Erdogan fa pace con Netanyahu
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Erdogan fa pace con Netanyahu

La nave turca Mavi Marmara, simbolo della Freedom Flotilla, non salperà per Gaza. E le relazioni tra Israele e Turchia tornano gradualmente normali.

Erdogan fa pace con Netanyahu
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22 Giugno 2011 - 15.02


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di Ika Dano

Sembra superata la crisi diplomatica tra Turchia e Israele. L’irremovibile richiesta turca di scuse israeliane per il raid del 31 maggio 2010 contro la nave Mavi Marmara, che fece nove morti tra gli attivisti turchi, riecheggia ormai lontana. Scuse ufficiali o rottura dei rapporti diplomatici, se Israele non si fosse sottoposta ad in’inchiesta internazionale, questo l’ultimatum del ministero degli esteri turco Ahmed Davutoglu subito dopo l’attacco alla flotilla l’anno scorso. Alle mancate scuse ufficiali – dibattute nuovamente in un incontro tra Netanyahu e il suo governo alcuni giorni fa – era seguita una crisi diplomatica. Ankara aveva richiamato il suo ambasciatore in Israele e alzato i toni di critica verso l’impunità israeliana. Ma niente più. Né la cooperazione militare, né i rapporti commerciali erano stati seriamente danneggiati dalle tensioni diplomatiche. Che trovano fine con l’annuncio ufficiale del ritiro della Mavi Marmara dalla seconda flotilla umanitaria internazionale pronta a salpare per Gaza a fine mese. Anche Hillary Clinton ha espresso la sua soddisfazione in proposito alla sua controparte turca.

Dopo le elezioni vinte per la terza volta, il partito di Erdogan sembra disposto ad abbassare i toni e a cercare la perduta armonia con l’alleato di lunga data in Medioriente. Un cambiamento di retorica che a Gerusalemme ci si aspettava dopo la vittoria elettorale, accolta con benevolenza da Netanyahu: “Israele non interferisce nelle questioni interne e non intende deteriorare la sue relazioni con la Turchia”, ha scritto il quotidiano israeliano Haaretz. Secondo fonti ufficiali americane e turche citate dallo stesso giornale, si stanno tenendo trattative segrete tra il rappresentante israeliano della commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite Yosef Ciechanover e il suo collega turco Ozdem Sanberk. I due hanno lavorato insieme per mesi nella commissione d’inchiesta sull’attacco dell‘esercito israeliano alle navi pacifiste in acque internazionali, e si ritrovano ora, su invito degli Stati Uniti, per appianare del tutto la crisi. La pubblicazione del rapporto di inchiesta ONU, atteso per l’inizio di luglio e accettato da entrambe le parti, potrebbe essere l’occasione per metterci definitivamente una pietra sopra.

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I buoni rapporti in realtà non sono mai stati veramente in pericolo, e Ankara già da qualche tempo mostra segni di ammorbidimento. Alzare i toni contro la politica israeliana e avvicinarsi a Teheran e Damasco sono costati alla Turchia non più di qualche accordo commerciale saltato, come il rifiuto punitivo di Israele di vendere ad Ankara intercettori di missile hightech riportato dalla rivista militare Jane’s Defense Weekly. “La Turchia veste l’esercito israeliano, specialmente esportando stivali militari” ha dichiarato un impreditore turco all’Hürriyet Daily News lo scorso maggio. Gli fa eco Uriel Lynn, presidente della Camera di commercio centrale israeliana a Tel Aviv : “I rapporti commerciali tra le famiglie di imprenditori turche e israeliane vanno rafforzandosi nonostante le tensioni tra i Paesi”. I dati del ministero degli esteri turco mostrano che il volume totale degli scambi commerciali é passato da 2,5 milliardi nel 2009 a 3,5 milliardi di dollari alla fine del 2010.

Normalizzare i rapporti con Israele fa parte del calcolo strategico della Turchia per consolidare il suo ruolo in Medioriente. Dopo il rifiuto europeo di aprire i battenti dell’Unione Europea verso sud, Ankara torna a concetrarsi sulla sua dimensione regionale. Tra la Nato, i vicini arabi per cui vorrebbe essere un modello da seguire, ed Israele. Primo segnale: il discorso di Obama era stato accolto positivamente dal presidente turco Gul, che in un’intervista al Wall Street Journal ne lodava il riferimento alle frontiere del 1967 e mostrava comprensione per il rifiuto a negoziare con Hamas, richiamata ad assumere una posizione razionale rispetto al riconoscimento dello Stato ebraico.

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Con l’escalare della situazione in Siria, anche l’amicizia con Assad sta perdendo di importanza. Non tanto per il problema dei rifugiati – 10.000 alle frontiere secondo il portavoce Onu ad Ankara – ma per le riflessioni strategiche turche. Sul campo siriano si gioca il rapporto di forza tra gli Stati Uniti da una parte e l’Iran dall’altra. Prendere le distanze dalla repressione del regime siriano, definita ultimamente “selvaggia” dal vicino settentrionale, é determinante per spartirsene il controllo se Assad dovesse davvero cadere. E per consolidare il ruolo di partner strategico che la Turchia vuole avere con gli Stati Uniti e il loro alleato israeliano. Sul versante nordafricano le rivolte arabe, se andranno a buon fine, potrebbero portare alla ribalta il punto di riferimento storico del mondo arabo, l’Egitto – non per niente detto “Umm el dunia – madre del mondo”- e minare la chance della Turchia di affermarsi definitivamente come modello esemplare di società moderna, democratica e musulmana, in equilibrio tra Occidente ed Oriente.

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Intanto il presidente palestinese Abu Mazen é partito oggi per Ankara per un giro di negoziazioni mirate a salvare il patto di riconciliazione tra Hamas e Fatah. Si dice che la Turchia voglia provare a convincere Hamas ad accettare Salam Fayyad come nuovo primo ministro nel futuro governo di unità nazionale. Per Erdogan ora più che mai è importante lasciare spazio al pragmatismo strategico.

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