di Antonio Salvati
Questi giorni – per merito ed iniziativa della Comunità di Sant’Egidio – si sono raccolti a Roma leader e credenti di varie religioni con umanisti laici, non nel chiuso di un laboratorio, ma di fronte agli scenari del mondo, davanti alla guerra. La guerra è tornata sul suolo europeo con l’invasione russa della martoriata Ucraina e tuttora non si vede una via d’uscita. Questo nostro mondo globale continua a produrre conflitti e, per una serie di ragioni, per pluralità di attori e potenza degli armamenti, drammaticamente favorisce che le guerre si eternizzino senza finire, com’è oggi in Siria, dove – giustamente ricordava Andrea Riccardi – ci sono ragazzi la cui giovane vita ha visto solo il tempo di guerra.
L’incontro di questi giorni, significativamente intitolato Il grido della pace – viene da lontano. Dall’esperienza e dal lavoro della Comunità di Sant’Egidio, nata nel 1968 tra giovani, poveri e periferie. Un incontro che scaturisce dal grande secolo che fu il Novecento, ma anche tempo di terribili conflitti. Un Meeting finalizzato a fronteggiare la smemoratezza eccitata del presente. Scriveva Hannah Arendt: «memoria e profondità sono la stessa cosa, o meglio, l’uomo può raggiungere la profondità soltanto attraverso la memoria». La profondità – spiega Riccardi – è una risorsa di libertà di fronte ai prepotenti semplificatori del nostro tempo, invece in sé tanto complesso, anzi inspiegabile con le semplificazioni.
Le religioni non sono fossili, che la modernità e il pensare scientifico alla fine seppellirà, come credeva tanto pensiero pubblico occidentale. Lo intuì chiaramente, Giovanni Paolo II che propose il memorabile incontro del 1986 ad Assisi, la patria di San Francesco. Allora lì, Giovanni Paolo II propose una visione: le religioni, non l’una contro l’altra, ma insieme e che pregano per la pace. Una visione che superava l’ignoranza reciproca e i conflitti tra credenti. Era ancora il tempo della guerra fredda. Giovanni Paolo II guardò oltre e intuì che ogni religione, quando tende alla pace, dà il meglio di sé.
Sant’Egidio ha voluto tenacemente raccogliere e portare avanti lo “spirito di Assisi”. Per trentacinque anni, ha promosso incontri, creando una rete nell’amicizia e nello scambio, facendo tappa in varie parti del mondo, riunendo figure spirituali sapienti, cercatori di pace, animi inquieti, laici pensosi. Sempre in confronto con la realtà storica, umana e politica del momento. Il dialogo, anche quando avviene sull’Eterno, accade nella storia concreta, ha sostenuto Riccardi. In questo solco le parole sono importanti, ma pure i fatti: ad esempio, è nata la pace in Mozambico, dopo una guerra che ha provocato un milione di morti, negoziata trent’anni fa, nel 1992, a Roma, a Sant’Egidio.
La caduta del Muro e la globalizzazione sembravano aprire una stagione in cui realizzare le speranze del Novecento. Tutto – dall’economia, alla finanza, ai media – si unificava, inaugurando una bella epoca globale. Tuttavia, si trascurava in buona parte di negoziare con la globalizzazione vincente, alla quale veniva assegnato spesso il ruolo di provvidenza. Le religioni sono “le globalizzatrici originarie” – ha scritto Miroslav Volf-; professano valori universali e credono in un’unica famiglia umana. La globalizzazione resta una grande occasione per chi punta sul dialogo. Ma è necessario impegnarsi! Non a caso, il Presidente Macron è convinto che «non c’è nulla di più urgente oggi che accrescere la conoscenza reciproca dei popoli, delle culture e delle religioni».
Indubbiamente, il mondo globale ha portato la pace, ma anche ha prodotto tanta guerra. Assistiamo inesorabilmente alla scomparsa della generazione della seconda guerra mondiale e della Shoah in un mondo facile all’oblio. Nel contempo, negli anni, è cresciuta l’assuefazione all’idea che la guerra sia una compagna naturale della storia. Si è andato smorzando quel patrimonio di tensioni, ereditate dal Novecento che tendevano a unire i destini oltre i confini. Giorgio La Pira, il «sindaco santo» di Firenze, l’iniziatore dei dialoghi mediterranei, le chiamava “tensioni unitive”: tensioni alla pace, l’ecumenismo, la responsabilità verso i mondi più poveri, la cooperazione per una giustizia planetaria. Questo avviene oggi, proprio mentre la crisi della terra rivela, con un’evidenza indiscutibile, che abbiamo un solo destino: «tutti sulla stessa barca», ha detto papa Francesco durante la pandemia.
Mattarella ha sottolineato la convinzione che esistono «ampi spazi nei quali leader civili e religiosi, ciascuno nell’ambito e nel rispetto delle prerogative proprie, possono unire i loro sforzi per il bene collettivo universale». Evidentemente, «è compito delle istituzioni e dei leaders politici collaborare alla definizione di un ordine internazionale che sottragga alla tentazione della guerra». La condizione dei popoli è caratterizzata da forti disuguaglianze. Il rapporto Nord-Sud, in particolare – gravato da eredità e da condizioni contemporanee di grande sofferenza – «è lontano dall’aver raggiunto un accettabile equilibrio che riconosca la dignità di ogni essere umano. Il tema della emigrazione e della immigrazione, che ne sono conseguenza, chiama la coscienza di ciascuno a interrogarsi sulla effettiva, autentica applicazione della Carta internazionale dei diritti umani».
Dinanzi all’evocazione di scenari tanto terribili le nostre coscienze invocano la difesa di quel diritto alla pace. In tal senso, occorre ridare forza al multilateralismo, un sogno, immaginato nel calderone della prima guerra mondiale, che diede poi luogo alla Società delle Nazioni e infine all’ONU. Il sogno di una piazza dove ci sia posto per tutti i 193 paesi del mondo. Oggi, purtroppo, assistiamo questo disegno disfarsi progressivamente sotto i colpi dell‘ognuno per sé, del salva te stesso. Eppure siamo tutti sulla stessa barca, anche se non ce ne rendiamo conto. Senza il multilateralismo, cioè il dialogo tra tutti, la globalizzazione si ferma. Infatti la guerra in Ucraina ha fermato la globalizzazione, già rallentata dalla pandemia.
Ha osservato acutamente Mario Giro che la globalizzazione ha lasciato dietro di sé un grande delusione o disillusione: Non ha mantenuto le sue promesse e ognuno ha qualcosa da rimproverargli: la distribuzione della ricchezza diseguale; un ritorno della disoccupazione; un’ingiustizia nei profitti; una troppo forte diversificazione tra politica e economa; un’aggressione culturale e/o religiosa; l’affermazione di un modello su un altro e la lotta tra modelli e così via. Anche le stesse tecnologie avanzate sono state deludenti: non hanno portato quella prosperità generale che ci si aspettava quegli effetti positivi di tale prosperità. Tutti sono un po’ delusi «perché abbiamo puntato tutte le carte sulla prosperità che si è rivelata ingannevole o particolarmente esigente».
Il nostro mondo è fluido e pericoloso, non facile da gestire per nessuno, nemmeno per sistemi autoritari che sono troppo rigidi. Per questo – sottolinea Giro – «è il tempo giusto per le democrazie e per politiche come quella europea comune: più flessibili, progressive, condivise. E’ vero che la democrazia porta sempre un po’ di disordine ma è l’unico modo per coinvolgere la maggioranza e cercare di ascoltare tutti. Qui si vede l’essenzialità, la crucialità del multilateralismo. Se non ci fosse l’UE (o l’ONU) staremmo certamente peggio. Si litiga ma alla fine ci si aiuta».
Negli ultimi anni quando scoppia una guerra il pensiero si paralizza e tutti polemizzano su chi abbia torto e chi ragione. E’ il metodo mimetico della guerra: distogliere l’attenzione da sé per portarlo sui combattenti e sulle loro ragioni. Seguono – come nel conflitto ucraino – interminabili congetture e argomentazioni (che spesso sfociano in complottismi), piegando la realtà sulla base dei propri convincimenti. Nel frattempo – mimetizzata – la guerra va avanti e cerca di creare le condizioni (materiali e psicologiche) per il suo protrarsi, fino a diventare permanente. Più il conflitto dura e più si pongono le condizioni per quello successivo, cioè del ciclo infinito delle vendette. Ogni guerra prolungata – spiega Giro, conoscitore come pochi delle questioni africane con innumerevoli esperienze sul campo per la risoluzione di conflitti – crea le condizioni di quella successiva: «per capirlo basta un po’ di psicologia umana. Per questo va abbreviata e terminata quanto prima. Certo va terminata bene, con un accordo buono, non solo congelata».
La guerra è una questione troppo seria che necessita una lucida, anche se allarmata e urgente, riflessione su cosa dobbiamo fare, come europei e come italiani, per uscirne, per ricreare quel quadro multilaterale che ci salvi. Come italiani abbiamo – ricorda Giro – «la nostra tradizione repubblicana di cercare canali anche quando infuria la battaglia, senza mettere in dubbio le nostre appartenenze e alleanze: è figlia di una cultura politica democratica e trasversale. Si tratta della nobile arte del dialogo che non è un’ingenuità ma un realismo che immagina già oggi il domani. Un realismo fattivo che deve molto all’umanesimo italico costruito nei secoli e che mira alle tattiche elettive per risparmiare il sangue». Serve avere fiducia nel realismo della diplomazia. Pensare ad un domani di pace è la caratteristica delle democrazie: esse non vivono di guerra come i regimi autoritari. Mentre tutto minaccia di bruciare attorno a noi, occorre radunare le migliori energie ed intelligenze per trovare una via di uscita da questa guerra ridando fiducia al dialogo e al negoziato, senza che tale sforzo venga considerato scandaloso.
Per arrivare alla pace dobbiamo guarire dalla patologia della memoria dei torti e delle ragioni e guarire dalla superficialità, dalla polarizzazione, dagli schemi ideologici, ha sostenuto il Cardinale Zuppi in sintonia con il Magistero del Papa. Papa Francesco rileva che «velocemente dimentichiamo le lezioni della storia». Il suo auspicio resta che alla fine non ci siano più “gli altri”, ma solo un “noi” e che non sia stato «l’ennesimo grave evento storico da cui non siamo stati capaci di imparare». Dopo la seconda guerra mondiale tutti avevano chiaro che la terza sarebbe stata l’ultima. Alcuni poeti come Guccini si domandavano: «quando sarà che l’uomo potrà imparare a vivere senza ammazzare».
Solo dopo i milioni di morti della seconda guerra mondiale ci fu una decisione chiara per dare vita alle Nazioni Unite, per porre argine a tutte le ideologie totalitarie e per la difesa dei diritti di ogni persona. All’ingresso del Palazzo delle Nazioni Unite a New York c’è ancora una statua che raffigura una pistola la cui canna viene chiusa da un nodo. Oggi sentiamo troppo parlare di riarmo. In tal senso, occorre prendere in seria considerazione la richiesta di Papa Francesco a favore di una riforma perché l’Organizzazione delle Nazioni Unite «possa dare reale concretezza al concetto di famiglia di Nazioni» per «assicurare il dominio incontrastato del diritto e l’infaticabile ricorso al negoziato, ai buoni uffici e all’arbitrato». E perché questo avvenga «occorre evitare che questa Organizzazione sia delegittimata», per non porre gli interessi particolari di un Paese o di un gruppo al di sopra del bene comune mondiale. Combattiamo la pandemia della guerra come abbiamo combattuto quella del Covid.
Alcune consapevolezze per ciascuno. Non possiamo dire di non sapere e non vogliamo accettare l’amara legge del non si può fare nulla. Abbiamo capito nella pandemia che tutto in realtà ci riguarda, che è proprio vero che – come più volte sostenuto – siamo tutti sulla stessa barca!
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