La notizia è nota. La famiglia Gheddafi investiva molto in Italia senza bisogno di alcuna missione promozionale di Mario Monti che, va precisato a sua difesa, allora non c’era. Sappiamo di quote societarie delle più importanti aziende italiane, da Unicredit alla Fiat fino a Finmeccanica ed Eni.
Fin qui nulla di strano. Stupiscono molto di più gli acquisti di azioni calcistiche in maglia juventina, un bosco a Pantelleria e una Harley Davidson. Palmo più palmo meno, un miliardo e cento milioni di euro di valore che il defunto rais libico aveva accumulato a partire dal 1976 investendo i soldi del petrolio nel nostro paese.
I provvedimenti di sequestro sono stati eseguiti dalla Guardia di Finanza, ma la decisione nasce molto più lontano. Richiesta del Tribunale penale internazionale dell’Aja nel procedimento per crimini contro l’umanità aperto nei confronti dello stesso Gheddafi, di suo figlio Said Al Islam e dell’ex capo dei servizi segreti, il potentissimo Abdallah Al Senussi, capo degli spioni del regime e sospetto doppio giochista coi Servizi francesi. “Tesoretto” privato e per uso di famiglia, a quanto è facile capire, per soddisfare le voglie di figli scapestrati.
Primo fra tutti, Saadi. Persi il padre Muammar e i fratelli Seif e Motassim, uccisi dai ribelli in Libia, Saadi Gheddafi rimane uno dei pochissimi superstiti della famiglia del raìs. Il figlio calciatore del Colonnello, a lungo protagonista “particolare” della Serie A italiana. Pessimo calciatore e pessimo combattente, subito fuggito in Niger. Salvo il vizietto di famiglia di scannare i deboli. E’ accusato di aver ordinato torture e omicidio di un ex-nazionale libico e allenatore, Bashir al Rryani, colpevole di scelte tecniche sgradite all’ex-Perugia, Sampdoria e Udinese.
Una posizione che potrà essere alleggerita dal fatto che Saadi -riferiscono fonti di intelligence americana- si sarebbe offerto come mediatore per ottenere dalla Nato il “cessate il fuoco”. Poi, evidentemente, si è arreso, e ha preferito volare in Niger con una parte presumibilmente importante delle ricchezze accumulate dal regime paterno. E da lì, abbandonando le sue velleità di trequartista tutto fantasia, ha cominciato una lunga e difficile partita difensiva. Dati i precedenti visti in campo in Italia con il Perugia di Gaucci c’è da dubitarne.
Discorso a parte sul babbo. Parlandone soltanto sul fronte della Finanza, il Rais non era affatto sprovveduto. Società di copertura: Libyan Investment Autorithy (Lia) e Lybian Arab Foreign Investment Company (Lafico). E il Colonnello investiva sul sicuro. L’ 1,256% di Unicredit, pari a 611 milioni. Lo 0,58% dell’Eni, che vale sui 400 milioni. Il 2,1% di Finmeccanica, 41 milioni. In Fiat, lo 0,33% di Fiat Spa e di Fiat Industrial, per 53 milioni. Poi la passionaccia del calcio con l’ 1,5% della Juventus, senza manco poterne vedere il riscatto di quest’anno.
Strategico forse l’acquisto di un intero bosco a Pantelleria: 150 ettari di terreno su cui, si dice, il rais voleva costruire un villaggio turistico. O forse una sua “Terza sponda”. Certamente più insospettabili le due mega moto, un intero piano di un palazzo in via Sardegna in centro di Roma, e diversi conti correnti. Nella filiale della Ubae Bank di Roma, 650mila euro in titoli. All’Abc international 98mila euro e 132mila dollari. Sfigata la Banca popolare dell’Emilia Romagna con un ‘rosso’ di poco più di mille euro. Inesigibili.