Il business della guerra è ora in Siria
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Il business della guerra è ora in Siria

Gli interessi dei sauditi e quelli di al Qaeda si concentrano su Damasco, che non sarà bombardata dall'Onu come Tripoli, ma è sprofondata nell'inferno delle milizie.

Il business della guerra è ora in Siria
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16 Febbraio 2012 - 10.37


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di Pepe Escobar

Un kalashnikov fino a poco fa si vendeva in Iraq a 100 dollari. Ora sta almeno a 1.000 e forse già a 1.500. Destinazione del kalashnikov da 1.500 dollari nel 2012: Siria e il network di al Qaeda nella Terra dei due fiumi, noto anche come Aqi; destinatari jihadisti infiltrati che operano spalla a spalla con l’Esercito siriano libero (Esl). Anche le auto-bomba e i kamikaze fanno la spola fra Siria e Iraq, come nel caso dei recenti attentati nei sobborghi di Damasco e nell’attacco suicida di venerdì scorso ad Aleppo.

Chi potrebbe pensare che quel che la casa regnante dei Saud vuole per la Siria – un regime islamista – sia esattamente quel che vuole al Qaeda? Ayman al Zawahiri, il numero uno di al-Qaeda, in un video di 8 minuti intitolato «Avanti, leoni della Siria» ha appena lanciato un appello per sostenere i musulmani in Iraq, Giordania, Libano e Turchia e per abbattere «il pernicioso e canceroso» regime di Bashar al-Assad. La risposta stava arrivando già prima che al Zawahiri comparisse in video, specie dai «freedom fighters» libici che prima erano conosciuti come «gli insorti».

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Chi potrebbe pensare che la NatoCcg (il trattato del Nord Atlantico e il Consiglio di cooperazione del Golfo) vuole per la Siria esattamente quello che vuole al-Qaeda?

Così, quando il regime di Assad, con tutta la sua orrenda offensiva militare che prende essenzialmente di mira i civili intrappolati fra due fuochi, sostiene di star combattendo «i terroristi», a rigore non sta distorcendo la verità. Perfino quell’entità ubiqua e proverbiale che è l’anonimo «funzionario Usa», ha attribuito la responsabilità per i più recenti attentati all’Aqi. Idem il viceministro degli interni iracheno Adnan al-Assadi: «Abbiamo informazioni dall’intelligence che un bel numero di jihadisti sono andati in Siria».

Così, se la Siria potrebbe non essere la nuova Libia nel senso di una risoluzione Onu che autorizzi i «bombardamenti umanitari» della Nato – dopo il veto di Russia e Cina -, la Siria è una nuova Libia nel senso degli stretti legami fra i «ribelli» e l’hardcore jihadista-salafita. L’Occidente cerca una situazione senza se e senza ma, non importa come prefabbricata, capace magari di offrire al Pentagono il casus belli per intervenire, ad esempio per liberare la Siria da un’al-Qaeda che in quel paese non ha mai avuto un peso.

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L’anno scorso, Asia Times online scrisse che la «Libia liberata» – «liberata» dai cosiddetti «ribelli della Nato» – sarebbe sprofondata nell’inferno delle milizie. Ciò è esattamente quello che sta capitando: almeno 250 milizie diverse solo a Misurata, secondo Human Rights Watch, che agiscono come poliziotti, giudici e sterminatori allo stesso tempo. Se uno entra in carcere, è morto, e se è un africano sub-sahariano. ha anche il surplus di un set di tortura completa prima di fare la stessa fine.

Come in Libia, la strategia dell’asse sunnita Saud-Qatar, ha frustrato qualsiasi possibilità di dialogo fra l’insurrezione (armata) e il regime di Assad. L’obiettivo-chiave è il «regime change». Questa è la rozza propaganda dei media arabi in larga misura controllati o da sauditi o dai qatarioti.

Un esempio. L’elogiato «Osservatorio siriano sui diritti umani», con base a Londra, che rovescia numeri senza fine e senza prove dei «massacri» governativi, riceve i suoi fondi da un ente del Dubai finanziato da opachi donatori occidentali e del Ccg.

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Intanto l’«opposizione non stop» manovra completamente la copertura dei media occidentali (Cnn, Bbc…), mentre i media arabi, sotto controllo saudita e qatariota, tacciono sulle connessioni con al-Qaeda.

La Lega delle petro-monarchie, la vecchia Lega araba di prima, dopo aver dinamitato il suo stesso rapporto di monitoraggio sulla Siria in quanto non combaciava con la narrazione prefabbricata di un regime «crudele» che bombardava il suo popolo, sta ora valutando un presunto piano B: una missione peace-keeping Lega araba/Onu che supervisioni «l’esecuzione di un cessate il fuoco».

Ma non prendiamoci in giro: l’agenda resta il «regime change». L’ha ribadito anche il comandante in capo Barack Obama. I suoi tirapiedi del Golfo saranno felici di prestarsi. Bisogna attendersi un’inflazione di kalashnikov che passano i confini, più kamikaze, più civili presi fra due fuochi, e la lenta, tragica frammentazione della Siria.

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