel per la Pace 2009 a Barak Obama, fu una sorpresa per tutti e furono perplessità per molti. Tre anni dopo possiamo dire che le sue prestazioni di pace non hanno esaltato il mondo. A fare confronti con tempi vicini, la Pace praticata da Obama non pare molto superiore a quelli di Bush padre, di Clinton, di Bush Jr. Ad esempio, nessuna guerra iniziata da George W. Bush è finita con la presidenza Obama. Al contrario, vi è stato l’intervento della Nato in Libia, per non parlare del campo di prigionia di Guantanamo Bay, a Cuba, che resiste alle promesse di smantellamento. Mentre l’occupazione di Afghanistan e Iraq continua a produrre destabilizzazione e vittime in quell’area del mondo senza prospettive di soluzioni a breve.

La pace come assenza di guerra. Quest’anno il Premio Nobel è stato assegnato all’Unione europea per i 60 anni di pace nel continente. E la distanza tra la fragile entità burocratica di Bruxelles e l’Europa letta dai confini del circolo polare artico si allarga e somiglia sempre più ad una visione da Aurora boreale. Un lampo di luce, un effetto cromatico affascinante ma incongruo. Come l’azione concreta svolta dall’Unione europea. Al punto da spingere autorevoli osservatori a mettere seriamente in discussione il valore dei criteri per la nomina e quel premio ritenuto di valore assoluto e universale. L’Europa certamente non ha più conosciuto conflitti della portata di quanto di catastrofico ci aveva proposto il XX secolo, ma la “Non guerra assoluta” può essere chiamata Pace?

Anime belle e guerre balcaniche. Ora sappiamo con certezza storica che alcuni paesi europei hanno contribuito, dal 1990, al disfacimento della Federazione jugoslava. E’ ormai certo che l’Occidente in senso generico ha contribuito alla secessione di varie repubbliche. Spesso usando le difficoltà economiche delle varie regioni, i crediti-debiti incrociati, i tassi di interesse crescenti, per costruire il nemico della porta accanto. Qualche analista parla ormai apertamente di aggressione a guida statunitense contro la Jugoslavia, grazie anche alla partecipazione attiva dei paesi europei, soprattutto la Germania, con buona pace del diritto internazionale e a costo, spesso, di clamorose bugie storiche e montature mediatiche. Il Nobel per la pace, insomma, non passa per i Balcani.

Afghanistan, Iraq e i buchi neri. Le guerre non sono soltanto quelle che combatti o eviti alle porte di casa. Esistono e furoreggiano le guerre da export, solitamente proposte nella fascinosa confezione di “Democrazia” da donare al mondo. L’Europa dei mercanti, in questo, è stata sempre generosa. Un po’ di “guerra giusta” non la si nega a nessuno. Anche a costo di spendere qualche vita militare di casa. Ed ecco che i due più recenti Nobel per la pace si inseguono nella contraddizione di un premio ormai screditato. Quasi tutti i paesi dell’UE sono coinvolti nella guerra in Afghanistan, che dura da 11 anni. Prima fu la “coalizione dei volenterosi” dell’Unione, tra cui l’Italia, nel 2003 a inseguire le bugie contro l’Iraq. La guerra in Libia è pasticcio di ieri ed è solo all’inizio.

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Siria, Iran e Medio oriente. La Siria che brucia e si martirizza nell’escalation di un despota assassino e di rivoltosi che lo inseguono in ferocia. L’opportunismo del non decidere, in attesa che qualcuno, l’altro premio Nobel di oltre oceano ad esempio, decida ancora una volta per noi europei. Tutti in attesa della partita decisiva tra Israele e Iran che vuole anche lui l’atomica. Gaza, Hamas, Hezbollah, quando ci finiscono in mezzo, sono soltanto il corollario, il dettaglio, l’effetto collaterale della sfida decisiva e mai risolta della convivenza tra Israele Stato e il popolo palestinese senza Stato. Su questo fronte l’Unione Europea non soltanto dovrebbe evitare Oslo e la statuetta voluta dal vecchio fabbricante di dinamite. Forse, nell’identificazione con Nobel, avrebbe di che vergognarsi.

Europa assente ingiustificata. La sera de 21 novembre a Il Cairo, Israele e Hamas si impegnano ad osservare una tregua con reciproci impegni. Per Hamas, la sospensione del lancio di razzi da parte di tutte le formazioni armate. Per Tel Aviv, la cessazione delle attività militari, compresi gli omicidi mirati, e un allentamento dell’assedio e del blocco navale alla Striscia di Gaza col passaggio degli aiuti umanitari e delle merci importabili. L’Egitto si impegna a contrastare il traffico di armi attraverso i tunnel che collegano il Sinai e la Striscia. Gli Usa si fanno garanti, “per migliorare le condizioni della gente di Gaza e garantire la sicurezza per il popolo di Israele”. Nessun ruolo per l’Europa del “Quartetto” (con Usa, Russia, Onu) delegato a risolvere il conflitto israelo-palestinese.

Quell’odio sapientemente coltivato. Le assurde tifoserie rispetto ai numeri. Israele, bersaglio del lancio di 1.600 razzi, 5 morti e 74 feriti. Gaza, bersaglio di 1.600 raid aerei e centinaia di bombardamenti dal mare, 166 morti (di cui 35 tra bambini e adolescenti sotto i 16 anni), 1.200 feriti (381 bambini), distruzione di moschee, abitazioni, scuole, siti dei media dalle Shuruq Tower e Saraya Building (tra cui Al Jazeera, AFP, Reuters), con 6 giornalisti feriti e 2 uccisi, e l’utilizzo anche di fosforo bianco, rilevato sui corpi di alcuni feriti in ospedale. La contabilità sempre dispari della valutazione puramente militare può cambiare significato se la leggi con “Occhio politico”? Cosa cambia tra Israele e palestinesi dopo questo round militare da cui non esce un vincitore certo?

Nuovi protagonisti crescono. Proviamo ad osservare lo scenario oltre le macerie di guerra. 1) Sempre minore rilevanza di Abu Mazen e dell’ANP, silente durante gli scontri e assente al vertice della capitale egiziana. 2) Nuovo ruolo dell’Egitto che, con Turchia, Qatar e Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Giordania, Marocco e Tunisia), rientra nell’ “Asse sunnita”. 3) Un Medio Oriente ridisegnato con lo sdoganamento, nella Comunità Internazionale, dei Fratelli Musulmani. 4) Minore peso dell’egemonia Usa che resta comunque il riferimento costante di Israele. 5) L’ineludibile ruolo di Hamas, la cui Direzione esterna si è trasferita da Damasco in Qatar, smarcandosi dagli alawiti (sciiti) e dall’Iran, e ratificata dalla visita dei vertici di Qatar, Bahrein e Turchia.

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Le fragilità delle buone intenzioni. Oltre i colpi di mano militari (un razzo, una sparatoria), quali le minacce “politiche”? Il 29 novembre Abu Mazen presenterà all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite la richiesta della Palestina come stato Membro Osservatore. Voto contrario scontato Usa e di Israele. L’ala oltranzista del governo Netanyhau con tre tentazioni: A) Azzerare l’ala militare di Hamas. B) Ostacolare la presentazione della richiesta palestinese all’Onu. C) Ottenere alle elezioni anticipate del 22 gennaio 2013 una rilevante maggioranza insieme ai nazionalisti di “Yisrael Beiteinu”, col primato della legge ebraica su quella dello Stato. Per essere pronta all’attacco all’Iran indebolito dal mancato supporto di Siria, Iraq, Libano e movimenti palestinesi filo-sciiti.

Le incertezze della parte palestinese. Gaza, anche dopo l’evacuazione dei coloni (agosto 2005) non ha esercitato alcuna sovranità circondata com’è da cielo, mare e terra (tranne il valico di Rafah con l’Egitto, non sempre aperto). Dopo la vittoria di Hamas nelle elezioni del gennaio 2006 e la tregua di allora, riesplose tutto col sequestro del militare israeliano Igad Shalit (giugno 2006) e lo scontro con Fatha (giugno 2007), responsabile di attacchi e assassinii contro militanti e esponenti religiosi Hamas. Lotta interna in casa palestinese su premiership, linea politica e uso della forza. Intanto Gaza diventa “entità nemica”, per Israele, con incursioni dell’Idf che hanno causato 930 vittime, metà dei quali -secondo l’organizzazione israeliana B’Tselem- non erano parti combattenti.

Quel Nobel americano regalato. Azione palestinese armata (terrorismo) e ritorsione israeliana (autodifesa), è la regola di questi anni. Dal 27 dicembre 2008 al 18 gennaio 2009 -occasione dell’insediamento del neo eletto Presidente Usa Barak Obama- causa 1285 morti (895 civili, 167 poliziotti, 280 bambini e 111 donne), 4333 feriti (1133 bambini e 735 donne), la distruzione di 2400 case, 28 edifici pubblici, 30 moschee, 121 officine. Imposto il razionamento del cibo. Secondo l’ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari nei Territori Palestinesi, il 34% della popolazione (e la metà dei giovani) è disoccupata, l’80% della popolazione dipende dagli aiuti alimentari, il 35% delle terre coltivabili e l’85% delle acque pescose sono parzialmente inaccessibili.

Oltre Gaza è necessario per tutti. “Area de-sviluppata” la chiamano alle Nazioni unite, destinata, secondo l’UNwra, a divenire entro il 2020 “un posto non più abitabile”. Gaza, che avrebbe potuto prosperare con l’agricoltura, l’industria ittica e le risorse di gas naturale off-shore, scoperte nel 2002, più o meno quando Israele ha intensificato il blocco navale spingendo i pescherecci verso la costa. Perse anche le riserve d’acqua dopo gli accordi di Oslo (1993) perché dei due impianti di de-salinizzazione previsti, quello di Israele venne subito costruito mentre quello di Gaza, a Khan Younis, nel sud, deve utilizzare non l’acqua di mare ma quelle delle falde sotterranee, di minor costo ma destinate all’esaurimento. Mentre l’afflusso di profughi soffoca letteralmente il territorio.

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Se Gaza piange Cisgiordania non ride. Un territorio di meno 6 mila chilometri quadrati, più di 2 milioni di abitanti oltre al milione e mezzo di arabi israeliani. Attorno, a circondarla, oltre 200 colonie israeliane, un muro di 730 chilometri, innumerevoli check-point e strade a scorrimento veloce riservate ai coloni. Situazione invivibile dentro, imposizione di forza non sostenibile da fuori, iniziano a pensare anche in Israele. Il periodo dei “colloqui di pace” a guida Usa è di fatto delegittimato, mentre un nuovo quadro geopolitico va formandosi nello scacchiere mediorientale, con un forte anche se non omogeneo “Asse sunnita”, ora accettato dalla Comunità Internazionale per contenere le temute mire espansionistiche iraniane. Politica israeliana interna da rivedere.

L’Iran atomico e la Siria che esplode. L’Iran, sempre più in difficoltà per le sanzioni, ha tentato il 18 novembre a Tehran di proporre la fine degli scontri ad alcune formazioni dell’opposizione siriana, la ripresa del dialogo nazionale e la formazione di un Comitato per preparare le elezioni parlamentari e presidenziali nel 2013 con cambiamenti della Costituzione. Fra i 200 delegati, assenti i rappresentanti della “Coalizione Nazionale” di Doha, c’erano però delegati di una decina di Paesi, tra cui Russia e Cina. E tornano vecchie proposte da Marocco e Arabia Saudita. Normali rapporti diplomatici di Israele con i 22 Paesi della Lega Araba aderendo alla risoluzioni del Consiglio di Sicurezza della Nazioni Unite sul conflitto palestinese. Difficile assenso israeliano.

L’incubo sicurezza di Israele. In attesa della disputa all’Assemblea Generale Onu sull’ammissione della Palestina, Israele comunque incassa qualcosa. Militarmente, come di consueto. L’uccisione di Jabari e gli otto giorni di bombardamenti hanno sensibilmente depotenziato logistica e armamento delle formazioni combattenti palestinesi e le modeste strutture del governo di Hamas e delle forze di polizia. Poi, come afferma il New York Times, l’attacco sarebbe stato un test sull’efficacia dei sistema di difesa antibalistico israeliano, che avrebbe confermato l’idoneità del sistema “Iron-Dome” contro i razzi a corto e medio raggio (fino ad Askhlon e ad Ashdod, da 10 e 20 km, e fino a 40 km), e del sistema “Arrow” per quelli a lunga gittata (i 70 km, sino Tel Aviv).

Gaza sparring partner per l’Iran? La tregua con Hamas, le nuove prospettive politiche che si sono aperte nel mondo arabo stanno costringendo diplomazia e apparati militari e ripensare ai loro ruoli. Guerre sempre più asimmetriche in Medio Oriente, con protagonisti che cambiano peso e ruolo. Più mondo arabo contaminato dalle primavere, meno Stati Uniti sempre e comunque garanti per Israele. E la costante dell’Europa sempre e comunque marginale. Incubo irrisolto, le centrali nucleari dell’Iran che, se arrivasse a realizzare armi atomiche, costituirebbe secondo Israele la minaccia esiziale e non tollerabile per una popolazione che ha attraversato due millenni di persecuzioni e l’orrore della Shoà. Ed accadde in Europa quasi 70 anni fa. Ue Nobel dello spread.

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