Che in Siria vengano violati diritti umani e libertà fondamentali non è un una novità. Tristemente note sono le prigioni del regime, dove non pochi detenuti politici sono spariti senza lasciare traccia. Per repressione e violenza Riyadh e Doha non sono lontane da Damasco, eppure guidano il lungo elenco di paesi che chiedono «democrazia e diritti per i siriani». Da decenni il mondo chiude gli occhi davanti a ciò che accade in Arabia saudita, ricca di petrolio e alleata strategica degli Stati Uniti. Eppure è sufficiente leggere i rapporti di Amnesty international per rendersi conto che il regno dei Saud non ha titoli per invocare la democrazia a casa degli altri.
Amnesty riferisce che Riyadh ha inasprito la repressione con l’intento di ridurre al silenzio le richieste di cambiamento e mette in rilievo come la monarchia Saud tenga in carcere migliaia di persone, molte delle quali senza accusa né processo. La tortura e i maltrattamenti durante la detenzione continuano a essere ricorrenti. La repressione si accanisce in particolare contro i sauditi sciiti che a Qatif, al-Ahsa e Awwamiya, nell’est del paese, manifestano pacificamente contro la monarchia. Senza dimenticare che la scorsa primavera i Saud hanno inviato truppe a reprimere le proteste per la democrazia e le riforme nel Bahrain dell’alleato re Hamad al Khalifa. Nel 2009 le forze armate saudite erano entrate nel nord Yemen per colpire i ribelli Huthi (sciiti), causando morti e feriti anche tra i civili.
In Arabia saudita è vietato fondare un partito politico, la società civile è sistematicamente colpita, le donne non godono di diritti fondamentali e non possono guidare l’auto. Lo scorso novembre 16 sauditi, tra cui nove noti riformatori, sono stati condannati a pene varianti dai cinque ai 30 anni di carcere. Le fustigazioni sono la regola. A Jubail una ragazza di 13 anni è stata condannata a 90 frustate e 2 mesi di reclusione per essersi ribellata a un’insegnante. Cinque anni di carcere e 500 frustrate invece per un uomo condannato perché omosessuale.
In Arabia saudita il boia è sempre molto impegnato e tra coloro che si trovano nel braccio della morte ci sono anche condannati per apostasia e stregoneria. Questo regno «esempio» di democrazia e tolleranza, sceso in campo per portare la libertà alla Siria, inoltre ospita lo sceicco siriano Adnan al Arour. Una delle voci della protesta contro Assad, al Arour è noto per aver incitato – dai microfoni di Wisal Tv e Safa Tv – i sunniti siriani a «fare a pezzi, a tritare e a dare in pasto ai cani» coloro che appaiono come sostenitori del regime, tra cui i cristiani ([url”qui il video”]http://www.youtube.com/watch?v=h3lhyT3602Y&feature=related[/url]). Eppure la televisione satellitare saudita al Arabiya, in prima linea contro Assad, lo descrive come un «sunnita moderato», una «figura simbolica» per gli attivisti anti-Assad, un uomo che lancia inviti «pacifici e non violenti» all’insurrezione.
Anche il Qatar occupa spazio nei rapporti delle organizzazioni per la tutela dei diritti umani. Amnesty denuncia che nel regno dello sceicco Hamad bin Khalifa al-Thani, promotore l’anno scorso dell’intervento internazionale armato contro il regime di Gheddafi e ora schierato contro Assad, le donne continuano a subire discriminazioni e violenze, i lavoratori migranti vengono sfruttati e abusati e almeno 21 persone sono state condannate alla fustigazione per aver avuto «rapporti sessuali illeciti» o per consumo di alcol.
Vicende singolarmente ignorate dalla notissima tv qatariota al Jazeera.