Rapporto Palmer: come legittimare il blocco di Gaza
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Rapporto Palmer: come legittimare il blocco di Gaza

Lascia perplessi la decisione di esaminare il blocco in punto di diritto, in quanto nessun mandato in tal senso era stato ricevuto dalla commissione.

Rapporto Palmer: come legittimare il blocco di Gaza
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5 Settembre 2011 - 12.51


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di Chantal Meloni*

E’ stato pubblicato il 2 settembre il Report del Panel di inchiesta sull’incidente della Flottilla del 31 maggio 2010, commissionato dal Segretario Generale dell’ONU. Il Panel era presieduto da Geoffrey Palmer, ex premier neozelandese, e composto dall’ex presidente colombiano Alvaro Uribe (vice-presidente), e da Joseph Ciechanover Itzhar e Suleyman Ozdem Sanberg, come rappresentati rispettivamente di Israele e della Turchia.

La pubblicazione del rapporto è stata ritardata, come riportato dai giornali, per tentare di riconciliare le posizioni della Turchia e di Israele, divergenti in merito alle conclusioni del Panel di inchiesta, ed evitare un incidente diplomatico; incidente diplomatico che si è infatti puntualmente manifestato il giorno stesso della pubblicazione, con il declassamento da parte della Turchia delle relazioni con Israele al livello più basso della scala diplomatica e conseguente ritiro da parte di Ankara del suo ambasciate in Israele ed espulsione dell’ambasciatore israeliano dalla Turchia.

La Turchia pretende scuse ufficiali (e risarcimento dei danni) da parte del governo israeliano per quanto avvenuto il 31 maggio 2010, quando nove passeggeri turchi della nave Mavi Marmara sono stati uccisi, e molti altri feriti, dalle forze speciali israeliane nel corso di un’operazione volta ad impedire alla flottilla in rotta verso Gaza di avvicinarsi a destinazione. Il primo ministro israeliano Netanyahu rifiuta categoricamente la presentazione di tali scuse – che potrebbero “fiaccare il morale degli israeliani” – sebbene anche il rapporto appena pubblicato confermi ancora una volta quanto già emerso nel corso delle precedenti indagini svolte dalla commissione di indagine turca, nonché dalla Fact Finding Mission dell’Onu (cf. il Report di settembre 2010), ossia che : “Le morti e le ferite risultanti dall’uso della forza da parte delle forze israeliane durante la cattura della Mavi Marmara sono inaccettabili. Nove passeggeri sono stati uccisi e molti altri feriti seriamente dalle forze israeliane. Nessuna spiegazione soddisfacente è stata fornita al Panel da parte di Israele per alcuna delle nove morti. Le prove forensiche che dimostrano che molti proiettili hanno colpito la maggior parte dei deceduti, anche di schiena o sparati da distanza molto ravvicinata, non sono state adeguatamente prese in considerazione nel materiale presentato da Israele”.

E’ difficile ignorare la crudeltà e violenza che emergono dalla ricostruzione delle nove ‘fatalità’, sebbene celate dietro freddi resoconti forensici [il rapporto dell’inchiesta interna israeliana, e riportata in parte dal Panel di indagine (par. 56) utilizza una macabra elencazione dei corpi – corpo nr. 1, corpo nr. 2, corpo nr. 3, e così via – nel descrivere le ferite riscontrate, omettendo i nomi delle vittime]. Sette delle vittime – Ali Bengi, Cengiz Akyuz, Cetin Topcuoglu, Fahri Yaldiz, Furkan Dogan, Ibrahim Bilgen e Necdet Yildirim – sono stati raggiunti da numerosi colpi d’arma da fuoco in punti vitali: cinque di loro sono stati colpiti anche di spalle. In particolare Cengiz Akyuz, Cetin Topcuoglu e Furkan Dogan sono stati uccisi con colpi di pistola alla nuca, mentre Ibrahim Bilgen con un colpo alla tempia. Due persone sono state uccise da un singolo proiettile: Cevdet Kiliclar è stato colpito da uno sparo in mezzo agli occhi, mentre Cengiz Songur è stato ucciso da uno sparo alla base della gola. Alcuni di loro sono stati uccisi da distanza estremamente ravvicinata: le ferite riscontrate sul corpo di Furkan Dogan, alla faccia, sul retro del cranio, alla schiena e alla gamba destra, suggeriscono che il ragazzo sia stato finito mentre già si trovava riverso a terra ferito, come molte testimonianze di altri passeggeri hanno indicato.

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La commissione ha inoltre confermato che le vittime non erano armate ed ha dato conto del fatto che – stando alle testimonianze di alcuni passeggeri – almeno due passeggeri della Mavi Marmara sarebbero stati uccisi da colpi sparati dagli elicotteri ancora prima dell’arrembaggio della nave da parte delle forze israeliane.

Sebbene importanti, tali conclusioni in merito alla sproporzionata risposta israeliana ed alla relativa responsabilità per le morti, le ferite e i danni causati ai passeggeri della flottilla, purtroppo non costituiscono la parte più rilevante del Report. E’ significativo infatti notare che, piuttosto che sulla condanna (tutto sommato scontata) dell’operazione condotta dalle forze israeliane contro i passeggeri della flottilla, la maggiore attenzione, anche mediatica, si è concentrata sulle conclusioni raggiunte dal Panel di inchiesta nella prima parte del Report, relativamente alla legittimità del blocco di Gaza sotto il profilo del diritto internazionale (si veda l’editoriale del New York Times del 2 settembre).

Occorre premettere in proposito che lascia alquanto perplessi la decisione stessa di esaminare tale profilo in punto di diritto, in quanto nessun mandato in tal senso era stato ricevuto dalla commissione. Appare inoltre pretestuosa l’argomentazione per cui l’analisi della legittimità o meno del blocco imposto da Israele sarebbe stata una necessaria premessa per potere procedere oltre nella verifica della legittimità o meno delle azioni intraprese dall’esercito israeliano nei confronti della flottilla (par. 69). Pretestuoso anzitutto perché ben avrebbe potuto la commissione immaginare due diversi scenari (blocco legittimamente/illegittimamente imposto) e trarre le proprie conclusioni, eventualmente diverse, di conseguenza.

Pretestuoso soprattutto perché in realtà vi erano sufficienti elementi a disposizione della commissione per poter dichiarare illecita l’azione a prescindere dalla legittimità o meno del blocco. Tra questi elementi in particolare erano da considerare la posizione della Mavi Marmara quando è stata bloccata e attaccata: in piene acque internazionali, ben 72 miglia nautiche dalla costa e 64 dall’inizio della zona off limits; la mancanza di effettivi avvertimenti prima del ricorso alla forza; il mancato rispetto delle procedure relative alla richiesta di ispezionare il carico a bordo; la colpevole errata pianificazione dell’operazione di arrembaggio della flottilla, volta a scatenare panico e confusione piuttosto che a condurre pacificamente le navi a cambiare rotta; la palese sproporzione nel ricorso alla forza dei soldati delle forze speciali israeliane contro disarmati passeggeri.

Non vi erano quindi reali necessità per il Panel di stabilire la legittimità del blocco navale di Gaza, e la decisione di dedicare tanta parte dell’analisi a questo aspetto va letta come una scelta assolutamente arbitraria della commissione, che per altro non era dotata della competenze per affrontare tale delicato e complesso punto, ne’ – lo si ripete – aveva ricevuto mandato in tal senso. Si può insomma avanzare il sospetto che tale decisione riveli i veri fini del Panel, certamente più politici che giuridici.

Ma ciò che preme sottolineare è che, ad una analisi più approfondita, il Report appare viziato da diversi errori di fatto e di diritto che ne hanno inficiato le conclusioni. Tralasciando le numerose inesattezze fattuali e omissioni, si possono individuare due rilevanti errori di diritto che rendono il Report assolutamente falsato sul punto.

1. In primo luogo la commissione ha erroneamente considerato il blocco navale (blockade) di Gaza come qualcosa di diverso e scollegato dalla più ampia chiusura (closure) imposta da Israele sullo stesso territorio, che comporta la totale chiusura dei border crossings della Striscia, impedendo il passaggio di merce e persone via terra. Per motivare tale impostazione il Panel di inchiesta ha fatto leva sulla circostanza che il blockade sarebbe stato deciso per motivi di sicurezza ed annunciato da Israele in data 3 gennaio 2009, quindi in un momento successivo rispetto alla imposizione della completa closure di Gaza, che è in vigore nella sua forma più estrema da oltre quattro anni continuativamente (a seguito della presa del potere da parte di Hamas).

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E tuttavia tale impostazione si rivela fallace a chiunque conosca la realtà della politica israeliana di chiusura e isolamento del territorio palestinese occupato, utilizzata da oltre 20 anni, inasprita a partire dal 2001 e ulteriormente esacerbata dal 2007. Gaza era già stata progressivamente isolata dal resto del territorio palestinese (la Cisgiordania) e tagliata fuori dal resto del mondo ben prima dell’avvento di Hamas al potere, e le sue coste erano già allora totalmente sotto il controllo israeliano, che già in precedenza ne impediva l’accesso a navi e natanti stranieri. Israele ha impedito alle navi di raggiungere Gaza fin da quando ne ha assunto il controllo nel 1967, ed ha continuato anche dopo il ritiro delle truppe nel 2005 (si veda in tal senso, Sari Bashi). I casi eccezionali di imbarcazioni che sono riuscite a raggiungere le coste di Gaza nel 2008, che si contano sulle dita di una mano, non valgono certo a smentire la pressoché assoluta inaccessibilità delle coste palestinesi.

Al di là quindi della dichiarazione formale del 3 gennaio 2009 (che va ricordato, era nel contesto e nel corso dell’operazione militare ‘Piombo Fuso’), la sostanza delle misure israeliane di assoluto controllo del territorio palestinese, incluse le sue coste, non è cambiata né certamente può essere considerata una novità del gennaio 2009. Sono 44 anni di occupazione militare che danno ad Israele il potere di bloccare ogni nave in entrata ed in uscita da Gaza. Il blocco di Gaza avrebbe pertanto dovuto essere valutato alla luce della legge sull’occupazione, che impone che i beni e gli aiuti umanitari raggiungano la popolazione civile del territorio occupato, una volta passati i controlli di sicurezza necessari. Non a caso tutte le istituzioni e organizzazioni internazionali che si sono pronunciate fino ad oggi sul blockade lo hanno valutato nella sua interezza, ovvero considerandolo nel contesto della generale chiusura di Gaza, inclusi gli accessi via terra, giungendo ad una netta condanna di tale misura così come imposta da Israele, che più che rispondere a logiche di sicurezza, integra una forma di punizione collettiva della popolazione civile (si vedano i comunicati della Croce Rossa Internazionale, del Consiglio dei Diritti Umani dell’Onu, le dichiarazioni dell’Alto Commissario per i Diritti Umani, di Catherine Ashton per le UE e del ‘Quartetto’, solo per citare alcune delle fonti che hanno dichiarato il blocco di Gaza illegittimo e chiesto la sua immediata cessazione).

2) Il secondo errore commesso dal Panel di indagine sul punto è di avere considerato il conflitto armato tra Israele e Hamas come un conflitto di natura internazionale, ma ai soli fini della “law of blockade” (cf. par. 73 Report). Occorre notare, infatti, che l’imposizione di un blockade (misura affatto chiara e dalle dubbie premesse giuridiche) è prevista in diritto internazionale consuetudinario solo nel contesto di un conflitto armato di natura internazionale, il che comporta che se si trattasse di un conflitto di natura interna l’intera impalcatura giustificativa costruita da Israele crollerebbe.

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La natura del conflitto israelo-palestinese, ed in particolare di quello tra Israele e Hamas, è effettivamente una questione tuttora dibattuta. Sebbene formalmente la Palestina non sia riconosciuta come Stato, e tanto meno Gaza, e quindi prima facie il conflitto non potrebbe essere definito come internazionale, vi sono argomenti in diritto per ritenere che questa caratterizzazione possa applicarsi al caso di specie. In particolare autorevoli fonti sostengono che il conflitto è di natura internazionale se ha luogo tra due o piú Stati o tra una Potenza Occupante e gruppi di ribelli o di insorti in un territorio occupato (A. Cassese).

La posizione prevalente nella comunità scientifica è, infatti, che si tratti di un conflitto di natura internazionale, con tutte le conseguenze del caso, in primo luogo relativamente alla applicazione delle Convenzioni di Ginevra e degli altri strumenti in materia. Il governo di Israele tuttavia non è coerente nella sua posizione, affermando talvolta di trovarsi in un conflitto armato internazionale contro Hamas nella Striscia di Gaza, ma al contempo disconoscendo di essere tenuto a rispettare le norme che regolano tale genere di conflitti, ed in particolare di accordare lo status di combattenti legittimi (e quindi, nel caso di cattura, di prigionieri di guerra) ai militanti palestinesi. Israele non riconosce inoltre di essere Potenza Occupante a Gaza, affermando che a seguito del piano di disengagement del 2005 (ossia del ritiro dei propri soldati dal territorio della Striscia) non ha più il controllo effettivo del territorio di Gaza. Tale posizione – che è in netto contrasto con la posizione dell’Onu e delle altre organizzazioni internazionali, inclusa la Croce Rossa Internazionale, che continuano a ritenere Gaza territorio occupato – è stata avallata dalla Corte Suprema israeliana (cf. il caso al Basyouni).

In breve, emerge una profonda incoerenza nella posizione israeliana, che è stata acriticamente fatta propria dal Report in questione. Delle due l’una: o Israele non è Potenza Occupante, e quindi il conflitto non può essere di natura internazionale, con la conseguenza che il blockade (e, più in generale il ricorso alla self-defense a norma dell’art 51 della Carta delle Nazioni Unite, giustificazione invocata a più riprese da Israele, e necessaria premessa per l’imposizione di un blockade) non è permesso; o il conflitto è di natura internazionale, il che il presuppone il necessario riconoscimento dello stato di occupazione belligerante di Gaza e comporta l’applicazione dell’intero pacchetto di norme di diritto umanitario che regolano i conflitti armati internazionali.

Una nota conclusiva. Tale Panel di inchiesta non è in alcun modo assimilabile ad un organismo giudiziale, non è una corte, e non è stato dotato dei necessari poteri di indagine; in particolare non ha avuto alcuno potere coercitivo nei confronti dei testimoni o per la raccolta delle prove, essendosi dovuto limitare ad analizzare i dati così come gli sono stati forniti dai due paesi coinvolti, Israele e la Turchia. Inoltre, nelle sue stesse parole, la commissione “non può presentare conclusioni definitive né in fatto né in diritto”. Ciò che può fare è semplicemente “dare le sue opinioni” (par. 6 Report). A fronte di tali ambiguità e vizi di analisi non resta che auspicarsi che alle opinioni espresse in tale Report non venga attribuita più importanza ed autorevolezza del dovuto.

*Ricercatrice di Diritto Penale, Università degli Studi di Milano.

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