Blitz a fine anno negli uffici di 17 organizzazioni per i diritti umani locali e internazionali al Cairo. Per renderlo più intimidatorio parà e agenti delle forze speciali della polizia e membri del ricostruito apparato di sicurezza nazionale hanno preso parte all’assalto con le armi spianate. Confiscati documenti, computer, conti bancari; i dipendenti delle varie organizzazioni sono stati trattenuti per ore mentre le loro sedi mentre venivano devastate. Nemmeno durante l’era del deposto presidente Hosni Mubarak un attacco simile si era mai verificato.
Il motivo ufficiale dell’attacco è un’indagine in corso da parte della magistratura su finanziamenti provenienti dall’estero e diretti alle ong egiziane. Che queste organizzazioni ricevessero finanziamenti specie dagli Stati Uniti e dall’Unione europea era risaputo alle autorità egiziane da tempo immemorabile. Perché soltanto ora si è voluto intervenire? Tutto lascia a presagire che l’ordine sia venuto dalla giunta militare per rappresaglia contro gli attivisti per i diritti umani, colpevoli di aver criticato l’eccessivo ricorso alla violenza da parte dell’esercito contro i manifestanti a piazza Tahrir. Repressione che negli ultimi due mesi aveva provocato una sessantina di morti, smascherando così i generali.
Non a caso in questa retata le autorità hanno colpito soltanto i gruppi per i diritti umani più agguerriti. Su una novantina di organizzazioni attive nel Paese sono stati perquisite diciassette sedi. Trentaquattro persone “scomode” sono state iscritte nel registro degli indagati. Curioso il fatto che i militari poco prima di chiudere le sedi di queste organizzazioni avevano pure scatenato una campagna di diffamazione contro di loro sui media ufficiali accusandoli delle peggiore nefandezze: dall’appropriazione indebita di fondi allo spionaggio per conto di potenze straniere. Nessuna indagine però è stata avviata per verificare le voci di finanziamenti ai partiti islamici da parte dei paesi del Golfo Persico per la loro campagna elettorale. Si parla di un diluvio di un dollari: 380 milioni incassati dal partito salafita el-Nour e dai Fratelli musulmani, vincitori delle due tornate elettorali aggiudicandosi oltre il 70 per cento dei voti (la terza è in corso questa settimana e si prevede un altro en plein di voti islamici). E’ quindi evidente che si è voluto invece colpire chi sostiene la democrazia, chi educa i giovani a essere più partecipi nella vita politica e cerca di limitare il potere dei militari. Con il ricorso a questi metodi brutali si vuole paralizzare l’attivismo nato dopo la rivoluzione del 25 gennaio.
Bloccare le organizzazioni per i diritti umani ha però sortito un altro effetto non calcolato da chi ha dato l’ordine. Quello di irritare il mondo occidentale, in modo particolare gli Stati Uniti e l’Unione europea che sono i maggiori finanziatori di questi gruppi nel paese. Non a caso gli Stati Uniti hanno reagito subito richiamando all’ordine i generali egiziani. Il ministro della Difesa Leone Panetta ha avuto una discussione al riguardo con il capo della giunta militare, generale Hussein Tantawi. Con la linea dura dei militari, per la debilitata economia egiziana si prospettano tempi ancora più difficili. Da Washington infatti hanno fatto sapere: entro un mese sarà varata dal Senato un’apposita legge che prevede il blocco degli aiuti militari (un miliardo e 300 milioni di dollari) ma anche civili per 500 milioni, qualora Il Cairo continuasse con la repressione. Un brutto affare per la giunta al potere.
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