Come il piccolo Qatar sia potuto diventare uno degli attori principali sulla scena araba è un interrogativo che si è posto qualche settimana fa anche Anthony Shadid, bravo giornalista ed analista del New York Times, vincitore di due premi Pulitzer per la sua copertura della guerra in Iraq.
Un interrogativo più che giustificato perchè la monarchia assoluta guidata dall’emiro del Qatar Hamed Bin Khalifa al-Thani svolge ora un ruolo da protagonista, per nulla inferiore a quello della potente (e rivale) Arabia saudita, al punto da decidere se un paese di eccezionale importanza come la Siria debba far parte o uscire dalla Lega araba. Senza dimenticare che il Qatar ha giocato da centravanti per tutta la durata della guerra civile libica, spingendo con forza sulla Lega araba per dare il via libera all’attacco militare dei «volenterosi» e della Nato contro Muammar Gheddafi. Doha ha anche fornito, prima in segreto e poi apertamente, armi (e forse anche uomini) ai ribelli del Consiglio nazionale transitorio.
Tale potere non dipende certo dai depositi di gas dell’emirato, nemmeno lontanamente paragonabili all’importanza delle immense riserve di greggio saudita. E neppure, come pensa qualcuno, alla popolarità nel mondo arabo di al Jazeera, un canale satellitare che nel bene e nel male sta avendo un peso eccezionale nell’orientare il giudizio dell’opinione pubblica araba riguardo gli sviluppi della cosiddetta «primavera araba». A portare al timone di comando il Qatar sono stati alcuni sviluppi: la riconciliazione (almeno in apparenza) dell’emiro al-Thani con la casa regnante saudita; la caduta del potente ex presidente egiziano Hosni Mubarak; e il ridimensionamento del peso della Giordania, dovuto alle preoccupazioni di re Abdallah per la situazione interna al suo regno «minacciato» dall’onda della protesta araba e tenuto sotto pressione dalla crisi (ormai una guerra civile) nella confinante Siria e dall’irrisolta questione palestinese.
Il miglioramento – dopo anni di una competizione accesa – dei rapporti con l’Arabia saudita, ha convinto l’emiro al-Thani ad abbandonare su due piedi i suoi vecchi alleati (Hezbollah e Siria), per entrare con forza nell’orbita Usa, completando la marcia di avvicinamento a Washington avviata negli anni passati con l’apertura di importanti basi e comandi militari americani in territorio qairota. Secondo l’analista politico e blogger arabo Asad AbuKhalil, Doha ha fatto il possibile negli ultimi 2-3 anni per dimostrare di essere il partner degli Usa più affidabile nella regione, anche più di Riyadh. Allo stesso tempo ha approfittato dell’uscita di scena di Mubarak per prendere, di fatto, il posto dell’Egitto tra i paesi più influenti nella Lega araba. Così come ha colto l’opportunità offerta dalle relazioni meno tese con i sauditi per porsi ai vertici del Consiglio di cooperazione del golfo (Ccg) impegnatissimo, negli ultimi due anni, a varare politiche volte a contenere l’influenza iraniana nella regione.
Nei mesi scorsi il Qatar è stato fondamentale per l’approvazione dell’intervento armato saudita – anche se formalmente del Ccg – in soccorso del re (assoluto) del Bahrain Hamad Khalifa messo sotto pressione dalla richiesta popolare di riforme democratiche e di parità piena tra la minoranza sunnita e la maggioranza sciita. La caduta del regime baathista di Bashar Assad è divenuto un fattore unificante tra Qatar e Arabia saudita e non è passato inosservato il cambio di rotta del famoso tele-predicatore sunnita Yusef Qaradawi (vicino all’emiro al-Thani) che appena un anno fa lanciava dagli studi di al Jazeera attacchi al vetriolo – ascoltati da milioni di telespettatori arabi – contro i «servi degli Stati uniti» ed elogiava l’alawita (sciita) Assad. Qaradawi ora considera la caduta del regime siriano l’obiettivo islamico (sunnita) più urgente, con il fine evidente di spezzare l’alleanza tra Damasco e Tehran e isolare la Repubblica islamica sciita. Di pari passo Doha, assieme a Riyadh, ha condotto nella Lega araba una battaglia per l’imposizione di sanzioni durissime contro Assad, non mancando di scontrarsi con l’Algeria contraria al ruolo di apripista dell’intervento militare della Nato che l’organizzazione pan-araba ha svolto nel caso della Libia e che si accinge a svolgere anche in Siria.
Eppure tanto protagonismo potrebbe avere in tempi relativamente brevi un effetto boomerang sulle aspirazioni dell’emiro al-Thani che, alla continua ricerca di visibilità, sulle frequenze satellitari di al Jazeera, rischia di pestare i piedi all’Arabia saudita e di vedersi relegato ad una posizione secondaria in conseguenza di uno scontro diplomatico con Riyadh.
Senza dimenticare che l’onda della protesta araba potrebbero finalmente arrivare anche nel resto Golfo, dopo Bahrain, Oman e Kuwait.
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