Beit Sahour (Cisgiordania) – Gran traffico diplomatico tra Ramallah, Tel Aviv ed Amman. Anche la Giordania, scampata alla “primavera araba”, sta cercando un nuovo ruolo nel mutato contesto mediorientale. Il 21 novembre scorso, il re Abdullah II si è recato per la prima volta dopo più di un decennio in visita a Ramallah dal presidente palestinese Abu Mazen. A seguire, il premier israeliano Peres è stato nella capitale giordana, dove pochi giorni dopo si sono incontrati anche il capo dell’opposizione israeliana Tzipi Livni e Abu Mazen. Motivo: il tentativo di rilanciare i negoziati di pace tra Israele e Palestina. Ma sopratutto, chiarire due punti fondamentali: limitare Hamas ed il peso del Patto di Riconciliazione nazionale tra Hamas e Fatah. E consolidare il ruolo della Giordania nella gestione dell’emergenza siriana.
“Una delle ragioni della visita (del re Abdullah a Ramallah, ndr) è assicurare che le relazioni (di Amman) con Hamas non sostituiranno i rapporti con noi” ha dichiarato Hanan Ashrawi dell’organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) al momento dell’arrivo della delegazione giordana. Il capo di Hamas Meshaal, esiliato nel 1999 da Amman a Damasco, incontrerebbe presto, secondo fonti ufficiali giordane, il re hascemita per discutere dei negoziati di riconciliazione nazionale palestinese. In un’intervista alla televisione di stato, il ministro degli esteri giordano ha peró puntualizzato che una visita di Meshaal ad Amman non significherebbe instaurare rapporti bilaterali diretti con Hamas. Il canale preferenziale è e rimane l’Autorità palestinese.
Il movimento islamico Hamas è stato espulso nel 1999 dalla Giordania, dove il 60% della popolazione é di origine palestinese e il regno hascemita teme l’ascesa al potere dei Fratelli Musulmani – ora cooptati dal sistema – più di ogni altra cosa. Dopo la vittoria in Marocco, Tunisia ed Egitto anche in Giordania il timore di una crescente influenza islamica rimane. E spinge Abdullah II a ridefinire il suo ruolo.
In Palestina, il sovrano hascemita è a favore del Patto di riconciliazione nazionale a condizione che Fatah sia il partner primo. Su questo, sembra esserci consenso con la Livni. “Il Medio Oriente sta cambiando – riporta l’agenzia AFP dopo l’incontro bilaterale con Abbas ad Amman – e le impasses servono agli estremisti che sfruttano le tensioni nelle strade del mondo arabo. Ora abbiamo bisogno di agire congiunti contro le forze islamiste estremiste”. E rispetto alla riconciliazione, continua: “Non lasciate che sia Hamas a dettare l’agenda del governo di unità nazionale. Con loro non avete chances per la pace”.
Gli sforzi del re Abdullah vanno nella stessa direzione. Durante la visita del presidente israeliano Shimon Peres, il re aveva chiesto lo stop della costruzione delle colonie illegali nei Territori palestinesi per poter tornare al tavolo dei negoziati. Un richiamo non tanto secco da far dubitare dei buoni rapporti tra Amman e Tel Aviv. Tanto che il ministero degli esteri israeliano del partito di estrema destra Beiteinu è stato citato dal Comitato parlamentare per Affari esteri e di difesa: “La Giordania è un elemento di stabilità regionale rispetto a ció che sta succedendo in altre nazioni”.
Per riacquistare peso strategico nel nuovo disegno del Medio Oriente, Amman deve guardare a Damasco. Alcune settimane fa, manifestazioni organizzate di fronte all’ambasciata americana contro le ingerenze estere in Siria hanno reso evidente la divisione giordana sull’emergenza del vicino. Sei partiti d’opposizione, di sinistra e nazionalisti, avevano cambiato lo slogan della manifestazione da “NO all’ingerenza americana nelle questioni arabe” a “Giù le mani dalla Siria”.
Una presa di posizione da cui gli islamisti del Fronte per l’Azione Islamica (IAF) si sarebbero dissociati, perché mostrerebbe un chiaro supporto al regime siriano, definito “criminale” dal segretario dell IFA Nimr al-Assaf al quotidiano Al Alkhbar. Il consenso contro le interferenze americane in Siria, Libia Iraq o Sudan non vorrebbe dire sollevare il regime siriano dalla responsabilità di mettere fine al bagno di sangue e rispettare le richieste del popolo siriano. Ma il supporto a Bashar Al Assad non manca neppure in Giordania: lo scorso venerdì attivisti ed esponenti dei movimenti nazionalisti giordani si sono uniti a membri della comunità siriana in Giordania per manifestare in supporto al regime e al popolo siriani davanti all’ambasciata siriana di Amman.
Il regno rivaluta infine l’appoggio incondizionato alle sanzioni decise dalla Lega Araba contro la Siria e dapprima supportate da tutti gli stati membri tranne Libano e Iraq, chiedendo l’esenzione dell’aviazione e del settore commerciale. Al quotidiano Jordan Time il ministro degli esteri giordano ha dichiarato che le sanzioni avrebbero un impatto negativo sul paese. Secondo il ministero del Commercio, il 60% degli scambi commerciali della Giordania passano attraverso il terrritorio siriano e il volume commerciale tra i due stati era di 7 miliardi di dollari nel 2000. Dopo che Abdullah aveva affermato lo scorso mese al Jordan Times: “Al posto di Bashar al Assad, io mi dimetterei”, il governo ora assicura che la situazione in Siria è ben lontana dall’essere un’emergenza umanitaria e la creazione di una zona cuscinetto alle frontiere per accogliere i siriani in fuga è da escludere. Missione: Tenere a bada la Siria senza daneggiare i propri equilibri.
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