Raccolta delle olive con [url”Hashem Azzeh in Shuhada Street”]http://nena-news.globalist.it/Detail_News_Display?ID=22263&typeb=0&03-09-2012–La-storia-Hebron-una-vita-tra-coloni-e-soldati-israeliani[/url]: ci aspettavamo qualcosa, visto il posto e la vicinanza con i coloni.
Hashem è quello che insieme a noi ha riottenuto il diritto di usare una strada più corta per raggiungere la sua casa, circondata da coloni israeliani. Ma i suoi ulivi si trovano a pochi passi dalla casa di Baruch Marzel, leader del Jewish Defence League, considerato tra i coloni più estremisti in tutta la Cisgiordania. E così Hashem è riuscito a raccogliersi le sue olive l’ultima volta cinque anni fa.
Quando il primo albero è quasi finito, passo al seghetto a sistemare la potatura, dicendomi, purtroppo questo lavoro lo vedranno, è più rumoroso e visibile. Comunque, niente coloni in avvicinamento, polizia e soldati di passaggio non ci dicono niente: è proprio vero che prendono ordini dai coloni, e se non arrivano quelli, noi possiamo lavorare. Gli altri quattro alberi hanno poche olive: Hashem e i suoi appena hanno un sacchetto di olive tra le mani, corrono a portarlo a casa, temendo che i coloni gliele rubino.
Arrivo al quinto albero, vecchio, quasi secco, mai da cui è ripartita una grande vegetazione. Anche questo, come gli altri, non è mai stato potato, sono delle foreste da districare: sono a metà lavoro, quando risuona il temuto allarme: “Mustautanin”, i coloni! Ne arrivano una quindicina, anche se non tutti insieme. Reclamano che la terra è loro, che stiamo rubando la legna. Intanto è arrivato anche Jawad, ed è lui che chiama i soldati a difenderci dai coloni, dalla cui violenza non ci possiamo difendere, pena la galera. Io sono l’ultimo a lasciare la terrazza degli ulivi, tra l’altro con ancora in mano le mie “armi”, forbice e seghetto.
Hashem è autorizzato a raccogliere le olive, anche se la contesa sulla proprietà non è risolta. Arrivano i primi quattro soldati a spingere noi verso la casa di Hashem invece che ad allontanare i coloni invasori. I soldati aumentano e c’è un ufficiale di nome Dima, che spesso spadroneggia nella zona. È lui ad arrabbiarsi di più, comincia ad avercela con tutti quelli che riprendono o fanno foto, e sono dappertutto.
Ci sono i ragazzi di Youth Against Settlement, ci sono i nostri, c’è un fotografo. Dima si arrabbia e punta una volta uno una volta un altro. Per primo viene preso un ragazzo di YAS, Ahmad. Poi fanno per saltare su Wayd, lo acchiappano, ma io non perdo l’occasione di mettermi in mezzo, attaccandomi ad un palo, e impedendo così a Dima a procedere all’arresto. Si arrabbia, si rifà con me, ma non riesce a staccarmi dal palo. Ed eccomi buttato a terra e preso per il collo con un ginocchio nella schiena, mentre mi legano i polsi. Ma non gli basta, prendono anche Jawad, che li aveva chiamati, e che non filmava né altro. Ridono felici mentre ci portano alle jeep: Jawad, Ahmad e io siamo in arresto.
Un po’ di tempo in attesa, mentre si raduna una folla ad una certa distanza, è pieno anche di ragazze sui tetti che seguono e riprendono le scene. Quando ci portano via, abbiamo abbassato i finestrini della jeep, abbiamo sporto le mani con il segno di vittoria e gridiamo “libertà per la Palestina”.
Ho scoperto la tenacia dei due palestinesi arrestati con me: non hanno smesso un attimo di provocare i soldati, e io mi sono dovuto adeguare. “Che bello, da quanti anni che non potevo percorrere Shuhada Street in macchina, oggi con la jeep!”. Arriviamo alla stazione di polizia di Qiriat Arba. Qui ci fanno accomodare in un container, che è un loro ufficio. “Sedetevi”. “Non posso”, dice Adham, che ha le mani legate dietro la schiena, mentre io e Jawad le abbiamo davanti. “O mi cambiate la legatura ai polsi o non mi posso sedere”.
Squilla il mio telefono, il soldato buono mi aiuta a sfilarlo di tasca, ma poi arriva Dima e me lo strappa di mano e lo spegne mettendoselo in tasca. Poi suona l’altro telefono, ma non provo più a rispondere. Finalmente il soldato gentile torna con cinghiette nuove e si può sistemare Adham con le mani davanti. Così si siede vicino a noi, su una specie di divano. Di peso mette Adham su una sedia contro un angolo, Jawad in un altro angolo, io prendo un’altra direzione.
Gli dico: “Non te ne andare senza restituirmi il telefono. Mi sta venendo freddo, posso mettermi la camicia?”. “No, tieniti il freddo”. Arrivano i poliziotti per le deposizioni: la prima deposizione che raccolgono è quella di Dima, poi tocca ad Adham, poi a Jawad. Verso le sette, finalmente, ci tagliano le cinghie dai polsi, allora posso andare in bagno e a bere.
Nell’ufficio investigativo è tutto tranquillo, mi legge la deposizione di Dima, correggo con la mia, c’è la chiamata di un avvocato a cui hanno pensato da YAS. Mi suggerisce di accettare la proibizione di stare nella zona per quindici giorni, così non mi rinviano a giudizio. E infatti, dopo un giro completo di foto segnaletiche e impronte di tutte le dita e tutte le mani, ci ridanno i nostri documenti. Siamo liberi.
Scendiamo la ripidissima stradina abbracciati. Fuori c’è già un fratello di Jawad che ci aspetta, andiamo a prendere un panino e mi accompagnano a casa, dove entriamo tutti e tre. Ora per due settimane, non mi posso avvicinare a meno di duecento metri dal covo dei coloni a Tel Rumeida: peccato per le potature da finire e le visite ad alcune case.
*pseudonimo dell’attivista italiano