Cosa fare con il petrolio iraniano
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Cosa fare con il petrolio iraniano

Washington preme per un embargo contro Teheran, l’Europa in crisi economica teme un'impennata del prezzo del greggio. E la Cina bussa alla porta dell'Arabia Saudita.

Cosa fare con il petrolio iraniano
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16 Gennaio 2012 - 12.25


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di Emma Mancini

Il mondo spaccato in due. Il braccio di ferro tra Iran e Washington prosegue, ma intorno al tavolo compaiono nuovi protagonisti, intenzionati a dire la loro. Prima della necessità di una nuova censura internazionale contro Teheran, i bisogni veri sono altri: riempire il buco economico dovuto alla crisi globale con barili di petrolio. L’Iran, secondo produttore della regione mediorientale dopo l’Arabia Saudita, lo sa bene e guarda dalla finestra il mondo che si spacca: da una parte gli Stati Uniti, pronti a sanzionare chiunque faccia affari con Teheran; dall’altra la Russia che parla di gravi interferenze e tentativi di modificare il regime iraniano; e infine Cina e Europa, attente a salvaguardare le proprie esigenze energetiche e pronte a soprassedere per qualche mese in più.

La minaccia di Ahmadinejad. Intanto il governo del presidente Ahmadinejad si muove. Sabato Mohammed Ali Khatibi, delegato e responsabile OPEC di Teheran, ha avvertito i vicini arabi: in caso in embargo totale da parte dell’Unione Europea, non aumentate la vostra produzione per coprire il mancato export iraniano. “Le conseguenze di questa situazione sono imprevedibili. Pertanto, i Paesi arabi vicini non dovrebbero cooperare con simili avventurieri, ma adottare politiche sagge”. Il dito è puntato in particolare contro l’Arabia Saudita, primo produttore mediorientale di greggio e avversario dichiarato di Teheran. Il regime saudita, alleato di lunga data degli Stati Uniti d’America, longa manus degli interessi occidentali nel Golfo, punta allo stesso obiettivo dell’Iran: la conquista di una leadership assoluta nella regione, approfittando delle crisi politiche in cui sono invischiati i tradizionali leader arabi, Egitto e Siria.

La Cina bussa all’Arabia Saudita. E proprio all’Arabia Saudita si è espressamente rivolto ieri il premier cinese Wen Jiabao, intenzionato a non attendere i chiari di luna europei. Il primo ministro della Repubblica Popolare ha chiesto al regime saudita di aprire in maniera più consistente al mercato cinese le immense risorse energetiche di cui dispone, soprattutto a seguito della possibile messa in un angolo dell’Iran. La Cina ha bisogno di rassicurazioni: se l’Arabia Saudita è il primo importatore di petrolio di Pechino, l’Iran è il secondo. Nell’agenda di Wen la sicurezza energetica è la priorità e il governo cinese non nasconde la sua preoccupazione per la minaccia di sanzioni paventata dall’amministrazione Obama. E non mancano le pressioni su Washington perché ammorbidisca una linea dura che danneggerebbe l’economia cinese. Non solo indirettamente: giovedì scorso gli Stati Uniti hanno punito la compagnia cinese di Stato Zhuhai Zhenrong, applicando la legge statunitense, perché è la più grande fornitrice di prodotti petroliferi raffinati di Teheran.
“Imporre sanzioni ad una compagnia cinese sulla base della legislazione interna USA – ha detto il portavoce del ministro degli Esteri cinese, Liu Weimin – è totalmente irragionevole e non conforme allo spirito e ai contenuti delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza ONU riguardo il nucleare iraniano”.

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E l’Europa tentenna. Dall’altra parte ci sono i tentennamenti europei: a spaventare di più economisti e legislatori è l’aumento del prezzo del greggio e le crescenti tensioni con Teheran, minacce concrete alla già debole economia del Vecchio Continente. Le pressioni politiche su uno dei maggiori esportatori di petrolio del mondo ricadrebbero pesantemente sulla UE, che ogni giorno acquista circa 600mila barili di petrolio iraniano e che a più voci chiede un dilazionamento delle sanzioni: ok alle punizioni, ma non subito.

Le paure dell’Occidente. Insomma, la fantomatica minaccia nucleare spaventa molto di meno del mancato rifornimento energetico. Soprattutto se le sbandierate sanzioni arrivano quando il prezzo del greggio raggiunge nuove vette. “Ai prezzi attuali (poco sopra i 98 dollari al barile) – ha spiegato Adam Sieminski, capo economista alla Deutsche Bank – l’economia cresce tra il 3 e il 3,5% l’anno. Non è il massimo, ma va bene. Se il prezzo del greggio salisse a 125 dollari, cresceremmo del 2,5%. Se costasse 150 dollari, cresceremmo dell’1%: un disastro”. Un incremento che mette in guardia la fragile economia occidentale, ed in particolare l’Europa. Italia, Grecia e Spagna, tre Paesi in piena crisi e i tre maggiori importatori di petrolio iraniano, subirebbero gravi danni da un eventuale embargo: insieme, le importazioni dall’Iran delle tre nazioni rappresentano il 68,5% del totale europeo.

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Meglio aspettare? I 27 leader europei si incontreranno il prossimo 23 gennaio per decidere cosa fare: sanzioni o no? La soluzione migliore al momento, in casa Europa, è aspettare: sì alle sanzioni, ma tra sei mesi (come chiesto da Italia, Spagna e Grecia) o tra tre (la richiesta di Francia e Germania). Un ritardo che permetterebbe a Teheran di negoziare ancora e aprire di nuovo le porte di case agli ispettori internazionali dell’AIEA, arrivo previsto alla fine di gennaio, e a Spagna, Italia e Grecia di trovare alternative. Perché, una volta votato a favore dell’embargo, non si potrebbe tornare indietro: divieto assoluto di concludere nuovi contratti o di rinnovare quelli vecchi con l’Iran.
Un approccio sicuramente più morbido rispetto a quello statunitense.

Perché l’America non ha paura. L’amministrazione americana non teme troppo le conseguenze economiche di un embargo all’Iran, vista la decennale amicizia con il regime saudita. E continua a sanzionare: ultima legge in ordine di tempo quella firmata dal presidente Obama il 31 dicembre scorso e volta a punire tutte quelle istituzioni finanziare che compiono transazioni con la Banca Centrale di Teheran. Obiettivo americano è screditare l’Iran, mostrarlo agli occhi del mondo come una fonte energetica non affidabile. Una strategia che sembra pagare: Cina e India, i due maggiori importatori di petrolio iraniano al mondo stanno cercando nuovi partner, Arabia Saudita in testa, e i Paesi europei, così come Giappone e Corea del Sud, stanno facendo lo stesso.

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Dove colpire l’Iran. Se la Siria potrebbe essere abbattuta politicamente, utilizzando l’arma dei diritti umani, con l’Iran la mira è diversa: metterne in crisi la leadership colpendolo a livello economico. E aprire così la strada alla leadership indiscussa dei ricchi Paesi del Golfo, alleati occidentali, e alla Turchia, membro NATO e modello di democrazia islamica moderna. Un obiettivo che nel breve periodo non appare del tutto raggiungibile: a bloccare le mire statunitensi ci sono per ora Russia e Europa. La prima, venerdì, per bocca del vice ministro degli Esteri, Gannady Gatilov, ha messo in guardia l’amministrazione Obama: sanzioni economiche e embarghi contro l’Iran hanno il sapore di un colpo di stato esterno, “tentativi percepiti dalla comunità internazionale come volti a cambiare il regime da fuori”.
La seconda spaventata da un possibile balzo in avanti del prezzo del petrolio, che senza la produzione iraniana potrebbe volare a 200 dollari al barile: “I Paesi del Golfo possono rimpiazzare il petrolio iraniano per un paio di mesi – ha spiegato Chakib Khelil, ex ministro algerino dell’Energia e ex presidente OPEC – Ma poi le scorte non basterebbero più e il prezzo del greggio andrebbe alle stelle”.

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