Israele è in festa: si celebra il “Giorno dell’Indipendenza”, la fondazione dello Stato nel 1948. Bandiere nazionali ovunque, fuochi d’artificio, luci colorate e picnic sul Mar Morto. Ma anche quel giorno non si interrompono gli abusi dei militari contro la popolazione palestinese.
L’episodio che vi riferiamo, successo il 25 aprile alla spiaggia di Kalya, sul Mar Morto, purtroppo è frequente, soprattutto nella Valle del Giordano dichiarata unilateralmente da Israele “zona militare chiusa”. È Area C, sotto il controllo militare e civile israeliano. L’obiettivo del governo Netanyahu è creare la “Grande Gerusalemme”, attraverso il cosiddetto piano E1, portando i confini municipali della città fino alle porte della Valle del Giordano. E spezzare definitivamente in due la Cisgiordania.
Nella Valle del Giordano i palestinesi non possono costruire case, scuole o stalle per gli animali, non possono muoversi liberamente a causa delle decine di checkpoint, non possono attingere alle risorse d’acqua di loro proprietà perché totalmente controllate dall’Amministrazione Civile israeliana. Le demolizioni di case e di pompe “abusive” per allacciarsi alla rete idrica o elettrica sono all’ordine del giorno.
Qui un incidente automobilistico, una sciocchezza in un Paese normale, si trasforma nell’ennesima occasione per soprusi e vessazioni.
Sono le sei del pomeriggio, quattro amici (tre italiane e un palestinese, A.A.) stanno per lasciare la spiaggia di Kalya. L’altoparlante della spiaggia li chiama: la loro auto, presa a noleggio, targa palestinese, e’ stata tamponata: una signora israeliana di circa 65 anni, visibilmente ubriaca, ha centrato con la sua auto la loro macchina e altre due automobili. Il cofano della Fiat Punto è distrutto, l’urto l’ha spinta indietro di un paio di metri.
I quattro parlano con la donna, non vuole lasciare i sui dati. La donna insiste per andarsene, si innervosisce e chiama la polizia israeliana dicendo che i quattro giovani le stavano impedendo di tornare a casa. A. A. parla con il poliziotto all’altro capo del telefono, che dice di aspettarli e stare tranquilli.
Ma invece della polizia arriva la Border Police, la polizia di frontiera, il piu’ duro con i palestinesi tra i corpi militari israeliani. Quattro agenti scendono dalla jeep e subito aggrediscono i giovani. Dicono loro che non hanno alcun diritto di “fermare una cittadina israeliana, è una questione di diritti umani”. Permettono alla donna di andarsene senza rivolgerle una domanda, né prenderne le generalità. Nel frattempo, sono arrivati i proprietari della compagnia di noleggio dell’automobile e B.A., il fratello di A.A.
I soldati gridano. Uno di loro spinge ripetutamente B.A. e, quando lui alza la mano per difendersi, il soldato gli spruzza in pieno viso per tre volte lo spray al peperoncino. Non ci vede più. Il dolore è forte. Il soldato gli mette le manette ai polsi: B.A. è in arresto, l’accusa “aver tentato di picchiare un soldato”. Lo fanno sedere sulla jeep, ma B.A. comincia a sentirsi male.
Si butta a terra, vomita. Il volto è rosso, non riesce ad aprire gli occhi. Grida, si contorce, si strappa la maglietta per il dolore. I quattro amici chiedono subito ai soldati di chiamare un’ambulanza. Intanto, una soldatessa grida contro le italiane, devono allontanarsi perché “tutte queste persone mi stanno infastidendo”.
L’ambulanza non arriva. A.A. grida contro i soldati: “Se mio fratello fosse israeliano, l’ambulanza ci impiegherebbe tanto tempo ad arrivare?”. Ed infatti si scopre che i soldati hanno chiamato un’ambulanza di Gerusalemme e non di Gerico, distante una manciata di chilometri. Dopo mezz’ora i medici della Palestinian Red Crescent arrivano, seguiti da un’altra camionetta dell’esercito. I soldati impediscono all’ambulanza di portare B.A. in ospedale: a quanto pare, si deve aspettare il medico dell’esercito. Non permettono neppure che venga messo in barella dentro l’ambulanza.
Passa un’altra mezz’ora e il medico militare arriva al parcheggio: l’ambulanza è autorizzata a partire con B.A., ancora sotto arresto. Arriva anche la polizia che decide di portarsi via anche A.A., ufficialmente per redigere il rapporto. Destinazione: la stazione di polizia della colonia israeliana di Ma’ale Adummim.
Le italiane chiediamo di poter andare con lui. Sono testimoni oculari, intendono rilasciare le loro dichiarazioni. Il poliziotto sorride ironico: “Ho una macchina, mica un bus”. “Intende dire che la polizia israeliana intende lasciare tre cittadine italiane di notte nel mezzo del deserto senza macchina?”. “Beh, tornatevene a Gerusalemme e enjoy Israel”.
Un uomo palestinese offre loro un passaggio per la stazione di polizia di Ma’ale Adummim. Intanto A.A. viene perquisito, sbattuto contro la macchina con le mani alzate. Lo fanno salire in un’altra camionetta e lo portano alla stazione di polizia, dentro la colonia. Gli hanno ritirato la carta d’identità, non può telefonare né andare in bagno. I quattro aspettano. Dopo due ore, B.A. arriva: ammanettato, senza scarpe né maglietta.
Un poliziotto israeliano interroga A.A., B.A. e i soldati presenti sulla scena. Le italiane chiedono più volte di essere sentite. Il poliziotto sorride: “Tanto non vi credo”. Alle due di notte, la polizia comunica alle tre italiane e A.A. che sono liberi di andare. B.A. resta in arresto, con l’accusa di aver tentato di picchiare un soldato.
Il giorno successivo viene trasferito al Russian Compound di Gerusalemme. Nei giorni successivi nessuno riusciva ad avere sue notizie. Domenica mattina, 29 aprile, è stato rilasciato su pagamento di una cauzione di 100 euro. A fine agosto si terrà il processo.