Il ruolo delle donne in san Paolo: un'analisi sulla loro partecipazione e responsabilità nella prima Chiesa

Il ruolo delle donne nelle lettere di san Paolo evidenzia la loro partecipazione attiva e responsabilità nelle prime comunità cristiane, sfidando stereotipi e valorizzando il loro contributo.

Il ruolo delle donne in san Paolo: un'analisi sulla loro partecipazione e responsabilità nella prima Chiesa
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11 Marzo 2025 - 23.50


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di Antonio Salvati

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Sono passati pochi giorni dalla celebrazione della Giornata internazionale della donna, attraverso la quale si intende ricordare l’importanza dei diritti delle donne e delle conquiste sociali, politiche ed economiche ottenute. Da alcuni anni è soprattutto una ricorrenza in cui si richiama l’attenzione sulle disuguaglianze di genere ancora esistenti, sugli stereotipi e le discriminazioni, sulla violenza, sui carenti diritti riproduttivi, e così via. Ogni giornata è un’opportunità preziosa per riflettere su temi importanti, sensibilizzare su questioni globali e promuovere valori fondamentali come la pace, l’uguaglianza, la sostenibilità e il rispetto dei diritti umani. In relazione alla Giornata internazionale della donna è utile – a mio parere – ricordare il ruolo delle donne nella Chiesa nascente del I secolo e, soprattutto, nella considerazione dell’apostolo Paolo.

Il tema del ruolo delle donne nelle lettere di san Paolo ha suscitato negli ultimi anni grande interesse, con un’ampia bibliografia che almeno ne documenta la complessità. Complessità di cui occorre tenere conto contro l’opinione diffusa di un’ostilità maschilista di Paolo nei confronti delle donne. È ancora, infatti, diffusa l’idea che tra Paolo e le donne non sia corso buon sangue. Non si possono negare – ha affermato la teologa Elena Bosetti nel 2009 in occasione dell’Anno Paolino – alcune aperture, «ma in fondo serpeggia il sospetto che l’Apostolo abbia contribuito a frenare la carica rivoluzionaria del Vangelo. È davvero così? Trova fondamento questo sospetto nelle Lettere dell’Apostolo?». Si potrebbero rilevare molte e contrastanti risposte, considerando le pubblicazioni sull’argomento, numerose e in costante in aumento. Un noto biblista Romano Penna provocatoriamente disse: «[…] non penso affatto di esagerare se ritengo che, nonostante tutto, tra gli autori neotestamentari Paolo di Tarso è il più femminista, persino più di Gesù!». Un interessante volume ci aiuta a far chiarezza: quello curato dalla biblista catalana Nuria Calduch-Benages, San Paolo e le donne, (Milano Vita e pensiero, 2019 pp. 112, € 12), contenente alcuni profili relativi alle donne che hanno condiviso con Paolo l’attività pastorale.

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È quasi superfluo ricordare che Paolo o Saulo di Tarso è senz’altro tra i personaggi fondamentali nella storia del cristianesimo vi fu Saulo. Non solo per le sue 13 lettere indirizzate alle molteplici chiese fondate da lui stesso nell’Asia Minore e nella Grecia Antica, ma anche per il suo instancabile impegno che gli ha consentito di raggiungere vari popoli nel corso della sua vita, insegnando e tramandando loro gli insegnamenti di Gesù Cristo. Nessuno ha mai contribuito per la fede cristiana quanto lui. Saulo, detto di Tarso, nasce nella città di Tarso, nell’odierna Turchia, proprio durante gli stessi anni della nascita di Gesù. Analizzando l’origine del suo nome, rileviamo che Saulo è il suo nome ebraico. Probabilmente Paolo gli fu comunque attribuito alla nascita, per via della tradizione culturale greca. Paolo è a pieno titolo parte della società del suo tempo, essendo di cultura ebraica, lingua greca e con cittadinanza romana. Saprà sfruttare appieno la conoscenza della cultura ellenica, patrimonio comune del mondo greco-romano, e l’apparato politico-amministrativo dell’impero romano. Il biblista Angelo Penna spiegò che la nuova religione si giovò non poco della situazione creatasi col sorgere dell’impero romano. Questo aveva unificato i paesi del bacino mediterraneo«apportandovi la famosa pax romana e un innegabile senso di giustizia e di tolleranza, nonostante tutto; inoltre aveva curato un’organizzazione centralizzata molto efficiente e una rete viaria meravigliosa che univa Roma con i punti più lontani delle vaste frontiere. I propagatori del cristianesimo sfruttarono queste comodità, viaggiando moltissimo senza preoccuparsi di frontiere o di zone insicure».

Una lettura semplificata delle lettere paoline senza approfondire, fidandosi delle traduzioni e avendo in mente dottrine religiose e non bibliche, condurrebbe a credere che l’apostolo Paolo imponga alla donna la sottomissione al marito, le imponga addirittura il velo e le imponga perfino il silenzio nelle riunioni liturgiche. L’espressione incriminata e più problematica è contenuta nella prima lettera ai Corinzi: «Le donne nelle chiese stiano zitte (…) È indecente infatti per una donna parlare nell’assemblea» (1Cor 14,34 – 35).   Questa frase è stata spesso un cavallo di battaglia dentro e fuori la Chiesa per dimostrare l’atteggiamento misogino di Paolo, sia per condividerlo sia per condannarlo. In 1 Timoteo 2, 11 leggiamo: «La donna impari in silenzio con tutta sottomissione; non concedo a nessuna donna di insegnare né di dettare legge all’uomo; piuttosto se ne stia in atteggiamento tranquillo». Se questi versetti non suscitano risentimento, quanto meno danno luogo a molta perplessità. Soprattutto se si ricorda l’atteggiamento di Gesù nei confronti del mondo femminile e la sua prassi liberatrice della donna. L’interpretazione di Romano Penna, noto biblista recentemente scomparso, sulla Prima Lettera ai Corinzi offre una prospettiva chiara sul ruolo delle donne nelle chiese paoline. Infatti, la partecipazione attiva delle donne e il loro riconoscimento da parte di Paolo dimostrano che l’accusa di antifemminismo è infondata. La sua analisi sfida gli stereotipi e sottolinea l’importanza delle donne nella comunità cristiana fin dall’inizio. Infatti, gli scritti paolini (e gli Atti degli Apostoli) testimoniano il ruolo attivo delle donne nelle prime comunità cristiane, impegnate com’erano nel campo della carità, del diaconato, della catechesi, dell’evangelizzazione, della missione e dell’apostolato. Apostole, diaconesse, missionarie.

Partendo dalla relativizzazione del genere e alla affermazione eloquente e sorprendente che Paolo fa nella Lettera ai Galati dove espone un principio cardine del cristianesimo: «Tutti quanti siete stati battezzati in Cristo avete rivestito Cristo. Non c’è giudeo né greco, non c’è schiavo né libero, non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno solo in Cristo Gesù» (3, 27-28). Per Penna vengono così annullate «tutte le differenze o meglio le contrapposizioni: culturali, sociali, e persino sessuali». In quest’ultimo caso, l’apostolo non intende certo affermare che tra i cristiani si verifichi il superamento del dato creaturale della distinzione dei generi (ben stabilito in Genesi 1, 27). Su questa distinzione in Israele si era fondata una pretesa superiorità dell’uomo sulla donna, come si legge in Flavio Giuseppe: «La donna, come dice la Legge, è in ogni cosa inferiore all’uomo» (Contro Apione 2, 201), mentre il Talmud Babilonese decreta che in sinagoga «una donna non deve leggere dalla Torah per rispetto all’assemblea» (Megillah 23a), anche se altre affermazioni sembrano attenuare il giudizio come leggiamo in un midrash: «(…) davanti a Dio tutti sono uguali: donne, schiavi, poveri e ricchi» (Esodo Rabbà 21, 4).

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Un’altra questione – assai rilevante – addotta per sostenere il “femminismo” di Paolo è quella delle varie responsabilità accordate alle donne nelle comunità paoline. La partecipazione attiva di donne è ampiamente documentata. Sono addirittura menzionate singolarmente per nome, nell’esercizio di un impegno che riguarda sia la fondazione di chiese sia i ministeri al loro interno. In particolar modo, l’ultimo capitolo della Lettera ai Romani, specie 16, 1-16, ci riserva un’ampia e sorprendente documentazione in materia. Per sapere quante siano le persone qui lodate da Paolo per il loro impegno evangelico in rapporto alla comunità, è utile scorrere la folta lista di nomi di persone a cui sono rivolti i saluti: abbiamo sette nomi di donne (Prisca, Maria, Giunia, Trifena, Trifosa, Perside, Giulia); si potrebbe aggiungere il nome di Febe qualificata nel versetto 1 come «sorella» e soprattutto diàkonos della Chiesa di Cencre. Ma essendo portatrice della lettera Paolo non le rivolge alcun saluto, a cui se ne aggiungono due innominate (al versetto 13 la madre di Rufo e al 15 la sorella di Nereo), e diciassette nomi di uomini (Aquila, Epeneto, Andronico, Ampliato, Urbano, Stachi, Apelle, Erodione, Rufo, Asincrito, Flegonte, Erme, Patroba, Erma, Filologo, Nereo, Olimpas). Se facciamo un discorso meramente statistico dobbiamo constatare che le donne impegnate per l’Evangelo superano gli uomini per sette (Prisca, Maria, Giunia, Trifena, Trifosa, Perside, la madre di Rufo) a cinque (Aquila, Andronico, Urbano, Apelle, Rufo). Oltre a Febe notiamo il nome di Prisca (da notare anteposto al nome del marito Aquila), che ospita i cristiani nella propria casa, entrambi qualificati da Paolo come suoi «collaboratori»; poi vengono i nomi di Maria «che ha faticato molto per voi», di Giunia accomunata ad Andronico , essendo entrambi «insigni tra gli apostoli» e quindi apostolo essa stessa, poi Trifena e Trifosa «che hanno lavorato per il Signore» , e infine di Perside definita «carissima», di cui si ripete che ha lavorato per il Signore. Questa pagina epistolare da sola è sufficiente a smentire un supposto antifemminismo di Paolo.

E non parliamo dei nomi di Lidia (in Atti degli apostoli 16, 14-16); di Cloe (in 1 Corinzi 1, 11), e poi di Tecla (negli apocrifi Atti di Paolo e Tecla). In tutti questi casi Paolo rende onore a un’intera serie di donne per il loro impegno di attiva responsabilità dimostrato nella vita delle Chiese. A parte andrebbe poi ricordato il diritto che egli poteva accampare di avere con sé, non una donna credente ma una credente come moglie.

In altri termini, si può ritenere che all’interno delle Chiese paoline le donne esercitassero delle funzioni tali che non ebbero neanche al tempo di Gesù, a parte una loro significativa presenza alla croce e al sepolcro vuoto. Infatti, di una loro responsabilità ecclesiale si può parlare solo nel periodo successivo alla Pasqua e specificamente appunto nelle Chiese paoline, dato che non abbiamo notizia di donne attive nelle Chiese giudeo-cristiane (a meno di considerare tali quelle delle Lettere Pastorali, dove però viene riconosciuto un ruolo particolare al gruppo delle vedove in 1 Timoteo 5, 3-16).

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Occorre considerare la Chiesa delle origini non nasce in uno spazio cultuale, ma nella casa, come domus ecclesia. Essa si consolida e si struttura all’interno delle mura domestiche, dove vive una famiglia, comunità caratterizzata da legami di sangue, vincoli di affetto e dinamiche di collaborazione reciproca, e dove la donna opera attivamente come garante dell’accoglienza e dell’ospitalità. Diversi studiosi sottolineano come le prime comunità cristiane si articolassero e organizzassero attorno alla casa (òikos), spazio specificatamente femminile, posto che nella società civile l’ambito pubblico era riservato agli uomini. Le prime comunità cristiane erano dunque nate come “Chiese domestiche”, strutturate attorno a una casa (domus) che alcuni credenti mettevano a disposizione dei missionari e della comunità locale (Rm 16,2.5; 1Cor 16,19). Gli scritti del Nuovo Testamento riferiscono che donne ricche, nobili o di una certa rilevanza sono le principali benefattrici di alcune comunità. Così, negli Atti degli Apostoli, Tabita di Giaffa (9,36.42), Maria, la madre di Giovanni soprannominato Marco (12,12-17), Lidia (16,14-15.40), Damaris di Atene (17,34) o donne illustri di Tessalonica e Berea (17,4-12), Priscilla e suo marito Aquila (18,2-3) a Efeso (1Cor 16,19) e a Roma (Rm 16,5), e Febe a Cencre (Rm 16,1-2), che, oltre a ricevere il titolo di «sorella» e «diacono», è anche chiamata «benefattrice» (prostátis).

Le donne hanno insegnato, predicato e fondato chiese domestiche, diffondendo ovunque il profumo del Vangelo. Sappiamo cosa è successo dopo, purtroppo. Così lo racconta la storica e teologa Adriana Valerio: «Questo protagonismo femminile, tuttavia, viene presto dimenticato e messo in ombra. Nelle comunità post-paoline, infatti, allontanatasi l’attesa della fine imminente del mondo, si afferma sempre di più un’organizzazione gerarchica a guida maschile, grazie anche a un lento processo di clericalizzazione del tutto assente in Paolo». La donna, dunque, scompare dalla scena, a poco a poco, in silenzio, senza che nessuno si accorga della sua assenza.

Nella Chiesa si assiste oggi ad un innegabile impegno per promuovere il riconoscimento dell’apporto delle donne alla costruzione quotidiana del vissuto ecclesiale. A tale riconoscimento si associa sempre più autorevolmente la richiesta di garantire ad esse anche un vero e proprio ruolo di responsabilità. Su questa linea è impegnato anzitutto papa Francesco, che fin dall’inizio del suo pontificato non ha esitato a proclamare con una innegabile forza la necessità di «allargare gli spazi per una presenza femminile più incisiva nella Chiesa». Ma questa è un’altra storia.

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