Violenza di stato sulle donne in Turchia
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Violenza di stato sulle donne in Turchia

Cresce il numero delle vittime di violenza domestica. La legge per la tutela esiste ma non viene applicata. Perché la famiglia viene prima dei diritti delle donne.

Donne in Turchia
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10 Ottobre 2011 - 16.05


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di Barbara Antonelli

Selvi T. ha 22 anni, è turca. Nel 2000, a 12 anni, in seguito alla morte di suo padre, è stata data in sposa ad un marito che l’ha picchiata da subito, mentre portava in ventre il loro primo figlio. Nel 2008, le percosse del suo sposo le sono costate fratture al cranio e a un braccio, tanto che Selvi si è finalmente rivolta alla polizia. Gli agenti hanno convocato il marito e poi l’hanno rassicurata: “Non c’è alcun problema, gli abbiamo parlato, ora potete tornare a casa.” La seconda volta che si è affidata alla giustizia, con la testa sanguinante, le è stato detto che “avrebbe dovuto fare la pace con lui”. Così ugualmente la terza. Nel 2010, il marito ha lasciato che venisse stuprata da amici, Selvi è fuggita. Ma la legge non ha fatto nulla, una trafila che si ripete per molte donne turche. Sono il 42% sopra i 15 anni e il 47% di quelle che vivono in aree rurali – parliamo quindi di 11 milioni – le donne turche vittime di violenze fisiche o sessuali da parte di mariti o partner. Lo dice uno studio dell’Università di Hacettepe e lo conferma un recente documento dell’organizzazione Human Rights Watch, dal titolo “Lui ti ama, lui ti picchia”.

La Turchia non è certo tra gli ultimi paesi della regione in materia di legislazione in difesa dei diritti delle donne. Le riforme introdotte, specialmente in anni recenti, con il tentativo di entrare nell’Unione Europea, hanno fornito maggiore libertà alle donne nella sfera pubblica, lasciando però inalterata quella privata.

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Esiste una riforma del codice civile (nel 2001) e di quello penale (2004/2005). Esiste soprattutto la legge 4320, sulla “Protezione della famiglia” (si badi bene, non della “donna”): adottata nel 1998 e emendata nel 2007, consente di emettere un ordine di protezione per un massimo di 6 mesi (ulteriormente estendibile) per garantire la sicurezza di una persona soggetta ad abusi da parte di un membro della famiglia, “che viva sotto lo stesso tetto”.

Esistono anche le case-famiglia, i ricoveri: il governo qualche anno fa ha deciso che ogni municipio con più di 50.000 abitanti, dovrebbe averne uno; ma nella realtà questo non avviene e anche quelli funzionanti escludono alcune categorie di donne (incinte o senza documenti, con disabilità fisiche o psicologiche, se coinvolte nella prostituzione o nel traffico legato al sesso.

Le leggi esistono quindi, sebbene non indirizzate, come la 4320, a tutte le donne (ne sono escluse di fatto le single, le divorziate o quelle che hanno contratto un matrimonio religioso non civile) ma non vengono applicate da agenti delle forze dell’ordine, pubblici ufficiali, giudici, procuratori. Tutti uomini, per i quali la priorità è “preservare l’unità della famiglia” e che spingono la vittima a “riconciliarsi” con chi ha abusato di lei.

Secondo lo studio dell’Università di Hacettepe solo l’8% delle vittime ha cercato aiuto presso ONG o associazioni; solo il 3% si è rivolto alla polizia o al muhtar, il capo villaggio. Una riluttanza che è intrinsecamente legata alla visione arcaica della donna, che regna in Turchia.

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Dal 2007 ad oggi solo il 9% dei seggi in Parlamento è occupato da donne. E se nelle recenti elezioni i seggi rosa sono passati da 48 a 78, l’AKP, il Partito della giustizia e sviluppo, islamico moderato-conservatore guidato dal premier Recep Tayyp Erdogan, che a giugno ha vinto per la terza volta consecutiva, ha dato chiari segnali su cosa intenda per “diritti delle donne”. Pochi giorni prima delle elezioni ha cancellato il Ministero della Donna e della Famiglia, sostituendolo con un Ministero per la Famiglia e le politiche sociali.

Non si tratta solo di nomenclatura, fanno notare da HRW, ma di un segnale forte che intende ricondurre i diritti della donna alla sfera privata della famiglia.

Del resto l’orientamento conservatore dell’AKP, era stato chiaro già nel corso della campagna elettorale: le affermazioni del premier Erdogan, secondo cui “le donne dovrebbero almeno avere tre figli”, la sua battaglia contro il controllo delle nascite e contro il divorzio e qualche anno prima, nel 2004, il tentativo (nell’ambito della riforma del codice penale) di far passare un articolo che avrebbe criminalizzato l’adulterio, sono tutte facce della stessa medaglia. Quando si è parlato di donne nella campagna elettorale di Erdogan è stato solo per screditare candidati avversari filmati di nascosto in situazioni compromettenti.

La risposta al dramma della violenza domestica è caratterizzata da forti contraddizioni, sottolinea HRW, e molte donne continuano ad essere violentate, accoltellate, colpite all’addome, recluse con animali, lasciate senza cibo né acqua per giorni, senza che vi sia un’azione chiara da parte dello Stato. La situazione si aggrava nelle zone rurali o per le minoranze, come quella curda: qui non solo le donne non hanno fiducia nelle forze di polizia, che abitualmente reprimono la minoranza curda, ma non parlano né scrivono turco, rimanendo ancora più isolate.

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In termini di disuguaglianza tra uomo e donna, la Turchia nel 2010 – secondo l’Indice delle Nazioni Unite sui Programmi di Sviluppo Globale- si è guadagnata l’ottantatreesimo posto, indietreggiando di ben 6 posizioni rispetto al 2008. I dati relativi alla forza lavoro e all’analfabetismo sono altrettanto drammatici: nella forza lavoro retribuita, le donne rappresentano il 27% ; mentre su 4,7 milioni di analfabeti nel paese, 3,8 sono donne.

Ma quello che preoccupa è l’enorme divario tra quanto dice la legge e la sua effettiva applicazione. Un divario che può avere esiti tragici, come dimostra il caso – famoso sulla stampa turca – di Fatma Babatli; la giovane donna di Diyarbakir ottenne un ordine di protezione emesso da un tribunale, per essere continuo oggetto delle violenze del marito. Un ordine che la procura non si è mai applicata a far rispettare al marito di Fatma, che l’ha uccisa nel 2008. Una morte che lo Stato avrebbe potuto evitare.

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